Trump Power L'accordo tra Israele e Hamas, in corso di attuazione è stato accolto con sincero entusiasmo in tutto il mondo, tanto da far assaporare per la prima volta all'amministrazione Trump qualcosa di prossimo a un consenso globale
Jared Kushner – Kevin Lamarque/CNP via ZUMA Press Wire
L’accordo tra Israele e Hamas, in corso di attuazione è stato accolto con sincero entusiasmo in tutto il mondo, tanto da far assaporare per la prima volta all’amministrazione Trump qualcosa di prossimo a un consenso globale. Al sollievo per la fine della carneficina e la probabile liberazione di ostaggi e detenuti si sono intrecciate però fin da principio le incertezze e le perplessità sul futuro. Ad alimentare i dubbi è la vaghezza dell’accordo sui prossimi passaggi in calendario: dalla cessione del potere a un’amministrazione provvisoria a guida americana fino ai programmi di ricostruzione, dominati dal progetto di una “riviera di Gaza” disegnata su misura per la speculazione immobiliare.
La vaghezza non è solo il riflesso dei tanti problemi irrisolti e del precario equilibrio tra le forze in campo. Dipende anche da un tratto specifico che rende l’attuale accordo del tutto eterogeneo rispetto agli standard della diplomazia moderna, tanto da farne l’avvisaglia di un sistema di relazioni internazionali ancora in gestazione, carico di incertezze e di pericoli. Il tratto in questione è la definitiva simbiosi tra l’autorità pubblica e gli interessi privati, la politica e gli affari, il potere e il denaro. Due dimensioni che, ovviamente, non sono state mai del tutto separate, se non nelle teorie più astratte della politica e del diritto. Ma che non hanno mai raggiunto un punto di fusione così completo come nelle negoziazioni che hanno portato all’accordo di Sharm el-Sheikh.
Nessuno forse incarna una tale fusione meglio di Jaquestared Kushner, il genero di Trump che, pur non rivestendo alcuna carica ufficiale nell’attuale amministrazione, è stato uno dei principali architetti dell’accordo. Sembra sia stato lui a ottenere il consenso di Turchia e Qatar, gli unici in grado di esercitare una pressione su Hamas. Ed è a lui che si devono, fin da principio, le due intuizioni diplomatico-affaristiche che hanno scandito sotterraneamente il destino di Gaza fin da prima del 7 ottobre del 2023: il progetto di uno sfruttamento intensivo della Striscia come potenziale “miniera immobiliare” e, prima ancora, gli accordi di Abramo, che avrebbero dovuto normalizzare i rapporti commerciali tra Israele e le monarchie del Golfo, neutralizzando sia la questione palestinese sia le ambizioni egemoniche dell’Iran.
Kushner non è solo un immobiliarista, come lo sono del resto anche Steve Witkoff e lo stesso Trump. È anche il fondatore e leader di una società finanziaria privata, la Affinity Partners, il cui maggior azionista è il Fondo Pubblico di Investimento dell’Arabia Saudita, che ha investito più di due miliardi nell’azienda fin dalla sua fondazione nel 2021. Obiettivo del gruppo è investire in società di hi-tech americane e, soprattutto, israeliane. E, per l’appunto, il fondo detiene attualmente quote significative di due società israeliane di cui non è stata resa pubblica l’identità, venendo così a costituire il maggior investimento mai realizzato dai sauditi in Israele.
Una scelta che, a quanto si dice, ha incontrato non poche resistenze fra i gestori del fondo saudita, superate solo dall’intervento diretto del principe Mohamed Bin Salman, di cui Kushner era stato del resto il più esplicito difensore ai tempi del primo mandato di Trump, tanto da sollevare obiezioni e critiche nell’opinione pubblica e nell’apparato federale. Critiche ormai relegate nel passato, visto che Affinity Partners e Fondo saudita hanno da poco messo a segno insieme l’acquisizione del colosso americano di videogiochi Electronic Arts per una cifra superiore ai cinquanta miliardi, ricorrendo su vasta scala al leveraged buyout, il sistema di acquisto a credito spesso al centro delle più spregiudicate operazioni di finanza predatoria.
In un gioco delle parti così intricato, è praticamente impossibile distinguere l’interesse dei governi da quello dei privati. D’altra parte, è una sorpresa sicuramente positiva che una simbiosi tanto torbida possa persino generare un accordo di pace, sia pure fragile e precario.
La domanda che resta in sospeso è quanto valga, in una simile fusione, l’interesse delle persone che a Gaza ci abitano e hanno intenzione di restarci. Meno di un anno fa, in un colloquio all’Università di Harvard, lo stesso Kushner ha dato una risposta indiretta e poco incoraggiante all’interrogativo, riconoscendo che il suo scopo era «portare via la gente e ripulire tutto». Può darsi che da allora i negoziati abbiano attutito e migliorato le prospettive. Lo speriamo tutti, ovviamente, ma non è consigliabile nutrire troppe illusioni. Il dato di fatto è che la simbiosi tra politica e affari ha luogo di regola a scapito della società civile, comprimendo i diritti e imponendo a popolazioni intere il ruolo oscuro di lavoratori fantasma, massa amorfa al servizio dei nuovi monopolisti della ricchezza e del potere.
Potrebbe accadere domani a Gaza e, in futuro, in ogni altro angolo del pianeta. A meno che non cresca una resistenza globale tanto forte e decisa da imporre una diversa evoluzione delle cose. È perciò che la grande mobilitazione degli ultimi giorni non deve assolutamente assopirsi ed è, anzi, oggi più urgente che mai.
