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L’Autorità Uama presso il ministero degli Esteri nega ad Altreconomia l’accesso civico alle informazioni sull’export effettivo dall’inizio dei bombardamenti su Gaza. Tra le “ragioni” opposte il “nocumento al sistema di difesa nazionale” e la tutela della “confidenzialità” con Tel Aviv. Una tesi che contraddice le uscite del ministro Crosetto

I ministri Guido Crosetto e Antonio Tajani alla Camera dei Deputati © Stefano Carofei / Fotogramma
 Il governo italiano si rifiuta di dare informazioni precise su vendita ed esportazione di armi a Israele dal 7 ottobre 2023. L’Autorità nazionale Uama, ovvero l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento in seno al ministero degli Esteri, ha opposto infatti a metà gennaio un diniego totale alla richiesta di trasparenza avanzata tramite due accessi civici generalizzati da Altreconomia in merito sia al rilascio di nuove autorizzazioni all’esportazione sia alle esportazioni definitive di materiale d’armamento da Roma a Tel Aviv dall’inizio dei bombardamenti a tappeto sulla Striscia di Gaza. Lo stesso rifiuto ha riguardato anche la richiesta della copia dell’eventuale decreto di sospensione o revoca delle autorizzazioni all’esportazione di materiale d’armamento ai sensi della legge 185/1990 verso Israele firmato dal titolare della Farnesina, Antonio Tajani.

Nel provvedimento firmato dal vicedirettore Marcello Cavalcaselle, la Uama, pur ritenendo formalmente “inaccessibili” le informazioni richieste in termini “assoluti”, ha comunque tentato di giustificare nel merito il niet, adducendo tre motivazioni “relative”: il rischio di un “pregiudizio concreto alla tutela dell’interesse pubblico alla difesa e le questioni militari” e addirittura di “nocumento al sistema di difesa nazionale”, la “tutela dell’interesse pubblico alle relazioni internazionali” e della necessaria “confidenzialità” del “dialogo tra gli Stati” e, da ultimo, il non voler in alcun modo danneggiare gli “interessi economici” delle aziende esportatrici interessate.

Il mancato riscontro dell’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento stride non poco con le uscite via social del ministro della Difesa, Guido Crosetto, il quale il 15 novembre scorso volle in qualche modo tranquillizzare l’opinione pubblica sostenendo che le “vendite armi ad Israele” fossero state “sospese dopo il 7 ottobre”, polemizzando poi con le opposizioni in Parlamento per le cospicue autorizzazioni rilasciate negli anni precedenti. “Sarebbe meglio informarsi”, scrisse Crosetto. Peccato però che quell’invito all’approfondimento è pregiudicato in partenza.

Le “ragioni” per cui la Uama e il ministero degli Esteri si rifiutano di fornire oggi numeri, valori, descrizione delle categorie dei materiali autorizzati all’esportazione o esportati, ragione sociale delle ditte italiane autorizzate, così come il decreto di sospensione o revoca, sono però molto deboli. Tra pochi mesi, infatti, lo stesso governo sarà tenuto per legge (la 185 del 1990 che in tanti vogliono disinnescare) a informare il Parlamento anche sulla vendita di armi a Israele nel 2023 (su materiale autorizzato ed esportato, aziende, categorie, etc.). Non si capisce perciò quale “nocumento” possa determinare la divulgazione oggi di informazioni così attuali, importanti e drammatiche.

Anche la questione della tutela delle relazioni internazionali con Israele fa acqua. Scrive addirittura la Uama che la semplice “informazione circa la sussistenza o meno di decreti di sospensione in sé, indipendentemente dalla circostanza che siffatte tipologie di provvedimenti siano o meno state adottate, possa allo stesso modo arrecare potenziale, concreto pregiudizio alle relazioni internazionali citate, in quanto consentirebbe l’immissione nella conoscenza di processi di analisi e decisioni che toccano livelli di riservatezza nella gestione delle relazioni internazionali per come sopra qualificate”. Come se non si potesse nemmeno nominare l’eventuale sospensione, cosa che il ministro della Difesa ha invece (e paradossalmente) fatto via X.

“Se le ragioni addotte da Uama fossero vere -commenta a proposito Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Opal e della Rete italiana pace e disarmo- sarebbero proprio le affermazioni pubbliche del ministro Crosetto a ledere le relazioni internazionali e la necessaria confidenzialità tra gli Stati: il ministro, infatti via Twitter ha reso noto che ‘le vendite di armi a Israele sono state sospese dopo il 7 ottobre’. Affermazioni a cui organi di stampa nazionali e internazionali hanno dato ampio risalto. Le motivazioni di Uama appaiono pertanto pretestuose, ma soprattutto confermano quanto scrissi commentando le parole di Crosetto: ad essere sospese sono state soltanto eventuali nuove licenze, non le forniture di armamenti autorizzate a Israele negli anni scorsi. L’Italia sta tuttora inviando sistemi militari allo Stato di Israele contribuendo così ai crimini di cui è Israele è accusato in sede internazionale”.

L’Unità presso il ministero degli Esteri, però, non ci sente, sostenendo che la divulgazione delle informazioni “porrebbe a rischio il clima di confidenzialità attraverso il quale deve svolgersi il dialogo tra gli Stati che è indispensabile allo scopo di assicurare la fiducia reciproca nel consesso internazionale, nella totalità dei suoi delicati equilibri considerato, che caratterizza il dialogo tra i Paesi, tenuto conto dell’esigenza imprescindibile di dover garantire rapporti collaborazione, fiducia e riservatezza non soltanto nei confronti dello Stato oggetto della richiesta di cui si tratta, ma anche nei confronti di tutti gli Stati terzi”. Così la confidenzialità straccia la trasparenza. Con questo modo di fare, però, non si capisce chi dice il vero e chi il falso. A metà dicembre, infatti, alla Commissione Affari esteri e comunitari della Camera la sottosegretaria agli Esteri, Maria Tripodi, rispondendo a una domanda sul punto del deputato Arnaldo Lomuti (Movimento 5 stelle), affermò che “dallo scorso 7 ottobre non sono state rilasciate nuove autorizzazioni alla vendita di armamenti ad Israele”. Senza nulla dire rispetto a quelle già in essere e alle esportazioni definitive. Il silenzio della Uama fa rumore.

Ha collaborato Margherita Capacci

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Al suo primo test dopo il 2016 Donald Trump stravince come e più del previsto, stacca di 30 punti il suo clone DeSantis e ancora di più l’unica anti-trumpista del mazzo repubblicano, Nikki Haley. The Donald è tornato, ma non se n’era mai andato. E sono dolori per tutti

RIECCOLO. La sconfitta è Nikki Haley che sperava nel secondo posto, andato al governatore DeSantis

Alle primarie repubblicane dell’Iowa Donald Trump ha vinto, e ha proprio vinto tutto: non solo ha rispettato la soglia psicologica dello stare sopra il 50%, ma ha distaccato di 30 punti non la candidata che si era presentata come la sua alternativa, Nikki Haley, ma Ron De Santis, il candidato che è una sua copia che cerca di superarlo a destra. E questo risultato l’ha raggiunto facendo in tutto 7- 8 eventi in Iowa, al confronto di De Santis che negli ultimi mesi sembrava aver spostato lì la propria residenza , visto che ha passato più tempo nello stato del nord che nella soleggiata Florida.

Trump ha vinto almeno 20 dei 40 delegati dell’Iowa, con più del 50% dei voti. Si tratta del margine di vittoria più ampio nello stato dal 1988. Come se non bastasse, dopo la sua vittoria un altro candidato, Vivek Ramaswamy, ha sospeso la campagna elettorale e dato l’endorsement a Trump, consegnandogli il suo 7% di preferenze.

IN RISPOSTA alla vittoria di Trump, il presidente Joe Biden ha dichiarato: «Il punto è questo: le elezioni vedranno me e voi contro i repubblicani estremisti Maga (Make America Great Again, come da slogan di Trump ndr). Era vero ieri e sarà vero domani». In effetti questa è stata una vittoria più che annunciata e anticipata da mesi di sondaggi favorevoli che davano Trump in testa a tutti: un commentatore politico statunitense, nei giorni del voto in Iowa, ha più volte ripetuto che

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Si apre in Svizzera il vertice dei super ricchi. Chiusi nell’hotel Edelweiss, cercano «stabilità» in un mondo devastato da speculazioni e disuguaglianze. Che aumentano ancora, dice una ricerca: i primi cinque miliardari del pianeta hanno raddoppiato i loro patrimoni

IL CASO. Il 54esimo forum mondiale dell’economia cerca di ristabilire la «fiducia» in un sistema frammentato che ha perso credibilità. In Svizzera 60 capi di Stato, 2800 invitati, le proteste contro il «greenwashing». Oxfam denuncia l’arricchimento dei miliardari e l’impoverimento dei salari e di intere popolazioni

Alla fiera di Davos le disuguaglianze oscene del capitale Proteste a Davos - Ap

Saluti dalla 54esima edizione del World Economic Forum di Davos dove prevalgono la paura, la volatilità e il timore dell’instabilità: le passioni dominanti nel capitalismo finanziario. A questi umori tendenti al tetro allude il tema che sarà discusso fino a venerdì: la «fiducia». «Ci troviamo in un mondo fratturato e a divisioni sociali sempre più profonde, che portano a un’incertezza e a un pessimismo diffusi. Dobbiamo ricostruire la fiducia» ha detto l’ottantacinquenne Klaus Schwab, già docente all’università di Ginevra, patron della kermesse svizzera diventata un’impresa di successo. Vasto programma per un capitalismo che prospera in borsa sulle altalenanti passioni tristi. Quella di Schwab è un’invocazione alla Moira, la forza superiore alla volontà degli dèi. Fosche restano le previsioni sulla globalizzazione neoliberale, la divinità celebrata dal 1971 tra queste alture svizzere dove Thomas Mann ha disegnato il paesaggio per la sua Montagna incantata.

A QUESTA SEDUTA spiritica quest’anno parteciperanno 2800 uomini e donne d’affari e sessanta capi di stato. Un kolossal tanto spettacolare, quanto ornamentale dal punto di

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Nella Coppa d’Asia oggi in Qatar scende in campo la nazionale di calcio palestinese. Le mancano gli atleti uccisi da Israele e anche gli stadi, usati dall’esercito di Tel Aviv come prigioni nella guerra di Gaza che compie 100 giorni. Ieri il numero dei morti è salito ancora: 23.843

GAZA/ISRAELE. Tre mesi di guerra, 23.843 palestinesi uccisi. L'Onu denuncia le condizioni orribili di Gaza. In Israele le famiglie degli ostaggi chiedono il loro rilascio. A Tel Aviv manifestazione per le dimissioni di Netanyahu

  Gaza, 100 giorni dal 7 ottobre - Ap

 Quando le raffiche e le esplosioni si placano e solo il ronzio dei droni rompe il silenzio delle macerie di Gaza, i pazienti in grado di camminare provano a lasciare l’ospedale Al Aqsa, nel centro della Striscia sotto attacco. È rischioso, devono attraversare una zona di guerra proclamata dall’esercito israeliano. Eppure, lo fanno perché sono disperati. Monther Abu Their è riuscito ad allontanarsi quattro giorni fa. «Dentro l’ospedale non mi sentivo sicuro, le esplosioni erano sempre più vicine. Mi sono armato di coraggio e sono uscito. Ho camminato temendo di essere colpito da una raffica. Dio mi ha protetto e sono riuscito a raggiungere senza danni un gruppo di persone», ha raccontato Abu Their a un giornalista palestinese. Nell’ospedale Al-Aqsa non c’è più energia elettrica, i generatori autonomi sono fermi e l’assistenza a feriti e ammalati è minima. «È molto rischioso per i pazienti che stanno cercando di andarsene», ha spiegato il dottor Tareq Abu Azzoum alla tv Al Jazeera «l’ospedale si trova in un’area considerata una zona di battaglia». Azzoum ha aggiunto che le forze israeliane si sono posizionate a poche centinaia di metri dalla struttura sanitaria mentre cercano di prendere il pieno controllo della superstrada Salah al-Din che attraversava tutta Gaza prima di essere distrutta in più punti dai bombardamenti aerei e dal passaggio di bulldozer e carri armati. Simile a quella dell’ospedale Al Aqsa è la situazione al Nasser di Khan Yunis. Filmati diffusi dall’agenzia Reuters mostrano pazienti sdraiati su barelle nei corridoi dell’ospedale e medici che utilizzano i telefoni cellulari per illuminare i pazienti. «Non abbiamo più posti letti. I medicinali all’interno del pronto soccorso sono insufficienti. Stiamo cercando di trovare alternative» ha avvertito il dottor Mohammed al Qidra.

Parole che contrastano con la versione del «rispetto dei civili e delle leggi umanitarie internazionali a Gaza» data dall’esercito israeliano ripetuta decine di volte in questi giorni dai

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Il Vaticano dice no a Leonardo: rifiutato 1 milione e mezzo destinato al Bambin Gesù. “Inopportuno in questo periodo di guerre”

Il “no grazie” del Vaticano alla donazione di un milione e mezzo di euro di Leonardo per l’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, ha fatto storcere il naso al colosso industriale italiano. Un regalo “inopportuno” in questo periodo di guerra per la Santa Sede, proprietaria dell’ospedale infantile. I fondi sarebbero serviti per l’acquisto di una Pec Tac per i piccoli pazienti colpiti da malattie rare, ma il Vaticano ha fatto sapere di non poterli accettare: una scelta in linea con le numerose dichiarazioni di Papa Francesco contro l’industria militare.

La società attiva nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza (della quale il Ministero dell’economia e delle finanze italiano possiede circa il 30% delle azioni) ha replicato in maniera secca: “In tutti i teatri di guerra in corso, a partire dall’Ucraina e dal Medio Oriente, non c’è nessun sistema offensivo di nostra produzione“, dichiarano da Leonardo a Repubblica: “Noi – hanno aggiunto – lavoriamo per la sicurezza con sistemi all’avanguardia, droni per la vigilanza, ma niente armi. Non capiamo questo rifiuto”.

Ma è davvero così? Su X Giorgio Beretta – analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e della Rete italiana pace e disarmo – pone un domanda all’azienda. Se è vero che nei teatri di guerra non c’è “nessun sistema offensivo” di loro produzione, può Leonardo “spiegare questi pagamenti ricevuti dallo Stato di Israele per sistemi militari?”. Nel suo post allega un’immagine con una serie di pagamenti per milioni di euro relative a esportazioni di Leonardo proprio a Tel Aviv.

L’immagine riprende una parte della relazione “Sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento“. Il report – presentato al Senato dal sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri Alfredo Mantovano, il 9 maggio 2023 – fa il punto anche sull’export di armi e attrezzature militari relative all’anno 2022. Nel primo volume sono presenti il numero e l’importo delle autorizzazioni concesse: dal primo gennaio al 31 dicembre del 2002 sono state 25 la autorizzazioni per esportazioni verso Israele per un valore complessivo di oltre 9 milioni di euro (erano state oltre 12 milioni nel 2021, oltre 21 milioni nel 2020 e quasi 29 milioni nel 2019).

Nel secondo volume è invece presente una scheda del Ministero dell’Economia relativa ai pagamenti dei vari Stati alle aziende italiane che hanno esportato materiali di armamento. E nel 2022 da Israele sono arrivati quasi 30 milioni di euro ad aziende italiane (29.945.448,62 per l’esattezza). Un dato differente rispetto agli oltre 9 milioni presenti nel primo volume del report perché comprende anche tranche di pagamenti di forniture già autorizzate negli anni precedenti. E di questi quasi 30 milioni pagati “dall’utilizzatore finale Israele”, circa il 78% sono destinati proprio a Leonardo Spa: oltre 23 milioni come “importo transazioni” e altri 250 mila euro per “compensi intermediazioni”, “oneri bancari”, “penali” e altro. In definitiva oltre 23 milioni e 300 mila euro sono arrivati a Leonardo da Tel Aviv.

Cosa ci sia dietro questi pagamenti non è chiaro. Nel report non vengono pubblicati i dettagli dei prodotti esportati e i tipi di materiali forniti. Proprio per questo Giorgio Beretta chiede trasparenza: “Leonardo dice di esportare solo sistemi difensivi e droni. Bene, allora ci dica a cosa si riferiscono nel dettaglio tutti questi pagamenti”, spiega l’analista al fattoquotidiano.it. “Se il Papa ha fatto bene a rifiutare la donazione? È un’azienda che produce sistemi militari e che esporta in tutti i paesi (che l’Italia autorizza), anche in quelli dove ci sono conflitti in atto o violazioni di diritti umani, mi sembra che il Papa abbia fatto bene viste la sue posizioni”, commenta Beretta. “L’importante per l’azienda – conclude – è ricevere l’autorizzazione, non ha nessun codice etico e quello che il Vaticano sta chiedendo è proprio questo: che l’azienda si assuma le proprie responsabilità”.

Riamane poi il solito dilemma relativo alla definizione di “sistemi offensivi” o “difensivi”. Un esempio riguarda i veicoli di addestramento: i piloti che da ottobre bombardano la Striscia di Gaza si sono esercitati su aerei e simulatori dell’ex Finmeccanica, oggi Leonardo. Nel 2012 (anno dell’aumento esponenziale delle esportazioni – ma anche delle importazioni – di materiali militari a Israele) viene annunciata dall’allora presidente del Consiglio Mario Monti la definizione del contratto per la fornitura all’Aeronautica Militare Israeliana di 30 velivoli d’addestramento M-346 prodotti dalla Alenia-Aermacchi. “Un contratto, che faceva seguito agli accordi presi dal precedente governo Berlusconi per un pacchetto di acquisti reciproci, di cui ha beneficiato l’azienda del gruppo Finmeccanica (oggi Leonardo), mentre i contribuenti italiani hanno pagato il corrispettivo, per oltre 850 milioni di euro, di tecnologia aerospaziale acquistata da Israele“, scriveva già nel 2021 Beretta sul sito osservatoriodiritti.it.

I 30 aerei sono stati consegnati tra il 2014 e il 2016. L’M-346 è un velivolo bimotore e biposto per l’addestramento avanzato dei piloti militari, prodotto dal colosso industriale italiano: come si legge sul sito di Leonardo, l’aereo “può ricoprire efficacemente i ruoli di ‘aggressor’, per le esercitazioni, e di ‘companion’, per mantenere un adeguato livello di prontezza operativa dei piloti da combattimento, garantendo alle forze aeree massima efficienza, efficacia, comunanza, flessibilità operativa e capacità di addestramento al combattimento“. Leonardo ha anche progettato l’M-346FA, la variante “da combattimento” (che può quindi caricare armi) dell’aereo di addestramento che, al momento, non risulta in possesso all’aviazione israeliana. Di certo a Tel Aviv sono entusiasti: “Il vantaggio è che puoi effettuare tutte le missioni, anche quelle operative“, ha affermato il generale israeliano Avi Maor sul sito blogbeforeflight.net: “È molto semplice passare da un M-346 a un vero caccia – ha aggiunto – perché è molto simile. Impari a combattere e passi direttamente al vero aereo da combattimento, non hai bisogno di un nuovo addestramento”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/01/12/papa-leonardo-business-israele-sistemi-militari-ex-finmeccanica/7408270/

 

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VERTICE SULLE RIFORME. Tutti gli «eventuali» emendamenti saranno concordati dai gruppi senza «fughe in avanti»

Premierato, la maggioranza non ascolta il partito del Quirinale Il palazzo del Quirinale - foto LaPresse

Il termine per presentare gli emendamenti al ddl Casellati sul premierato elettivo è fissato al 27 gennaio, un’eternità nella tempistica della politica italiana che si fonda sull’efficacia di un post su X o su Instagram. Perché dunque la maggioranza ha deciso di anticipare a ieri mattina il vertice sul premierato? La risposta a questa domanda spiega anche l’esito dell’incontro a cui erano presenti i ministri Casellati e Ciriani, i capigruppo del centrodestra in commissione Affari costituzionali del Senato, i presidenti dei gruppi Malan, Romeo e Gasparri, il presidente della commissione e relatore Alberto Balboni e il libero pensatore Marcello Pera, unico a non avere i requisiti di un titolo per essere presente.

L’anticipazione del vertice era dovuta alla necessità di dare subito una risposta al “partito del Quirinale”, che nell’ultima giornata di audizione, martedì scorso, attraverso Sabino Cassese aveva lanciato un appello alla maggioranza: rinunciare all’elezione diretta del premier, varare una riforma condivisa con almeno parte delle opposizioni e intervenire semmai sui poteri del premier e sulla legge elettorale per dare stabilità agli esecutivi.

Al vertice di ieri mattina è emerso un “non possumus” a tale richiesta. All’uscita tutti i partecipanti hanno espresso due concetti: in primo luogo tutte le eventuali modifiche saranno concordate e gli «eventuali emendamenti» (sintagma ripetuto da tutti) saranno concordati tra i gruppi, con emendamenti firmati da tutti i capigruppo o, meglio ancora, dal relatore Balboni, che nel suo ruolo può presentarli anche dopo la scadenza del 27 gennaio; il secondo concetto è che l’elezione diretta del premier «è irrinunciabile» come ha chiarito Casellati.

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Insomma il “partito del Quirinale” se ne faccia una ragione, e il Colle si acconci a gestire una fase di scontro politico ancora più acceso, con buona pace del messaggio di fine anno e il suo appello all’unità di intenti. «Non ci saranno fughe in avanti né da parte dei singoli gruppi né da parte dei singoli senatori» sugli emendamenti, ha pure affermato Ciriani: insomma anche Pera si è adeguato al mood gladiatorio di Meloni. Il suo desiderio di fare da grande mediatore per ora va nel cassetto.

Sui contenuti si è entrati solo relativamente nel merito, accordandosi sul fatto che la Lega è disposta a cedere su alcuni punti (per esempio sulla la cosiddetta norma antiribaltone, ma per ora non sulla fiducia del parlamento al governo nonostante l’elezione popolare del premier), avendo la certezza di condurre in porto entro fine mese l’Autonomia differenziata, che sarà in Aula il 16 gennaio dopo che la maggioranza ha impedito che – come sarebbe stato logico – si discutesse prima il disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare che se approvato imporrebbe di rivedere del tutto il disegno di legge Calderoli. Comunque sia, «prima vedere cammello» dell’Autonomia: quindi nuovo vertice a ridosso del 27 gennaio.

L’intenzione spiegata da Balboni è di concludere i lavori entro febbraio, e portare in Aula la riforma a marzo. Questo permetterebbe di concludere la doppia lettura conforme anche alla Camera prima delle europee di giugno? Piuttosto difficile, anche perché Montecitorio non dovrebbe mutare nemmeno una virgola. Molto dipenderà anche da come le opposizioni riusciranno a condurre la battaglia parlamentare e da come il mondo sociale ed accademico – espressosi in massa contro il ddl – saprà far sentire la propria voce. Ma potrebbe anche darsi che Meloni non spinga per il sì della Camera prima delle europee. Anche per non accelerare il referendum confermativo alla primavera 2025.

Il referendum dunque. Sarà una vera elezione di mid term e qualsiasi premier e governo lo temerebbe, specie nello scenario identico a quello di Renzi del 2016, vale a dire «noi contro il resto del mondo». Meloni tuttavia non lo teme, ed è questo l’input che ha fatto da cornice al vertice sul premierato. Perché? Qualcuno sostiene sia l’hybris che colpisce tutti i parvenu (o underdog) che arrivano a Palazzo Chigi. Ma nella maggioranza c’è la convinzione che la partita sarebbe vinta in un confronto personalizzato, Meloni contro Schlein e il suo malconcio Pd, o anche contro Conte, se ci sarà il sorpasso alle europee

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