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Cittadinanza Cambiarla non significa fare un favore o elargire un privilegio, ma rimuovere un ostacolo inutile e ingiusto

Referendum Cittadinanza

 

Cambiarla non significa fare un favore o elargire un privilegio, ma rimuovere un ostacolo inutile e ingiusto che crea «italiani a metà» per richiamare il titolo del libro di Roberta Ricucci. Perché questo è il primo problema che una vittoria al sì contribuirebbe a risolvere. Un’anomalia italiana: siamo il Paese con una normativa tra le più restrittive in Europa. Francia e Germania richiedono 5 anni di residenza per la naturalizzazione, mentre l’Italia ne richiede 10.

Si smetterebbe così, almeno in parte, di penalizzare una fetta consistente di persone che vivono e lavorano in Italia e non – come la destra suggerisce – conferire un diritto «speciale», se non un vantaggio, riservato a pochi. Una normalizzazione che interesserebbe persone che hanno amici italiani, lavorano con noi o per noi, a volte sono ospiti a casa nostra, o con i quali condividiamo gioie e preoccupazioni per i figli che crescono. Persone, però, che non hanno la cittadinanza italiana, che non godono dei nostri stessi diritti e che non beneficiano dell’appartenenza piena alla comunità. Tra questi, anche molti giovani nati o cresciuti in Italia da genitori stranieri che si trovano in una sorta di limbo legale. Situazioni che possono trovare equilibri locali fortunati in relazione alle politiche locali, alla forza sana del tessuto civile e imprenditoriale, alla presenza di tradizioni sociali più o meno consolidate, come racconta nei suoi lavori Tiziana Caponio che ha studiato a lungo il tema.

Le persone che beneficerebbero di una vittoria del sì hanno costruito qui la loro vita quotidiana, relazioni, affetti e progetti per il futuro. Ci hanno dato fiducia, hanno modellato la loro identità in relazione alla nostra. Si sono adattate alle nostre istituzioni e leggi, ai nostri usi e costumi. Imparato la nostra lingua e studiato la nostra storia. Accettato le nostre idiosincrasie e pregiudizi. Apprezzato la nostra amicizia e collaborazione. La posta in gioco, dunque, è anche politica. Anche più dei quesiti referendari sul lavoro, questo referendum raccoglie consensi trasversali che tracciano una sorta di linea di «resistenza civile» che va dal mondo cattolico, a quello liberale agli elettori di sinistra. Dire sì significa anche riconoscersi in un minimo comune denominatore che non si accontenta di essere «non fascista», ma è apertamente ostile al nazionalismo becero e retrogrado che contraddistingue l’azione della destra al potere.

Con il sì al referendum possiamo rifiutare la malsana idea che la cittadinanza debba essere concessa solo a chi dimostra un «reale» legame con l’Italia Da noi, infatti, l’accesso alla cittadinanza resta subordinato a una logica paradossale: devi essere già «integrato» per diventare cittadino. E più lunga è l’attesa – «dopo dieci anni di residenza continuativa legale» – più si è degni di ricevere la cittadinanza. Una metrica bizzarra e priva di fondamento, che decenni di senso comune di destra hanno sedimentato nella narrazione pubblica, a prescindere dai governi e dai ministri. La ricerca scientifica dice l’opposto: è ottenere la cittadinanza a generare integrazione, non viceversa. E più velocemente si ottiene, prima inizia il percorso di integrazione. Non esiste un tempo giusto «che deve passare»: perché dieci anni e non otto? Oppure quindici? O tre? È una scelta politica, che lancia un segnale morale: «noi» siamo i buoni a cui gli «altri» devono dimostrare di assomigliare. Come per la povertà, devi essere «meritevole» per poter ricevere. Solo che porre un lungo apprendistato per diventare italiani come prerequisito per la concessione della cittadinanza (di questo si tratta, non di automatismi tipo ius soli), è in palese contraddizione con ciò che la ricerca ha ampiamente mostrato. Sono ormai numerosi gli studi a sostegno del fatto che chi ottiene la cittadinanza lavora di più, guadagna di più, ha maggiore fiducia nelle istituzioni e migliori risultati scolastici (su questo rimando a Camilla Borgna, Studiare da stranieri, Il Mulino). Non si tratta di un’opinione. Le ricerche sono solide e convergenti: l’accesso alla cittadinanza produce inclusione.

La cittadinanza non è un premio, ma un diritto frenato da sbloccare. Nelle ore che mancano al referendum, a ogni potenziale non votante bisogna chiedere: perché vuoi che persone che parlano la tua stessa lingua, a volte il tuo dialetto, e hanno le tue stesse aspirazioni, non si sentano italiani a pieno titolo?