Sinistra e centro È iniziata la campagna d’autunno anti-Schlein. Segue la campagna d’estate, quella di primavera, quella d’inverno e così andando indietro. A promuoverla sono sempre i grandi media e un manipolo d’indomiti autoproclamati «riformisti»
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È iniziata la campagna d’autunno anti-Schlein. Segue la campagna d’estate, quella di primavera, quella d’inverno e così andando indietro. A promuoverla sono sempre i grandi media e un manipolo d’indomitiautoproclamati «riformisti».
Tra cui però non v’è traccia della tradizione dei Marcora, Donat Cattin, Bodrato, per la parte cattolica, e dei La Malfa, Giolitti, Ruffolo e altri, per quella liberale e socialista. Nella loro recente riunione milanese dei moderati non è mancato neanche lo sfregio di convocare la segretaria di quella sorta di sindacato di governo che è diventata la Cisl di Pastore e Carniti.
Quali le colpe di Schlein? Innumerevoli. Assenza di leadership e perfino di physique du rôle, incapacità di sintesi e coagulo, inefficacia elettorale. E un’accusa, quest’ultima, risibile. In coma dopo la sconfitta del 2022, il Pd ha rimontato sensibilmente nei sondaggi. Nelle Marche e in Calabria le elezioni erano decise in partenza: dieci e più punti di distacco si recuperano solo in circostanze eccezionali. Ma in Liguria si è perso per un pelo ed è andata bene in Umbria, a Genova, in Toscana.
L’imputazione più grave è tuttavia quella d’aver spostato troppo a sinistra l’asse del partito, sottomettendosi all’odiato Movimento 5 Stelle e all’altrettanto odiata Cgil. Da ultimo, è entrata in azione la Grosse Bertha: Romano Prodi, l’unico che alla guida dell’Ulivo sia riuscito a sconfiggere il centrodestra. Il quale ha diagnosticato uno smarrimento d’identità tanto grave da pregiudicare le possibilità di vittoria alle politiche del 2027. Quanto sia d’aiuto una reprimenda così arcigna, pubblica e ripetuta è arduo capirlo. Ma Prodi è comunque persona degna di rispetto. E la sua autorevolezza testimonia che qualche problema c’è davvero.
Il problema più grave è che Schlein ha tirato un po’ la coperta per coprire quel vasto segmento d’elettorato che il Pd, tranne che al tempo di Bersani, aveva dimenticato. Checché si racconti, Schlein non ha neanche sfiorato questioni scottanti per i cattolici come quelle relative alla genitorialità, al più c’è stata qualche attenzione al tema del fine vita. Ma ha difeso sanità e scuola pubblica, il diritto alla casa e la condizione, disastrosa, del lavoro e dei salari. Infine, peraltro in sintonia con alcune dichiarazioni di Prodi, ha assunto un atteggiamento più cauto in materia di atlantismo, di guerra in Ucraina, e di riarmo europeo. Oltre a denunciare lo sterminio di Gaza. Niente di estremo, ma è bastato a urtare l’acuta sensibilità dei moderati.
In realtà, Schlein ha la colpa di aver eluso un confronto di programma più approfondito. L’Italia industriale si sta estinguendo e quella democratica è messa male. A quali rimedi pensa il Pd? Non lo sappiamo. Schlein ha avuto timore di un conflitto distruttivo, svelando il problema più grave. Frutto di una fallita fusione a freddo, e di un’operazione tutta di vertice, il Pd non ha mai maturato un gruppo dirigente e un progetto unitario. La lunga prevalenza moderata, tolto l’effimero exploit delle europee del 2014, non ha persuaso gli elettori e ha piuttosto alimentato l’astensione. Qualsiasi leader proveniente dall’altro lato – Bersani, Zingaretti, ultima Schlein – è stato sempre duramente contrastato.
Il partito, è evidente, non ha nemmeno saputo radicarsi e diventare popolare. La personalizzazione della politica è stata il suo mantra: l’ossessione del leader. Se non che, come ha spiegato bene ieri su questo giornale Gianpietro Mazzoleni, se in tempi di mediatizzazione spinta il leader è prezioso, non è risolutivo. Il leader mobilita, ma gran parte del voto è tuttora sollecitata dal radicamento sociale. La democrazia si legittima promettendo ai cittadini di ascoltarli e proteggerli. E questo si fa solo tramite una presenza diffusa, capillare, costante sul territorio. Il quale, per contro, salvo eccezioni, è politicamente desertificato a sinistra e ormai abbandonato alla destra. FdI apre sezioni a tutto spiano e coopta quanto più può delle reti locali disponibili.
Checché ne dica la sinistra più radicale, nessuno che voglia un governo diverso dall’attuale può assistere indifferente al logoramento del Pd, che resta il maggior partito d’opposizione. Per il quale è però giunto il momento di prendere realisticamente atto del suo fallimento e guardare magari al modello della destra. Benché non manchino le divergenze e la concorrenza sia durissima, quest’ultima ha imparato a marciare divisa per colpire unita. Anche sul fronte opposto è ora che i moderati stiano coi moderati.
Non si riprodurrebbero i confini della Margherita. Qualcuno si è mosso in una direzione e qualcuno in un’altra. Ma importa poco, pur di por fine alla farsa improduttiva della litigiosità permanente. Meglio dividersi, lasciando agli elettori il compito di decidere i rispettivi rapporti di forza.
