Opinioni Oggi la “questione sociale” va ben oltre lo sfruttamento, perché coinvolge gruppi che nel mondo del lavoro non hanno alcun ruolo, o se lo hanno, lo hanno in modalità che ne impediscono l’organizzazione stabile
La presa di posizione netta di Elly Schlein sui quesiti referendari è senza dubbio un segnale importante, da salutare con favore. Una rottura con le scelte fatte dallo stesso Pd nel periodo in cui la direzione del partito, guidata da Matteo Renzi, si era allineata completamente all’indirizzo neoliberale che si era già affermato in buona parte dei partiti socialisti europei e nel partito Democratico statunitense.
L’idea di fondo era di venire incontro alle richieste di flessibilità del lavoro subordinato che arrivavano dalle imprese, nella speranza che questo avrebbe rilanciato un’economia in affanno. Oggi, alcuni promotori di quelle politiche fanno una parziale autocritica, dicendo che gli effetti benefici attesi non si sono ottenuti.
Perché non è stata realizzata «l’altra gamba» della riforma, ovvero le «politiche attive» in difesa dei posti di lavoro. Una scusa che ignora consapevolmente il fatto che la responsabilità di questa mancanza cade in gran parte proprio su chi ha voluto e realizzato gli interventi per aumentare la flessibilità, ovvero il gruppo dirigente del Pd di quegli anni (che oggi si è disperso in parte, dando vita a diverse formazioni centriste, ma mantenendo una presenza significativa nel partito di origine).
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Mattarella: «Non c’è pace senza salari equi»Se le politiche in difesa dei posti di lavoro fossero state sostenute con la stessa energia con cui si condusse l’attacco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, forse il risultato sarebbe stato meno iniquo. In ogni caso, la situazione odierna è molto diversa da quella di dieci anni fa, e riportare il Pd su una linea di vigorosa difesa dei diritti dei lavoratori è una scelta necessaria e coraggiosa. Necessaria perché in linea con la letteratura economica recente, che ha ridimensionato l’efficacia della flessibilità come stimolo della produttività, e coraggiosa perché la resistenza (all’interno e all’esterno del partito) alla linea indicata da Schlein sarà senza dubbio aggressiva, come mostrano le polemiche di questi giorni.
Chiarito questo punto, credo sia opportuno allargare lo sguardo pensando al futuro indipendentemente dal risultato dei referendum. L’idea che il Pd deve tornare a essere il partito del lavoro, condivisibile, sul piano tattico, deve essere articolata per diventare una strategia politica di lungo periodo, e questo richiede una riflessione su cosa sia oggi il lavoro, e in che misura esso sia una categoria sufficiente a fare da perno al rilancio dell’iniziativa della sinistra.
La questione non è nuova. Se la poneva già Eric Hobsbawm nel 1978, quando si chiedeva se la spinta del Labour (la parola in inglese non indica solo un partito, ma il movimento dei lavoratori nel suo complesso) non si fosse arrestata in seguito alle profonde trasformazioni sociali ed economiche del secondo dopoguerra. Hobsbawm partiva dalla situazione britannica, e dalla sfida lanciata dai Conservatori guidati da Margaret Thatcher, ma le sue osservazioni si potevano già allora estendere a altri paesi, e sono ancora degne di attenzione. La spinta in avanti del Labour era infatti figlia di condizioni storiche che stavano mutando negli anni Settanta, e che è improbabile si possano ripristinare.
Oggi il mondo del lavoro è diviso e frammentato sia sul piano del ruolo che i diversi lavori hanno nelle economie capitaliste, sia sul piano – essenziale dal punto di vista politico – della coscienza di classe. La fabbrica fordista era l’ambiente privilegiato in cui si formava l’identità dei militanti del movimento operaio. La prospettiva temporale su cui si proiettava normalmente la produzione industriale (pensiamo agli stabilimenti torinesi e milanesi) agevolava processi di apprendimento che favorivano la consapevolezza di un interesse comune dei lavoratori, in grado di sopravvivere alle crisi e al ricambio generazionale nella composizione della forza lavoro.
La localizzazione della produzione, infine, offriva al movimento uno sfondo di socialità (circoli ricreativi, associazioni, sezioni di partito) che saldava le lotte operaie a quelle sociali e politiche. Se pensiamo alla relativa solitudine in cui si trovano oggi i lavoratori di Gkn in difesa del proprio posto di lavoro, ci rendiamo immediatamente conto che non basta dire «torniamo davanti alle fabbriche» se le fabbriche stesse sono diventate delle isole con collegamenti sempre meno efficaci con la terra ferma. La globalizzazione dell’economia non ha condotto a una globalizzazione della lotta di classe, ma ha invece risvegliato il nazionalismo.
C’è poi una questione di fondo, con cui è essenziale fare i conti. La centralità del lavoro per il movimento operaio e socialista non era solo un fatto, era anche una premessa morale, legata all’idea che il lavoro è una fonte del valore, e che la motivazione di fondo delle lotte non fosse semplicemente portare avanti rivendicazioni salariali, ma combattere lo sfruttamento inteso come appropriazione da parte del capitale di una parte dei frutti del lavoro.
Oggi la “questione sociale” va ben oltre lo sfruttamento, perché coinvolge gruppi che nel mondo del lavoro non hanno alcun ruolo, o se lo hanno, lo hanno in modalità che ne impediscono l’organizzazione stabile e l’inserimento all’interno delle dinamiche note del conflitto di classe. Le nostre società sono profondamente ingiuste, ma lo sfruttamento del lavoro rende conto solo in parte di queste ingiustizie. Tornare davanti alle fabbriche è un passo nella giusta direzione, ma non facciamoci illusioni, è solo il primo passo.