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Lettere Elly Schlein è sotto assedio, e non è una novità; ma cosa sta facendo per spezzare questo accerchiamento? Poco o nulla, è la risposta che mi sento di dare

Una conferenza stampa al Nazareno Una conferenza stampa al Nazareno – foto Imagoeconomica

È evidente: Elly Schlein è sotto assedio, e non è una novità; ma cosa sta facendo per spezzare questo accerchiamento? Poco o nulla, è la risposta che mi sento di dare. Su queste pagine sono state sottolineate le difficoltà in cui la segretaria del Pd si trova impigliata.

Come ha scritto Alfio Mastropaolo, Schlein «ha la colpa di aver eluso un confronto programmatico più approfondito». E Carlo Trigilia rincara: «Concretismo senza progetto», mentre Filippo Barbera segnala lo scarto tra le aspettative e la «vischiosità» di un partito che si muove secondo altre logiche. Tutto giusto. Ma vorrei qui richiamare l’attenzione anche sulla vera e propria trappola in cui Schlein si trova incastrata.
All’inizio, c’era dinanzi a lei una missione quasi impossibile: salvare il partito dal baratro in cui stava precipitando dopo le elezioni del settembre 2022 (a proposito: è stupefacente la disinvoltura con cui i cosiddetti padri nobili, da Prodi a Gentiloni, sorvolano sulle cause che hanno portato il Pd a perdere sei milioni di voti tra il 2013 e il 2022. Silenzio assoluto. Eppure era un partito dal profilo «riformista», come lo vorrebbero ora: cosa non ha funzionato? Ah, saperlo…). Questa prima fase è stata coronata da successo: soprattutto perché, faticosamente, la segretaria ha cercato di restaurare un’immagine di sinistra del partito.

Ma ai «riformisti» non sta bene: e forse si sta arrivando al momento di prendere atto che è fallito il progetto di un partito che tenesse insieme il centro e la sinistra, senza riuscire a parlare né nell’una né nell’altra direzione. Il Pd naviga ora su percentuali di voto dignitose, ma da molti mesi questi livelli di consenso sembrano stagnanti, e non appare avere molti margini di espansione elettorale, in primo luogo perché proietta di sé un’immagine poco coerente.

Chiusa la fase di messa in sicurezza del partito, sarebbe dovuta iniziare la fase del ripensamento e della ricostruzione, che non è mai iniziata. Due erano le direttrici su cui quanto meno era necessario cominciare a lavorare (anche senza pretendere risultati immediati): il profilo politico e culturale del partito, il suo progetto, e una profonda riforma del modello organizzativo del partito e delle forme della democrazia interna (due temi su cui ci siamo più volte soffermati su queste pagine, e su cui non occorre tornare). E invece c’è stato poco coraggio, quasi si avesse il timore di addentrarsi su un terreno ricco di incognite. Come che sia, le tare delle origini si aggravano: un partito privo di un’identità precisa, che continua a trasmettere un’immagine di indeterminatezza e improvvisazione; un partito privo di un’impalcatura teorica e culturale, che non ha o non sa far funzionare nemmeno le possibili sedi per rimediare, ad esempio una Fondazione di cultura politica che faccia il suo lavoro.

Limite dell’azione della segretaria, in questi ultimi due anni, è stato quello di concepire l’offerta politica del partito come una sequenza di single issues, come il susseguirsi di singole proposte che parlano a un segmento di società, ma che rischiano di restare mute rispetto a tutti gli altri. Per inciso, è proprio l’assenza di questa visione strategica che crea poi le premesse anche per gli infortuni politici, come accaduto sulla questione della patrimoniale: il sindacato fa il suo mestiere proponendo una misura specifica, il partito dovrebbe fare il suo, inquadrando le singole proposte nella cornice di una nuova politica fiscale ed economica. È incredibile come si sia ricascati, in questi giorni, nello stesso identico errore commesso da Letta, alla vigilia delle scorse elezioni, quando propose una mini-patrimoniale a favore dei diciottenni: proposta in sé sensata, ma che venne facilmente colpita e affondata dalla destra, senza alcun beneficio elettorale per la sinistra, anzi.

A Elly Schlein non si può rimproverare questo vuoto strategico di lunga data: ma, a tre anni dalle primarie, si può però rimproverarle il mancato avvio di un processo di riforma del partito, anche perciò che riguarda il modello organizzativo. Il Pd, molto spesso, è un partito letteralmente repulsivo, che respinge cioè chi si propone di dare una mano, anche perché non si sa nemmeno come impegnare gli eventuali nuovi iscritti. E qui sta il paradosso di Schlein: per cambiare il partito avrebbe bisogno di tutti coloro che l’hanno sostenuta alle primarie, ma questi si guardano bene dall’entrare nel partito (per cambiare, ad esempio, gli equilibri nei gruppi dirigenti locali), perché la routine del partito, di fatto, non ha bisogno di nuove energie. E così si alimenta quel circuito di sfiducia che Barbera segnalava.

Cosa fare per attivare queste forze esterne? Per esempio annunciare sin da ora che il prossimo congresso si svolgerà sulla base di piattaforme politiche alternative (come lo stesso statuto attuale consente). Forse la prospettiva di una sede in cui si possa finalmente discutere, e votare, ad esempio, sulla questione del riarmo potrebbe sollecitare interesse e partecipazione. Senza un vero congresso, il Pd muore. Per questo, i prossimi sei mesi sono l’ultima finestra temporale a disposizione di Schlein: è in grado di lanciare una fase di costruzione del programma in vista delle elezioni? Sarà in grado di coinvolgere tutte le forze sociali e intellettuali che, su questo terreno, sono disponibili ad impegnarsi?

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Pd La segreteria Schlein ha ereditato una struttura organizzativa vischiosa, impantanata in un partito di amministratori, ed è stata nel mirino della corrente “riformista” che lavora contro fin dall’inizio

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Elly Schlein, foto LaPresse Elly Schlein – foto LaPresse

L’elezione dell’outsider Elly Schlein alle primarie del Partito democratico del 2023 è stata una sorpresa generale. Pochi quelli che l’avevano vista arrivare, in quella domenica di fine febbraio. La vittoria si è costruita fuori dai confini del partito ed è stata spinta da una inaspettata effervescenza collettiva. In molti, a sinistra, anche tra i delusi e i non votanti, hanno guardato con speranza verso un “adiacente possibile”, apparso nelle pieghe del già scritto. Non solo il risultato di una nuova leader, donna e giovane, ma il riflesso di qualcosa di più ampio che stava accadendo nella partecipazione politica. Quella effervescenza, però, non ha avuto un seguito all’altezza delle aspettative che si erano create, come scrivono Gianpietro Mazzoleni, Alfio Mastropaolo e Carlo Trigilia su questo giornale.

L’entusiasmo suscitato nei non iscritti e le porte spalancate per un giorno si sono richiuse, senza trovare casa e creare nuovi varchi. Non c’è stata nessuna redistribuzione del potere di agenda e i confini del partito sono rimasti impermeabili, nonostante alcune azioni rivolte all’organizzazione interna. Così, i temi che avevano acceso la mobilitazione degli esterni – il lavoro povero, la crisi climatica, la giustizia sociale – sono rimasti perlopiù enunciati programmatici, non tradotti in una riorganizzazione del rapporto con le classi popolari e i territori, efficace sul piano della comunicazione pubblica.

Il recente richiamo della Segretaria alla patrimoniale europea è solo l’ultimo inciampo: la proposta non è riuscita nell’intento di aprire un conflitto sul terreno della giustizia fiscale. In compenso ha scontentato tutti, tanto chi auspica una fiscalità più giusta ed efficace, quanto i contrari anche alla versione “continentale”. È, questo, l’emblema di una linea ispirata dal principio di preservare un equilibrio tattico in vista del sol del campo largo. Un’alleanza potenziale che, per essere mantenuta almeno in vita apparente, impone un’aurea equidistanza. E ciò, inevitabilmente, ha eroso la possibilità di definire un profilo autonomo e percepito come tale.

Qui l’evidente collo di bottiglia: il campo largo ha finito per essere una fragile architettura di vertice, dove ogni soggetto politico difende il proprio perimetro come un pezzo di proprietà privata. In questa logica, l’elettorato diventa solo un feudo da amministrare e non la base di una nuova “ecologia politica” tra le organizzazioni del “campo largo”. L’alleanza auspicata e possibile diventa così un gioco di veti e bilanciamenti che cambia a ogni risultato, non un progetto costruito con i potenziali elettori.

Certamente, la segreteria Schlein ha ereditato una struttura organizzativa vischiosa, impantanata in un partito di amministratori, ed è stata nel mirino della corrente “riformista” che lavora contro fin dall’inizio. Proprio alla luce di ciò, del resto, “riaprire i confini del partito” significa molto più che cambiare un gruppo dirigente, scegliere un candidato Presidente di Regione, promuovere un programma di formazione per gli iscritti, riaprire la sezione intitolata ad Enrico Berlinguer. Significa, piuttosto, costruire nuovi campi organizzativi, nuove modalità di legittimazione della leadership a cavallo tra le organizzazioni e individuare meccanismi di selezione della classe dirigente che cambino i rapporti di potere interni. Ciò dovrebbe essere l’occasione per indirizzare le energie “mobilitanti” sulle controversie e le questioni che parlano al quotidiano delle persone: il punto nascite che chiude, gli infermieri che mancano, i treni regionali stipati, le case di comunità senza personale e quelle che funzionano, i salari stagnanti, le imprese che chiudono e quelle (come la Gkn) che resistono, le comunità energetiche, le scuole, le biblioteche di quartiere. Una nuova stagione di conflitti, progetti e soluzioni a tutto tondo, nei luoghi e per le persone.

Il voto “allargato” ai non iscritti aveva segnalato il bisogno diffuso di riconnettere la politica al ruolo delle persone nel definire le questioni di interesse collettivo e i mezzi per affrontarle. La nuova segretaria avrebbe così potuto trasformare quella parentesi felice in uno spazio di incontro tra esperienze, poteri e saperi. Per scelta, a causa di incauti consigli o per difendersi preventivamente dagli avversari interni, Elly Schlein si è invece concentrata su una “guerra di posizione” volta a consolidare spazi di legittimità e potere dentro l’organizzazione, nell’arena mediatica e in negoziazioni di vertice. Una scelta forse necessaria, ma di certo non sufficiente.

Nessuna guerra di posizione interna può reggere senza una “guerra di movimento” esterna, senza un fronte sociale capace di alimentare il conflitto politico a sostegno della trasformazione auspicata. Senza l’energia dei mondi che l’hanno portata alla segreteria, la battaglia interna rischia di essere una forma di resistenza disperata. Un assedio schiacciato su un eterno presente, più che un cantiere politico capace di parlare del, e al, futuro del Paese.

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Tutti gli uomini del presidente Le accuse di corruzione alla cerchia di Zelensky confermano che non può esserci soluzione militare. Ristabilire la primazia della diplomazia significa non delegare alla Nato

Un edificio a Kiev danneggiato dopo un attacco russo foto Evgeniy Maloletka/Ap Un edificio a Kiev danneggiato dopo un attacco russo – foto Evgeniy Maloletka/Ap

Le armi in genere feriscono da entrambi i lati. E a forza di parlare per quasi quattro anni solo di armi per venire a capo di una guerra impari, prima o poi la bomba doveva esploderci in casa. Parliamo dello scandalo della gigantesca corruzione – non la prima – ai vertici dell’Ucraina che apre una voragine di contraddizioni nell’Unione europea e in Italia. L’inchiesta sulla banda che ha intascato più di cento milioni di dollari in mazzette sul sistema di protezione dei civili ucraini dai blackout provocati dalle bombe russe allarma l’Europa: «Kiev dovrebbe far progredire il suo quadro anticorruzione e prevenire qualsiasi arretramento». In sostanza la corruzione è un «ostacolo al processo di adesione». Si nasconde però il nodo della questione: se soldi e armi inviati all’Ucraina finiscono nelle tasche di corrotti, perché continuare a inviarli?

L’interrogativo è esploso anche dentro il governo di destra italiano.

Ci ha pensato Salvini, che non ha mai nascosto un empito filo Putin tutt’altro che pacifista. L’occasione è l’approvazione del nuovo ultimo pacchetto di fondi per armi all’Ucraina in procinto di essere varato dal governo. Imbarazzante la replica del ministro della difesa Crosetto, sponsor con il ministro degli esteri Tajani del provvedimento e rappresentante in pectore del complesso militare industriale italiano: «Non si giudica per due corrotti. Gli Usa ci aiutarono nonostante la mafia». Lo scandalo a Kiev non coinvolge due passanti a caso ma due ministri e la cerchia che sostiene il presidente Zelenski; inoltre è pur vero che gli Usa ci aiutarono – con il piano Marshall, pur sapendo della mafia (con cui peraltro avevano buoni rapporti) – ma è altrettanto vero che quando in Italia scoppiò lo scandalo delle tangenti dell’americana Lockheed, si dimise addirittura il presidente della repubblica Leone.

NON FIDIAMOCI però della «guerra pacioccona» dentro il governo che sarà silenziata con i dividendi nella manovra, e non facciamo da spettatori ad una recita tra fronti che alla fine hanno avuto con la Russia e nella crisi ucraina atteggiamenti che ci fanno dire che i putiniani veri stanno nella coalizione di destra – Meloni che plaude alla quarta vittoria di Putin alle presidenziali e ha come capogruppo al senato quel Malan che nel 2015 guidava gli osservatori italiani che suffragarono l’indipendenza del Donbass, Tajani che tace sull’appoggio di Berlusconi all’invasione russa come mezzo per avere «a Kiev un governo come si deve», e infine Salvini che ha cercato di accreditarsi al Cremlino ma ha accettato che il ponte sullo Stretto diventasse strumento della logistica della Nato.

Partiamo dai fatti. Finora dall’Ue all’Ucraina sono state consegnate armi per un equivalente di oltre 63 miliardi, più tutti i miliardi dati per sostenere l’apparato statale ucraino. L’imbarazzo vero dunque non è dei vertici di Bruxelles o di ministri del governo italiano, ma dell’opinione pubblica o meglio dei governati. A fronte di una legge di bilancio misera quanto vergognosa che dà briciole ai sottoposti e non riesce ad arginare l’evidenza sottolineata dall’Istat che il costo degli alimenti, per via delle spese energetiche, è aumentato del 25%. Fatto ancora più grave, l’intera credibilità dell’Europa e dell’Italia è nel piano di riarmo con altre decine di miliardi: sotto diktat dei dazi di Trump, dobbiamo anche acquistarle dagli Stati uniti. Intanto la Germania ha un bilancio della difesa di 100miliardi e l’Italia si avvia al traguardo del 5% del Pil di spese militari. Mentre avanzano processi di militarizzazione della società, torna l’idea della leva, la difesa diventa materia nelle scuole, l’economia fonda le sue crescite sulle fabbriche di armi che volano in Borsa.

DUE APORIE vanno sottolineate: mentre infuria questa tempesta perfetta sulla sua legittimità, Zelensky rilancia ammonendo che «Putin potrebbe attaccare un Paese della Nato… entro cinque anni», una nuova chiamata alle armi per un «volenteroso» confronto militare – che sarebbe atomico, anche per l’incidente sempre in agguato – tra Ue, Usa e Russia.

Eppure è lo stesso Zelensky che sull’avanzata russa di questi giorni in tutto il Donbass si affretta a dire che è di pochi chilometri, che è sempre uno stallo: ed è vero, quella guerra sanguinosa non fa che pochi chilometri avanti o indietro.

Questa incapacità dovrebbe invadere un paese Nato?

E poi, in Ucraina dall’inizio dell’invasione russa sono renitenti alla leva e hanno disertato almeno un milione e mezzo di giovani, l’Ucraina è senza uomini non senza armi – la Germania in questi giorni decide il rimpatrio di decine di migliaia di persone riparate oltre frontiera. A chi e perché inviamo armi se una parte consistente degli ucraini rifiuta la guerra?

LASCIAMO TRUMP a recitare la parte in commedia di pacificatore di corta durata, dopo il fallimentare tappeto rosso per Putin in Alaska e l’ultimatum che chiamiamo tregua a Gaza con la questione palestinese sempre nella voragine. Quella che chiamiamo geopolitica altro non è che la determinazione di «chi destabilizza chi». Putin ha aggredito l’Ucraina per fermare l’allargamento a est della Nato e ha ottenuto più paesi, ai confini e intorno, che hanno aderito e vogliono aderire all’Alleanza atlantica; la Nato si è allargata a Est pensando di fare con la Russia quello che gli è riuscito nei Balcani e ora si ritrova nel pantano di una guerra per procura che rischia di perdere dopo aver vinto la Guerra fredda.

C’è un solo modo per fermare la guerra e Putin. Non la forza, ma ristabilire la primazia della diplomazia di un’Unione europea che invece strutturalmente ha delegato la sua politica estera alla Nato. Serve un rivolgimento dal basso, dalle istanze politiche, dai movimenti, dal sindacato ma anche dai governi democratici, dai Paesi del Sud del mondo e dall’Onu per costruire – con i termini di una linea armistiziale “coreana” che fermi il conflitto ucraino, da tracciare sui punti di contatto dei combattenti – una nuova assise, una nuova Helsinki europea dei popoli. La precedente degli anni Settanta definì una percorso condiviso del diritto internazionale rispettoso dei confini realizzati e avviò il disarmo. È vero, fu possibile perché c’era l’Urss che invece nell’89 è implosa. Allora facciamo un rewind, restituiamo attualità all’idea di una casa comune europea. Il confronto ormai non è tra due sistemi, quel nemico non c’è più, è diventato intestino perché regnano ovunque a Est e a Ovest razzismo, autocrazie e oligarchie che proprio della guerra si alimentano.

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Black deal Mentre il mondo è riunito a Belém per la Cop 30, in Europa il fossato tra le decisioni politiche e le ambizioni climatiche condensate nel Green Deal del 2019 si allarga sempre di più

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La votazione sul quadro per il raggiungimento della neutralità climatica (Ansa) La votazione sul quadro per il raggiungimento della neutralità climatica a Bruxelels

Mentre il mondo è riunito a Belém per la Cop 30, in Europa il fossato tra le decisioni politiche e le ambizioni climatiche condensate nel Green Deal del 2019 si allarga sempre di più. Ieri il parlamento europeo ha sancito per la prima volta con un voto importante la nuova alleanza alternativa alla cosiddetta «maggioranza Ursula», che ha sostenuto la presidente della Commissione von der Leyen anche nel suo secondo mandato. Il Ppe, principale gruppo, ha voltato le spalle a socialisti, liberali e verdi e ha unito i suoi voti all’estrema destra dei conservatori di Ecr (Meloni) e dei patrioti (Lega e Le Pen), per ridurre il dovere di vigilanza delle industrie europee, sia sul rispetto dei diritti sociali che su quelli ambientali e sul dovere di riparazione.

L’obbligo di reporting sull’impatto sociale e ambientale della produzione viene limitato alle imprese con più di cinquemila dipendenti e oltre 1,5 miliardi di fatturato.Non solo, si alza adesso anche la soglia per il reporting in materia di sostenibilità. L’europarlamento, come richiesto dalla Commissione, rinuncia a creare un regime europeo di responsabilità civile, le multinazionali sono esenti da piani di transizione climatica. Per esempio, come effetto sulla salute, si indeboliscono le norme per la valutazione e l’autorizzazione di pesticidi e biocidi.

L’Unione europea, che con il Green Deal aveva ambizioni di leadership mondiale sulla transizione climatica, alla Cop 30 è costretta a presentarsi con un profilo basso. Ed è già arrivata in Brasile con il fiato corto per la difficoltà a raggiungere un accordo sull’impegno di riduzione di Co2 nella tappa intermedia del 2040 in vista del net zero del 2050. L’intesa in extremis riduce il ribasso dal 90% previsto all’85%, grazie a un’esternalizzazione del mercato dei crediti di Co2.

Con il primo voto di ieri sul «pacchetto Omnibus», le ambizioni dell’Unione europea sono sacrificate sull’altare della «competitività» e della «semplificazione» delle norme – sociali e ambientali – accusate di intralciare l’economia, in un momento di difficoltà.

Destra ed estrema destra si uniscono per imporre una deregulation, con l’obiettivo di facilitare la concorrenza internazionale all’industria europea. «Un triste momento» hanno commentato i verdi. L’estrema destra è soddisfatta: non solo il «cordone sanitario» che l’isolava è saltato, ma per i patrioti, dove siedono Lega a Rassemblement national, l’obiettivo di una riduzione del 90% nel 2040 era semplicemente «una fantasia, mentre le nostre fabbriche chiudono e la fattura di elettricità esplode».

Le emissioni mondiali di Co2 sono in crescita, ma la reazione contro le norme ambientali aumenta, come la repressione dei movimenti ambientalisti e delle manifestazioni. Le lobby si sono attivate. Per preparare il «pacchetto Omnibus», i negoziatori hanno privilegiato gli incontri con le imprese, che hanno difeso gli interessi privati a scapito di quelli climatici. TotalEnergies e Siemens hanno scritto alla Commissione chiedendo esplicitamente l’abbandono del Green Deal. L’industria dell’auto, tedeschi e italiani in testa, è scesa in campo per chiedere un allungamento dei tempi sulla data del 2035 per la messa al
bando della vendita di auto termiche nuove nell’Unione europea.

L’industria del vecchio continente, già penalizzata dai dazi di Trump, teme la concorrenza della Cina. Ma tarda a investire nei settori della transizione. E le lobby legate all’energia fossile adottano tecniche di assalto: instillano dubbi sulla credibilità scientifica del riscaldamento climatico, fanno green washing, denunciano un’ecologia «punitiva», giocano sull’insicurezza dell’occupazione e minimizzano il peso dell’Europa sulle emissioni globali di Co2 (solo il 6%, quindi non varrebbe la pena di fare troppi sforzi, poiché i danni sono soprattutto responsabilità di altri blocchi, Usa e Cina in testa).

Ieri, per esempio, c’era una riunione a Bruxelles dei ministri della Finanze, per discutere la direttiva sulle tasse sull’energia, che dal 2003 esonera i carburanti fossili per i settori aereo e marittimo: panico per gli effetti negativi sull’occupazione, la svolta ecologica viene ritardata. L’Unione europea si dimostra più sensibile alla spinta al riarmo per sostituire i posti di lavoro persi dall’auto. In Germania, l’amministratore di Rheimetall, Armin Papperger soprannominato Lord of war, promette di assumere 500-600mila lavoratori tra i 770mila del settore auto, oggi a rischio. La Ue aiuta l’Ucraina, in nome della difesa dei propri valori, sociali e ambientali, ma poi comincia a smantellarli al suo interno.

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Siria Al Sharaa cerca protezione da Trump: apre ad una base Usa a sud di Damasco per garantirsi da Israele

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Una statua distrutta di Hafez al-Assad a Damasco Ap/Hussein Malla Una statua distrutta di Hafez al-Assad a Damasco

Il nuovo Medio Oriente forse non sarà come lo immaginavano gli svergognati cantori nostrani del genocidio di Gaza. Israele non avrà carta bianca totale nella regione come alcuni speravano qui e a Tel Aviv. Per la prima volta un presidente siriano è andato in visita a Washington dall’indipendenza nel 1946. Ma soprattutto è la prima volta che un ex esponente di Al Qaeda, Ahmed Al Sharaa, è stato invitato alla Casa Bianca, a 24 anni dagli attentati negli Stati uniti dell’11 settembre 2001. Proprio lui che in Iraq era stato imprigionato dagli americani a Camp Bucca, insieme a Al Baghdadi, il futuro capo del Califfato da cui Al Sharaa si divise nel 2013, per poi separarsi tre anni dopo anche da Al Qaeda.

Un curriculum a dir poco controverso, completato in ottobre dalla sua elezione, indiretta, alla presidenza da parte di “consigli popolari” dove la metà dei membri era stata indicata direttamente dallo stesso Al Sharaa. Se a questo aggiungiamo il congelamento della costituzione e i pogrom contro alauiti e drusi non si può certo dire che abbia credenziali democratiche impeccabili. Ma in un Medio Oriente dove il maggiore alleato Usa e occidentale, Benjamin Netanyahu, è inseguito da un mandato di cattura per crimini di guerra della Corte penale internazionale è accettata anche la fedina del leader siriano.

Alla prossima magari sarà ricevuto dal papa, visto che con i cristiani di Idlib Al Shaara era in buoni rapporti e ne ha comunque massacrati meno di quanto abbia fatto l’Isis, diventato un nemico comune con gli Usa. Un’alleanza sancita, a favore di telecamere, anche da una partitella a basket del presidente siriano con i militari americani in Siria. Dal jihadista errante e riluttante Al Shaara – che aveva già stretto la mano a Trump in Arabia saudita e a un drappello di leader occidentali (tra cui la Meloni) – ormai ci aspettiamo di tutto.

Lui è una sorta di jihadista “riformato” dal suo principale sponsor Erdogan, il quale in Turchia non solo è il capo ma si fa passare nella vox populi anche come imam. Al Sharaa, in casa bastonatore delle minoranze alauite e dei drusi, è un salafita dichiarato, esponente di un mondo sunnita che ha preso la sua rivincita contro l’Iran sciita, un tempo, con la Russia di Putin, grande protettore dell’ex presidente Bashar Assad. Tra l’altro Al Sharaa è già stato pure al Cremlino, molto interessato a negoziare la riapertura della base navale siriana di Tartus, l’unica russa rimasta nel Mediterraneo. Nel triangolo Trump-Erdogan-Putin c’è una visione del Medio Oriente che preoccupa assai Israele: lo stato ebraico, che occupa il Golan dal 1967, è alla porte di Damasco, diffida di Erdogan e di Al Sharaa, ha bombardato tutte le installazioni militari siriane e tiene il nuovo presidente nel mirino. Letteralmente: Al Sharaa è praticamente ai domiciliari e Israele può farlo fuori quando vuole.

Per questo Al Sharaa cerca la protezione americana ed è pronto a far aprire una base Usa a sud di Damasco come garanzia contro eventuali operazioni militari israeliane. L’incremento della presenza militare americana è un messaggio a Israele che vuole una Siria divisa, frammentata e debole. Ma anche a Erdogan e alle sue aspirazioni neo-ottomane sulla Siria, dove i militari turchi che occupano alcuni distretti del nord siriano sono stati gli architetti della rapida presa del potere nell’inverno 2024 da parte di Al Sharaa.

Il viaggio di Al Sharaa riflette un cambio strategico dell’amministrazione americana. Durante il suo primo mandato, la posizione di Trump era che gli Stati Uniti dovessero uscire dalla Siria e dal Medio Oriente, quelle che lui chiamava le «guerre infinite». Ha condotto la sua campagna elettorale con il messaggio “America First” e voleva ritirarsi da questi conflitti.

Ma ora Washington ha ribaltato questa posizione, in gran parte perché alleati come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Giordania lo stanno spingendo ad assumere un ruolo più forte in Siria. Soprattutto le petromonarchie del Golfo – anche quelle entrate nel Patto di Abramo – temono la straripante egemonia militare israeliana, al punto che Riad si è spinta a mettersi sotto l’ombrello nucleare del Pakistan. Anche per questo Trump deve ergersi a protettore di Al Shaara.

Al Sharaa è arrivato dopo mesi di segnali distensivi tra Washington e Damasco: la rimozione del nome del leader siriano e di altri funzionari del governo dalla lista dei “terroristi globali”, la revoca della sua organizzazione, Hayat Tahrir al-Sham, dalla lista nera e la richiesta americana accolta dall’Onu di togliere le sanzioni a Damasco per avviare l’apertura alla cooperazione in materia di sicurezza e ricostruzione. La Siria ha le casse vuote e senza aiuti rischia di disfarsi proprio in una fase in cui Gaza, rasa al suolo, è moribonda e il Libano, bombardato da Israele nel Sud, roccaforte degli Hezbollah, non ce la fa più ad accogliere i profughi della regione, tra i quali ci sono circa 700mila palestinesi residenti da decenni in Siria e che sono già diventati nei mesi scorsi “merce” di scambio degli Usa con il presidente siriano.

Tutto questo avviene dopo che il 9 settembre il premier israeliano Netanyahu ha commesso l’errore più grave della sua carriera di indefesso massacratore di arabi: bombardare Doha, ovvero un alleato degli Stati uniti che in Qatar vendono armi a tutto spiano e hanno di stanza nell’emirato 10mila marines. Trump può ammettere qualunque cosa ma ha un principio basilare: i suoi migliori clienti non si toccano.

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 (Foto di Wikimedia Commons)

Nell’ambito del Forum accademico internazionale su “La modernizzazione cinese e un nuovo modello di progresso umano”, tenutosi a Hangzhou (Cina) il 7 novembre 2025, ho tenuto la seguente relazione.

1) La civiltà umana a livello mondiale sta attraversando una profonda transizione che ha messo in crisi gli equilibri che caratterizzavano la fase precedente.

2) Questo cambiamento riguarda in primo luogo un fatto assolutamente positivo e cioè il venir meno della posizione di dominio del capitalismo occidentale sul resto del mondo.

3) Il declino dell’Occidente capitalistico si riassume nella fine di tre grandi cicli storici:

a) In primo luogo è finito il ciclo politico breve, cominciato nel 1989 con il crollo dell’Unione Sovietica, che aveva reso possibile un dominio unipolare degli Stati Uniti, ed era fondato sul dominio incontrastato della grande finanza nel quadro del progetto politico ed ideologico neoliberista. La globalizzazione neoliberista, nel suo sviluppo, ha dialetticamente eroso le basi su cui si reggeva questo dominio unipolare: l’esito della guerra in Ucraina come il fallimento delle sanzioni economiche ad essa connesse ne hanno sancito la fine.

b) In secondo luogo è finito il ciclo finanziario di dominio del dollaro cominciato nel 1944 con Bretton Woods e accentuato nel 1971 con la fine della convertibilità del dollaro in oro. Oggi il dollaro continua ad essere la valuta più importante a livello mondiale ma non è più in grado di esercitare il ruolo dominante e disciplinante che ha avuto fino a pochi anni fa. Lo sviluppo dei paesi del Sud del mondo e quello cinese in particolare hanno rovesciato questa situazione.

c) In terzo luogo è finito il lungo ciclo storico iniziato a fine del 1400 con la nascita del capitalismo e del colonialismo occidentali. Senza aprire qui una valutazione generale sui sistemi sociali che caratterizzano oggi l’economia mondo, mi pare evidente che la fine di questo lungo ciclo non possa essere descritta unicamente come una transizione all’interno del capitalismo, ma piuttosto come un processo dialettico di mutamento dei rapporti di forza tra aree e paesi e nel contempo di crisi dei rapporti sociali capitalistici stessi.

4) Questo grande sommovimento ha i suoi fondamenti nelle secolari lotte del movimento operaio mondiale e nel processo di decolonizzazione che i popoli del Sud del mondo hanno realizzato nel corso dell’ultimo secolo. All’interno del contesto determinato dalla lunga lotta anticapitalista e antimperialista, quattro sono state le cause scatenanti specifiche che hanno oggi reso possibile la rottura degli equilibri mondiali.

a) La prima è la difficoltà del capitalismo di riprodurre il rapporto di valore, il lavoro salariato e conseguentemente la merce come forma universale di soddisfacimento dei bisogni umani. La vera e propria crisi organica che ha investito le società occidentali dopo la mancata risposta alle domande di libertà insite nel ciclo di lotta degli anni 68/69 ci parla di questa difficoltà. Il neoliberismo – una sorta di estremismo capitalistico caratterizzato dal supersfruttamento, dalla superfinanziarizzazione e della dissoluzione di ogni legame comunitario a livello sociale – con la globalizzazione dei rapporti sociali capitalistici ha nei fatti aggravato questa crisi organica.

b) La seconda è la modernizzazione cinese, che a partire dalla vittoria della rivoluzione nel 1949, ha perseguito l’obiettivo di costruire una vera autonomia e indipendenza politica del paese. La modernizzazione, intrecciandosi con la globalizzazione neoliberista se da un lato ha incorporato elementi propri dello sfruttamento capitalistico, dall’altra è stata in grado di far derivare dallo sviluppo economico uno sviluppo tecnologico, militare, finanziario, umano. Questa capacità ha fortemente rafforzato l’autonomia complessiva e l’indipendenza politica del paese. In questo modo la Cina è diventata una grande potenza ed ha sconvolto gli equilibri preesistenti.

c) La terza è la ripresa da parte della Russia di un proprio ruolo autonomo ed indipendente dopo la fase di asservimento successiva al crollo del muro di Berlino. La Russia, non solo ha evitato il tentativo occidentale di disgregare la sua unità statuale ma ha ricostruito un proprio reale potere politico, militare, economico.

d) La quarta causa scatenante del declino occidentale, è la nascita dei BRICS che negli ultimissimi anni hanno svolto un importante ruolo di contrappeso alle élites occidentali a livello mondiale e di punto di riferimento per molti paesi del Sud del mondo. I BRICS hanno saputo indicare una strada universalistica, proponendo soluzioni utili e praticabili a livello mondiale in un’ottica di pace e coesistenza pacifica fondata sulle regole e non sulla sopraffazione.

5) Siamo quindi all’interno di una vera e propria transizione epocale che riguarda gli assetti sociali e mondiali. Il punto oggi in discussione non è solo quale sia la potenza egemone nell’ambito capitalistico ma complessivamente il ridisegno delle relazioni tra gli individui, le classi, i popoli e le nazioni a livello globale.

6) I tentativi delle classi dominanti occidentali di impedire questo passaggio determinano una situazione gravida di rischi tra cui quello di arrivare ad una vera e propria guerra mondiale distruttiva dell’umanità. Il declino dell’occidente capitalista e la non volontà delle classi dirigenti occidentali di accettare – e di gestire – questa nuova situazione è all’origine del caos mondiale e dei rischi di Terza Guerra Mondiale.

7) In questo quadro il ruolo che la Cina è chiamata a svolgere è molto rilevante. Ritengo infatti che la possibilità di evitare la terza guerra mondiale dipenda principalmente da tre fattori.

a) La ricostruzione in occidente di una tendenza storica, di un movimento reale che – nella scia del movimento operaio e comunista e rappresentando gli interessi dei popoli occidentali – riprenda con forza la lotta per l’eguaglianza e si ponga l’obiettivo di costruire un mondo multipolare fondato sulla pace e sulla cooperazione. Oggi le principali correnti politiche occidentali organizzate attorno al sistema elettorale bipolare – centrodestra e centrosinistra – sono inutilizzabili a tal fine perché, pur con le evidenti differenze, sono complessivamente espressione delle classi dominanti. La ricostruzione su una base di massa di questa coalizione contro la guerra e il neoliberismo non è per nulla semplice ma rappresenta lo snodo fondamentale affinché il movimento comunista occidentale possa tornare a svolgere un ruolo positivo nel processo di liberazione delle classi subalterne a livello nazionale e globale.

b) La capacità da parte dei paesi del Sud globale di costruire un percorso fermo ma dialogante nei confronti dell’occidente, al fine di gestire pacificamente la transizione, proponendo vie di uscita anche a chi non le riconosce e non le vuole praticare. Da questo punto di vista la politica estera cinese e complessivamente le proposte e la pratica dei BRICS si muovono in questa positiva direzione.

c) La capacità di mantenere una stretta alleanza tra Cina e Russia è la condizione per rendere non conveniente – e quindi difficilmente praticabile – alle élites occidentali la strada della guerra come mezzo per cercare di conservare i propri privilegi.

La realizzazione di queste tre condizioni – di cui due riguardano in prima persona la Cina – può a mio parere oggi impedire alle élites occidentali l’uso della guerra mondiale come strada per tentare di conservare i propri privilegi. Si tratta di un obiettivo decisivo ed importantissimo ma insufficiente perché darebbe luogo ad una situazione comunque instabile, fondata sull’equilibrio del terrore, che non impedirebbe la spartizione del mondo in aree di influenza e la pratica di guerre regionali.

8) Per determinare un nuovo equilibrio e quindi una nuova forma di civiltà umana è necessario fare un passo in avanti e arrivare ad un reale multipolarismo fondato sulla giustizia e sulla cooperazione. A tal fine servono a mio parere due condizioni ulteriori.

a) Che le lotte dei popoli, rafforzate dal meccanismo della deterrenza e del dialogo internazionale, riescano ad impedire la spartizione del mondo in aree di influenza autoritariamente determinate. In primo luogo si tratta oggi di impedire che gli Stati Uniti possano esercitare un dominio arbitrario e dispotico sul complesso del continente americano. Nella logica della riedizione da parte del governo statunitense della dottrina Monroe, le minacce militari al Venezuela costituiscono la prima tappa della restaurazione di un arbitrario dominio statunitense su tutti gli altri paesi dell’America Latina e del Caribe. Per impedire questa pratica predatoria, in tutto il mondo, il ruolo che possono svolgere le nazioni che operano per il multipolarismo, a partire dalla Cina, non è piccolo.

b) Che il movimento europeo contro la guerra e il neoliberismo, oltre a combattere le attuali classi dominanti europee, sia in grado di conquistare l’indipendenza politica, economica e militare dell’Europa dagli Stati Uniti. Solo su questa base è possibile determinare uno sviluppo europeo egualitario, autonomo dagli interessi delle classi dominanti degli Stati Uniti e nel contempo porre le basi per la realizzazione di una Europa che vada dall’Atlantico agli Urali. Una Europa che liberandosi dal fardello della NATO, sia in grado di declinare la costruzione della sicurezza come garanzia indivisibile, che riguardi tutta l’Europa, Russia compresa. Un’altra Europa che sia in grado – a partire dalla propria storia di lotta per la libertà e l’eguaglianza – di operare per un mondo multipolare di cooperazione e di pace.

Costruendo queste convergenze confido si possano porre le condizioni per nuove forme di civiltà umana, per una nuova tappa per la lotta per il socialismo a livello mondiale a cui la modernizzazione cinese possa dare un contributo significativo.

Paolo Ferrero
Valdese e comunista, a 17 anni iscritto a DP, a 19 operaio in FIAT, a 20 anni Obiettore di Coscienza, a 22 “espulso” dalla FIAT in CIG a zero ore, a 24 ho fondato la Coop Agrovalli che funziona tutt’ora. Ho poi lavorato in CGIL, fatto il segretario nazionale della Federazione Giovanile Evangelica Italiana, il Ministro della Solidarietà sociale nel Prodi II, il segretario nazionale di Rifondazione Comunista, il Vicepresidente del Partito della Sinistra Europea. Alpinista strimpellatore classe ‘60, sono padre di Agnese e Nicolò. Attualmente dirigo la Rivista “Su la testa” e sono membro della Direzione Nazionale di Rifondazione Comunista.

 

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