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Economia La manovra di finanza pubblica in cantiere mostra un’inerzia verso lo sviluppo del governo - pronto solo nell’aumentare esponenzialmente la spesa militare e nel negare la restituzione del fiscal drug ai lavoratori e ai pensionati - a cui corrisponde la stasi dell’economia in un momento in cui, invece, massimo sarebbe il bisogno di impulsi positivi

ikon Illustrazione – Ikon

La manovra di finanza pubblica in cantiere mostra un’inerzia verso lo sviluppo del governo – pronto solo nell’aumentare esponenzialmente la spesa militare e nel negare la restituzione del fiscal drug ai lavoratori e ai pensionati – a cui corrisponde la stasi dell’economia in un momento in cui, invece, massimo sarebbe il bisogno di impulsi positivi, a partire dagli investimenti dopo il vicino esaurirsi di quelli del Pnrr. Infatti, a livello mondiale osserviamo una tendenza alla stagnazione di lungo periodo somigliante alla secular stagnation che preoccupò Keynes negli anni ’30. Una tendenza che il mondo sta sperimentando da tempo, fin dagli anni ’70 del Novecento, che si è aggravata con la tempesta finanziaria del 2007/2008 e che oggi si ripropone in tutto il mondo sviluppato, manifestandosi in bassa crescita, produttività declinante, invecchiamento della forza-lavoro.

Per molto tempo le economie del G20 sono cresciute regolarmente del 2 o del 3% l’anno raddoppiando i redditi ogni 25 o 35 anni, ora i tassi di crescita sono tra lo 0,5 e l’1, il che significa che i redditi impiegano dai 70 ai 100 anni per raddoppiare: pertanto, una stagnazione non assoluta ma percepibile e influenzante le aspettative. Infatti, con l’espressione “stagnazione” dobbiamo intendere non tassi di incremento del Pil quantitativamente bassi o nulli (che in effetti non si verificano), ma un’economia drogata a bassi investimenti (basata su una combinazione di crescente diseguaglianza, disoccupazione esplicita o strisciante, bassa produttività), in grado di realizzare una crescita ordinaria solo mediante politiche straordinarie e speciali condizioni finanziarie, le quali, però, incoraggiano il rischio finanziario, un indebitamento malsano, la formazione di bolle (azionarie e non solo) che, a loro volta, pongono le premesse per nuove crisi.

Nell’attuale contesto stagnazionistico molte compagnie e imprese hanno scelto la strada, piuttosto che di reinvestire i profitti in innovazione e occupazione, di ricorrere alla droga dell’armamentario finanziario alimentandone la superfetazione: stock buybacks, dividendi, priorità ai payout finanziari che innalzano i prezzi delle quote azionarie e delle compensazioni manageriali. Proprio da qui, dal circolo vizioso di crescente diseguaglianza, domanda frenata, bassa crescita, nasce anche la guerra economica di Trump. Le tariffe trumpiane accentuano le difficoltà ma i problemi sono antecedenti. Anche il giusto richiamo di autori come Dani Rodrik a considerare quanto la specificità del modello conosciuto come “export-oriented industrialization”, e il suo progressivo esaurirsi, sia alla base dello scatenamento della guerra di Trump, ha a che fare con qualcosa che somiglia alla secular stagnation.

Più in particolare Rodrik argomenta che la prospettiva di allargamento della democrazia e il sentiero di apertura dell’economia mondiale promossi sotto la leadership americana dopo la seconda guerra mondiale e seguito per decenni prima dai paesi europei – tra cui l’Italia – poi dai paesi sottosviluppati verso lo sviluppo, e verso l’uscita dalla povertà, è stato il medesimo per tutti: “Fare cose e venderle all’estero”. Gli Usa hanno accolto una marea di prodotti e hanno mantenuto, grazie al signoraggio del dollaro, flussi di capitale conseguenti: gli attuali deficit commerciali statunitensi ci dicono che i flussi di capitale esteri hanno permesso ai cittadini americani di vivere al di sopra delle proprie possibilità comprando di più di quanto riuscivano a vendere all’estero, dunque indebitandosi.

Ora sono in molti a ritenere che da una parte l’indebitamento americano è divenuto troppo elevato, dall’altra parte che il sentiero export-led è sempre più difficilmente praticabile per gli stessi paesi esportatori, in conseguenza di cambiamenti sociali e tecnologici (automazione, robot, 3-D printing, ecc.), grazie ai quali le macchine sostituiscono crescentemente i lavoratori, vanificando il maggior vantaggio competitivo delle “nazioni povere” e cioè il loro abbondante lavoro a basso costo, e i processi democratici vengono alterati e deformati. La spinta terribile agli armamenti e la stessa forsennata rincorsa che si è scatenata perché gli Stati Uniti vogliono essere i primi nell’Intelligenza Artificiale sono interpretabili come un modo per uscire dai rischi di stagnazione, nella speranza che l’IA ravvivi la produttività nel settore dei servizi sempre più dominante nel futuro, anche se finora la speranza è stata largamente delusa.

In verità per riaccendere la crescita tutti i paesi – gli sviluppati come gli emergenti – sono di fronte a una svolta: sviluppare la loro domanda interna, puntare sugli investimenti pubblici, far crescere la loro classe media, mettere in grado i loro settori dei servizi di creare lavori di buona qualità. In particolare i paesi europei e soprattutto l’Italia – che hanno risposto alle crisi del 2008 e del 2012 con austerità e svalutazione del lavoro per trarne vantaggi competitivi di costo a sostegno di politiche neomercantilistiche vieppiù proiettate sulle esportazioni – debbono maturare la consapevolezza che politiche fondate sull’austerità e sulla contrazione dei salari per esportare non sono meno dannose dei dazi.