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L’Altra Cernobbio L’obiettivo di una Italia e una Europa nonviolenta è stato l’oggetto di un dibattito e un confronto condotto da circa 300 attivisti ed esponenti delle principali organizzazioni e reti della società civile e del mondo del lavoro

Marcia della pace, 2023

 

Un lavoro collettivo per la pace che possa portare ad un nuovo pensare e a un nuovo progetto, partendo da una critica radicale al riarmo e dalla valorizzazione delle pratiche e delle esperienze dei movimenti. E delle organizzazioni pacifiste, disarmiste, nonviolente. Questo è il risultato concreto e programmatico della due giorni del Forum “Addio alle armi” che si è svolto venerdì e sabato a Cernobbio (contro le politiche e le idee neoliberiste proposte a qualche chilometro di distanza al Forum Ambrosetti).

L’obiettivo di una Italia e una Europa nonviolenta è stato l’oggetto di un dibattito e un confronto (dispiegato su varie sessioni) condotto da circa 300 attivisti ed esponenti delle principali organizzazioni e reti della società civile e del mondo del lavoro. Un confronto franco e aperto non solo per “migliorare l’analisi” e costruire una prospettiva comune di critica, ma soprattutto per rafforzare la mobilitazione unitaria e la convergenza in azioni contro il sistema di guerra. Che va sostituito da un sistema di Pace non più costruito solo dalla somma delle campagne (comunque importanti) ma da una piattaforma sistemica alternativa. Il tutto senza dimenticare la devastazione che la guerra dispiega già oggi: significativo è stato il collegamento con la Global Sumud Flottilia per ribadire il sostegno alla popolazione di Gaza massacrata da quasi due anni di disumano intervento armato dell’esercito israeliano.

Così come il ricordo e il sostegno (ideale e pratica) alla popolazione ucraina colpita da oltre 3 anni di aggressione delle forze armate russe, agli obiettori di coscienza, ai pacifisti israeliani, russi, ucraini, di tutto il mondo, che si rifiutano di imbracciare le armi e scelgono la strada della nonviolenza.

Non è solo un ricordo retorico e una liturgia: senza prendersi carico del dolore e delle ferite di tutte le vittime, civili, prigionieri, ostaggi, profughi, sfollati degli oltre 50 conflitti armati che devastano il nostro pianeta e dei migranti che vengono respinti e a cui non si dà accoglienza non sarà possibile realizzare in concreto (e non solo evocare) un cammino di Pace Positiva.

Nel documento finale del Forum “Addio alle armi!” si ribadisce in maniera esplicita come «la scelta del riarmo porta alla guerra, all’economia di guerra, impone la legge del più forte distruggendo il sistema del diritto internazionale. Il governo europeo, il governo italiano, scegliendo la strada del riarmo, imposta dalla nuova amministrazione americana, di fatto ed in modo irresponsabile si stanno preparando alla guerra abbandonando lo spirito ed i valori fondanti della Carta delle Nazioni Unite, del Trattato di Lisbona e della Costituzione Italiana. Un salto nel buio, una folle corsa verso la terza guerra mondiale, nucleare».

Al contrario “un sistema di difesa comune deve essere capace di produrre sicurezza comune dentro un quadro di una politica estera di cooperazione, di pace e di sicurezza comune”, portando dunque a una politica proiettata contro le diseguaglianze, la povertà, le discriminazioni dei migranti” e che lavori “per un’ economia disarmata per un modello di sviluppo sostenibile con il passaggio dal fossile alle rinnovabili”.

Purtroppo la strada scelta in questi ultimi anni dai Governi Nazionali e della politica (con cui il Forum promosso da Sbilanciamoci e Rete Pace Disarmo ha voluto confrontarsi, per spingere verso scelte positive) al posto di provare a plasmare un contributo concreto dell’Europa a percorsi di sicurezza comune ha deciso di cedere alla deleteria scelta di portare la spesa militare al 5%. Un patto scellerato che sottrae risorse – già inadeguate – alle scuole, agli ospedali, al lavoro, all’ambiente, a quello di cui hanno veramente bisogno i cittadini e le cittadine: il diritto alla salute, all’istruzione, ad un lavoro sicuro e tutelato, per vivere in un pianeta non più malato e prossimo al collasso.

Come contrastare tutto questo? Come riuscire a rendere concreto un cambiamento che intercetti la posizione della grande maggioranza dell’opinione pubblica italiana contraria alla guerra, al riarmo, ai massacri e uno scivolamento in senso “militarizzato” dei pensieri e delle politiche? Rilanciando una grande alleanza e convergenza di pratiche e di elaborazioni, in un susseguirsi di appuntamenti che non devono rimanere isolati e incomunicanti ma devono creare un vero cammino collettivo. Dopo il Forum “Altra Cernobbio” ci aspettano altri eventi e momenti di azione collettiva perché non è più il tempo delle parole e dei rinvii, ma l’ora della mobilitazione e della partecipazione. Che possa rendere concreto il richiamo della nonviolenza e della costruzione di una politica europea di pace.

* portavoce Sbilanciamoci
** Coordinatore Campagne Rete Pace Disarmo

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Israele-Vaticano Mantiene toni pacati, il papa, ma con Herzog non si smuove di un millimetro, e smentisce la nota diffusa in ebraico dal Presidente israeliano

Prevost e Herzog foto Epa Prevost e Herzog – foto Epa

Ripresa dei negoziati per la liberazione degli ostaggi ma anche il cessate-il-fuoco permanente, ingresso sicuro degli aiuti umanitari, pieno rispetto delle legittime aspirazioni di entrambi i popoli, due Stati, statuto internazionale di Gerusalemme, che non è la capitale di Israele. Questo è il contenuto del comunicato uscito dalla sala stampa vaticana immediatamente dopo il colloquio di Herzog con Leone XIV. Bisogna saperlo leggere, il linguaggio della diplomazia. Mantiene toni pacati, il papa, ma con Herzog non si smuove di un millimetro, e smentisce la nota diffusa in ebraico dal Presidente israeliano, secondo cui il senso della visita sarebbe stato concordare col papa uno statuto speciale per i cristiani.

Leone non ha svilito le parole dei patriarchi di Gerusalemme, il latino Pizzaballa e il greco ortodosso Teofilo III. La loro dichiarazione congiunta – «le nostre chiese non se ne andranno da Gaza» – era una risposta all’ingiunzione di andarsene, avanzata dal governo israeliano nei confronti della parrocchia della Sacra Famiglia come di quella greco-ortodossa San Porfirio.

I patriarchi ribadivano la loro decisione «di rimanere e continuare a prendersi cura di tutti coloro che si troveranno nei due complessi». Centinaia e centinaia di persone, e non solo cristiani, tra cui «anziani, donne e bambini…Molti … indeboliti e malnutriti». Gente per cui «cercare di fuggire verso sud equivarrebbe a una condanna a morte».

Restano intatte, chiarissime e forti le loro parole, restano alla temperatura del fuoco, quella che secondo Mario Luzi, il poeta, «si addice alla Parola»: «Non può esserci futuro basato sulla prigionia, lo sfollamento dei palestinesi o la vendetta. Non è questa la giusta via; non vi è alcuna ragione che giustifichi lo sfollamento deliberato e forzato di civili».

Parole eroiche oggi laggiù, che offrono la fragile vita di chi le condivide al fuoco genocida dei carri di Gedeone/Netanyahu. In duplice senso, come duplice è il senso della parola “sacrificio”. Nel senso di un martirio che non è affatto impossibile, per quanto enorme di fronte al mondo attonito sarebbe l’attentato mortale che un manipolo coeso di assassini autoproclamatisi eredi della Legge di Mosè, sostenuti da un manipolo sparso di sepolcri imbiancati della Civiltà Occidentale (vuoti come maschere comiche ma feroci come Leviatani) infliggerebbe ai rappresentanti in Terrasanta della seconda fra le tre religioni del Libro, o piuttosto della Parola.

“Sacrificio” significa fare sacro, e questa parola ha certo un’anima arcaica e tremenda. Ma ne ha anche una di pura luce che da tutti i secoli della storia tenta di liberarsi dall’altra, e tentando fa, di questa storia, la poca parte che possiamo davvero chiamare umana, e i credenti chiamano santa. Come è il grido di sconforto di quell’ebreo nudo, spogliato di ogni potere, mentre viene ucciso e non maledice, ma lega nella sua carne l’idea del bene e la rinuncia alla forza. Incarnazione è questo, anche i non credenti lo sanno.

Fuoco era la parola di quell’uomo come oggi lo è divenuta quella dei suoi eredi di oggi in Palestina.

Fuoco soave opposto al fuoco distruttore dei carri di Netanyahu, che ha dato il nome di Gedeone a un’operazione tesa a provocare una marcia della morte, con la benedizione degli Usa, nell’inerzia dell’Europa. Fuoco opposto a fuoco come la luce fa con le tenebre: non le “aggredisce”, solo si accende, e le disperde. Le tenebre della mente, almeno. Il buio della disperazione che grava su tutti noi, impotenti contro la criminale complicità dei nostri governi, per alte che si levino le nostre voci dalle piazze e dai social.

Il linguaggio della diplomazia invece è tiepido.

Eppure a conclusione della loro dichiarazione i patriarchi avevano citato parole di papa Leone: «Tutti i popoli, anche i più piccoli e i più deboli, devono essere rispettati dai potenti nella loro identità e nei loro diritti, in particolare il diritto di vivere nelle proprie terre; e nessuno può costringerli a un esilio forzato». Aiuta la mia incredulità, scrisse Agostino. Questo papa agostiniano può ancora aiutare anche noi laici, la nostra incredulità morale e civile, che prelude all’avvento del nulla.

 

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Scenari Per il presidente del consiglio Ue Costa la “forza di rassicurazione” dei volenterosi sarà «per cielo, per mare e per terra», ma regna la divisione con tante rinunce a inviare truppe

Ragazzi con una bandiera durante la Giornata dell'Europa foto Martin Divisek/Ansa Ragazzi con una bandiera durante la Giornata dell'Europa – Martin Divisek/Ansa

Confesso che ho avuto un moto di disappunto, quasi una smorfia, alle parole di Massimo D’Alema, invitato speciale alla parata di Pechino per l’80esimo della liberazione dal Giappone occupante – in Asia hanno letto diversamente e sulla loro pelle la Seconda guerra mondiale noi quella stagione di massacri e crimini l’abbiamo misconosciuta e quindi cancellata. «…Spero che arrivi da qui il messaggio di pace….”. Ma come proprio lui, il protagonista dell’allargamento armato della Nato a est con il contributo dato come presidente del Consiglio nel 1999 alla partecipazione dell’Italia alla guerra «umanitaria» nei Balcani, che parla ora di messaggio di pace.

Sbagliato il personaggio e il luogo: quella è stata una parata militare, un frontale per far capire che «nessun bullo» dice Xi può ripetere in Asia quello che è accaduto in Europa. Comunque altrettanto ridicolo Calenda.

Comunque ridicolo Calenda che gli dà quasi del «traditore» e la destra becera dei leghisti che lo sfotte perché non è Mao: perfino D’Alema riesce a capire che la Russia di Putin non è la stessa cosa della fragile mini-Jugoslavia e che il mondo unipolare a guida Usa è finito da tempo con l’arrivo sulla scena della potenza economica della nuova Cina e non solo per l’avvento del suprematista americano Trump. Isolazionista che però nel “ritiro dal dominio” partecipa ad una scia di conflitti – a cominciare dalla compartecipazione all’annientamento criminale dei palestinesi con l’appoggio a Netanyahu, ma per Gaza di “volenterosi” non se ne vedono – perché altrimenti sarebbe in discussione la primazia Usa; lanciando perdipiù la guerra dei dazi sulla quale i sovranisti nostrani ancorché volenterosi e la chiacchiera dell’indipendenza dell’Europa accettano se non plaudono come fa il governo Meloni, subiscono e abbozzano subalterni.

MA LA MIA SMORFIA è diventata una risata sonora quando ho letto le dichiarazioni del segretario della Nato Mark Rutte che anticipavano la riunione dei cosiddetti volenterosi di ieri. «Non è la Russia che può decidere sullo schieramento di truppe occidentali in Ucraina», «la Russia non ha diritto di veto sulla possibilità che le potenze occidentali inviino truppe in Ucraina, come parte delle garanzie di sicurezza per Kiev in caso di raggiungimento di un accordo di cessate il fuoco», «perché ci interessa sapere cosa pensa la Russia delle truppe in Ucraina? È un Paese sovrano. Non spetta a loro decidere», ha detto Rutte. Sorprendente, perché all’origini della guerra di aggressione russa alla sovranità ucraina c’è proprio il nodo dell’allargamento a est della massima organizzazione di forze armate in Europa, vale a dire la Nato che sostiene, secondo le affermazioni dell’ex segretario Jens Stoltenberg della Nato l’Ucraina “dal 2014”, a partire dal cambio violento di governo a Kiev dell’oscuro Euromaidan.

COMUNQUE SIA ORA la “forza di rassicurazione” decisa dai volenterosi secondo le parole del presidente del Consiglio europeo Costa si avvia «per cielo, per mare e per terra», ma intanto rimandano ad una «finalizzazione» maggiore nei prossimi giorni e a un vertice oggi degli stati europei. Rassicurano che alla forza parteciperanno anche gli Usa – Trump ha partecipato ammonendo gli europei a «non comprare più il petrolio russo» -, ma intanto Tusk per la Polonia fa sapere che «non ci saranno truppe polacche, né prima né dopo un accordo di cessate l fuoco»; che la Germania con il cancelliere Merz e con il ministro Pistorius fa sapere che devono decidere ma nei giorni scorsi hanno duramente criticato von der Leyen che anticipava la forza multinazionale europea; e che Meloni per l’Italia avverte che «truppe italiane mai» anche se insiste a suggerire la fandonia folle della «pratica dell’articolo 5» dell’Alleanza atlantica, insomma la Nato senza la Nato, quando perfino dal Corriere della Sera le hanno spiegato che si tratta di una bugia visto che “non c’è automatismo” nel soccorso nemmeno per un alleato e che il rispetto della norma sarebbe nient’altro che l’inizio della Terza guerra mondiale, intera.

MA IL VERTICE DEI volenterosi di ieri non è solo un nuovo e pericoloso “armatevi e partite”. È la pervicace e prepotente manifestazione della linea del riarmo europeo. Che fine farebbe la nuova strategia che vede migliaia di miliardi impegnati a rimilitarizzare il Continente se per caso si avviassero veri negoziati di pace? Riarmo che prevede tra l’altro, secondo le condizioni capestro della Casa bianca, l’acquisto di per miliardi di dollari di armamenti dagli Stati uniti. Infatti l’unica vera decisione presa è stata quella annunciata dal generale combattente Starmer, il leader britannico – Londra è pronta a inviare truppe dopo un ipotetico cessate il fuoco, ma a patto che ci sia la copertura Usa pure subito – e dal tenente colonnello Macron, deboli e sul piede nella fossa in patria e quindi bisognosi di un riscatto bellico: «C’è l’accordo dei Volenterosi su missili a lungo raggio a Kiev».

In perfetta sintonia con l’Alta rappresentante per la politica estera – che non c’è – dell’Unione europea Kaja Kallas, che il 27 agosto in una intervista a Die Welt ha dichiarato che l’Ucraina ha il diritto di utilizzare le armi fornite dall’Occidente per colpire obiettivi militari all’interno del territorio russo. «Gli aeroporti militari e i depositi di munizioni, anche a centinaia di chilometri dietro le linee del fronte in territorio russo, sono obiettivi legittimi».

È QUELLO CHE È accaduto dopo il vertice dell’Alaska certo anche come risposta all’incessante e sanguinosa offensiva di Putin che in Donbass avanza e che va fermato sulla linea dei combattimenti, trattando sui territori e non necessariamente cedendo, ma negoziando una sicurezza generale per l’Ucraina e l’Europa che coinvolga Mosca, non la escluda. Seguendo l’unica strategia che può garantire il futuro dell’Europa che vogliamo: il disarmo. Per ora altro che pace: l’Europa è sempre più in guerra con la Russia e senza la prospettiva della “vittoria”. Intanto non volenterosa ma contro la sua volontà, la maggioranza degli europei e degli ucraini – sperando e lavorando anche sulla maggioranza dei russi – questa guerra sanguinosa non la sostengono più. Solo il premier spagnolo Sanchez ha ricordato di tener conto soprattutto «della volontà degli europei e degli ucraini»,

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Scenari Il Sud globale regola i conti con l’egemonia occidentale e l’Europa con il riarmo e le sole promesse, insidiata dai nazionalismi vive il «suo» tramonto, dei diritti acquisiti e delle garanzie democratiche

Illustrazione con bandiera dell'Unione Europea Illustrazione

Sul tramonto dell’Occidente ci si angustia e si dibatte da più di un secolo, ciononostante l’Europa si presenta del tutto impreparata di fronte alle circostanze del suo prosaico accadere. La frattura tra le due sponde dell’Atlantico è approfondita e incrudelita da Trump, ma è ben radicata nei fattori di crisi che hanno logorato la potenza americana.

E lascia i governi europei, prima ancora che l’Unione, attoniti e stupefatti. Quella frattura, che si manifesta oggi così brutalmente, non doveva semplicemente esistere, non era contemplata nel novero del possibile. Dopo il 1945 l’Europa non è riuscita neanche lontanamente a immaginarsi se non all’interno di un Occidente a guida statunitense nell’ambito del quale poter articolare, ma con prudenza, le proprie specificità e vantare le proprie virtù.

Non potendosi staccare da questo schema, ma neanche domarne le intemperanze e le crisi, l’Unione europea e i suoi membri oscillano tra sottomissione e progetti di autonomia destinati a cozzare contro crescenti egoismi e priorità nazionali. A maggior ragione la chiusura di ogni possibile interlocuzione con la Russia, il grande vicino dell’Est senza il quale, pur attraverso intrecci e vicende conflittuali, la storia europea non avrebbe il suo passato e nemmeno il suo futuro, vieta all’Unione europea di conseguire un peso rilevante su uno scacchiere globale in rapido movimento. L’alleanza con l’America costa cara, garantisce sempre di meno ma impedisce di attraversare in piena libertà i rapporti globali, di guardarsi intorno alla ricerca di nuove opportunità.

Mentre l’ideologia Maga e il suo condottiero sospingono gli Stati uniti verso assetti sempre più autoritari e il poderoso polo guidato da Cina, India e Russia è già ampiamente svincolato da obblighi democratici, l’Europa si atteggia a ultimo solitario bastione della democrazia, pur guardandosi dall’offendere Trump, chiamandolo per quello che effettivamente è. Ma la patente democratica non garantisce alcuna forma di potenza commerciale, finanziaria o militare, né attrattiva politica. E, del resto, sembra vicina alla scadenza visto il dilagare di forze reazionarie e nazionaliste in quasi tutto il continente. Il punto principale resta però quell’assenza di soggettività politica comune che l’attuale architettura dell’Unione europea esclude e che i governi nazionali avversano sempre più decisamente. E alla quale è assai pericoloso, ma anche inefficace, voler supplire con mastodontici programmi di riarmo, peraltro perseguiti su base nazionale.

È ben vero che il cosiddetto Sud globale è ancor meno omogeneo dell’Europa, segnato da innumerevoli differenze, attraversato da profonde contraddizioni e veri e propri conflitti come quello tra India e Pakistan. Ma è anche vero che i conti da saldare con l’egemonia occidentale del dopoguerra, per non parlare di quelli che risalgono alla storia coloniale, sono per molti aspetti comuni, i risentimenti condivisi e i progetti di sviluppo futuri integrabili, un legame consistente non privo di risvolti politici.

Tutti aspetti che la fine della guerra fredda e della divisione del mondo in due campi antagonisti, che tanto avevano influito sui rapporti tra Nord e Sud, hanno fatto venire pienamente alla luce. Inoltre, al centro di questo polo in costruzione vi è quella che è già a tutti gli effetti una superpotenza economica e militare, la Cina di Xi, nonché la seconda potenza nucleare del mondo rappresentata dalla Russia di Putin e paesi del peso dell’India o del Brasile. Tutte realtà politiche piuttosto solide che dispongono di una grande forza contrattuale.

L’Unione europea versa invece in una condizione di estrema fragilità: il suo centro franco-tedesco, insidiato dalle destre in costante ascesa, attraversa una fase di estrema instabilità politica. La maggioranza di centrosinistra che ha eletto e tiene in piedi la presidente della Commissione Ursula von der Leyen mostra una crescente insofferenza per il suo protagonismo tutto sbilanciato a destra e poco sensibile alle problematiche sociali. Nonostante la retorica militarista, con le sue promesse di rilancio economico e di riscossa geopolitica, l’Europa sta vivendo un suo proprio tramonto dell’Occidente, dei diritti acquisiti e delle garanzie democratiche. E finirà così col rimanere comunque subalterna e impastoiata nel campo imprevedibile, e con buona probabilità perdente, di Donald Trump.

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Palestina Da qualche settimana assistiamo a un cambiamento, seppure formale e sostanzialmente ipocrita, delle posizioni dei governi europei su Gaza

Tende di sfollati a Gaza Tende di sfollati a Gaza

A Gaza c’è un’emergenza umanitaria innegabile e riconosciuta che potrebbe segnare un (estremamente tardivo) cambio di passo nell’atteggiamento internazionale verso Israele. Lo stesso fattore umanitario, però, rischia di diventare l’arma spuntata di una lotta che è e resta politica. E che per questo disturba.

Da qualche settimana assistiamo a un cambiamento, seppure formale e sostanzialmente ipocrita, delle posizioni dei governi europei su Gaza. Si susseguono dichiarazioni e (timide) condanne contro l’operato di Israele, minacce di riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di alcuni governi e, soprattutto, appelli affinché si ponga fine alla «crisi umanitaria», alla carestia, ai bombardamenti sugli ospedali.

Questo cambiamento potrebbe essere dovuto a una misura morale colma, dinanzi alla quale, almeno formalmente, non ci si può consegnare alla storia come silenti (restando complici, sia ben inteso), oppure all’opinione pubblica che preme e per fortuna dimostra di volersi e sapersi informare, nonostante o forse grazie alla marea di notizie in rete (e il libro di Francesca Albanese primo in classifica per vendite nella categoria “saggi” di queste settimane in Italia è una bella notizia, per esempio). Oppure, si tratta di riassestamenti politici di un’Europa che cerca nuovi posizionamenti nel mezzo delle scosse telluriche di Trump da un lato e la stabilità granitica della Cina dall’altro. O, ancora, potrebbero essere tutte queste cose insieme; difficile dirlo. Il dato che emerge, però, è che, di fronte allo smantellamento (per ora morale) dell’Onu e quindi lo svelamento pieno dell’utopia (o ipocrisia?) dell’universalismo dei diritti umani, si leva pur tuttavia l’unica contestazione che i leader europei riescono a produrre: fermare il massacro in nome del fattore «umanitario».

La questione dei diritti umani è tanto complessa quanto necessaria, e se ne potrebbe discutere molto a lungo, scomodando Marx e la sua critica della separazione tra Stato e società civile e della necessità dei diritti umani stessi, che dovrebbero garantire quanto lo Stato avrebbe invece come suo unico scopo: l’effettualità storica dell’eguaglianza. Si dovrebbe certo citare Hannah Arendt e le sue considerazioni sul «diritto ad avere diritti»; come si dovrebbe tener conto della riflessione di Judith Butler sulla vulnerabilità e la «gerarchia del lutto» che scardina il presunto universalismo dei diritti umani. Ma la questione umanitaria, evidentemente fondamentale nell’urgenza del qui e ora, delle vite in ballo e non ultimo della definizione di genocidio applicabile alle azioni di Israele a Gaza, diventa un velo, che copre e oscura la dimensione fondamentale della questione palestinese: quella politica.

La lotta palestinese è sempre stata politica, impressa nella storia dall’icona di Arafat con il ramo d’ulivo in una mano e il fucile nell’altra alle Nazioni unite, tradotta nelle pietre contro i carri armati di due intifada; lotta armata e negoziazione diplomatica, i venerdì della rabbia sul confine spinato e la poesia più potente del fuoco. Citiamo solo due esempi in un oceano di letteratura della resistenza: Mahmoud Darwish, che scriveva «Prendi nota, sono arabo… non verrò mai a mendicare alla tua porta / ti secca?»; e il testamento straziante di Refaat Alareer: «Se dovessi morire fa che io sia un racconto…». Questa lotta ha sempre riguardato la terra e non la religione; ha sempre riguardato l’occupazione (che è un fatto politico). La trappola della discendenza e della «prelazione» – chi c’era per primo avrebbe il diritto di possedere – distrae anch’essa, ricolonizza anche l’identità palestinese, dentro una narrazione dell’esclusività che è propria del colonialismo europeo e, nella sua apoteosi messianica, del sionismo. L’autodeterminazione di un popolo ora non può più prescindere da una rivendicazione identitaria, dove non è la terra che offre la possibilità di un’identificazione per chi – anche transitoriamente nel corso dei secoli – la abita, ma è l’identità che decide e assegna una terra. In questo rovesciamento il gioco sarebbe sempre a somma zero. Invece, nella dinamica politica, non lo è mai.

Quella palestinese è, ripetiamolo e studiamola in quanto tale, sempre stata una questione politica, e continua a esserlo. È ed è sempre stata la soggettività politica palestinese sotto attacco, perché riporta sempre e costantemente il progetto coloniale europeo e israeliano alla sua dimensione politica. Ma proprio per questo, l’annientamento fisico e sistematico della popolazione non cancella la questione palestinese, perché, come si diceva una volta, chi lotta non muore mai.

 

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Senza freni Uccidono come assassini non come soldati, mentono come i peggiori mafiosi perché sanno di restare impuniti. L’ordine è: spara, spara subito alla telecamera della Reuters. Cadono i primi morti. Poi un silenzio sospeso, sembra irreale

Protesta per i giornalisti uccisi durante un attacco israeliano all'ospedale Nasser nella città meridionale di Khan Younis Protesta per i giornalisti uccisi durante un attacco israeliano all'ospedale Nasser nella città meridionale di Khan Younis – Getty images

Uccidono come assassini non come soldati, mentono come i peggiori mafiosi perché sanno di restare impuniti. L’ordine è: spara, spara subito alla telecamera della Reuters. Cadono i primi morti. Poi un silenzio sospeso, sembra irreale.

Arrivano i soccorsi correndo sulle scale dell’ospedale Nasser di Khan Younis. Ecco di nuovo il momento di colpire. Il thank israeliano spara ancora: il bilancio sarà di 20 morti tra cui 5 giornalisti. È la tecnica del «doppio colpo», illegale per le norme internazionali, ma non per Israele. Che adesso si giustifica come un criminale di strada. L’esercito ieri ha affermato che a Gaza la brigata Golani ha colpito la telecamera «ritenendo che fosse stata piazzata lì da Hamas per monitorare i movimenti dei combattenti». L’ennesima sanguinosa menzogna di una propaganda senza freni inibitori. Il bersaglio è la camera dell’agenzia britannica Reuters che invia in tutto il mondo in diretta le battaglie e i bombardamenti nella Striscia.

L’inquadratura viene lasciata fissa con piccoli cambi ma deve essere comunque manovrata: a farlo era l’altro giorno Hussam Al Masri, ucciso dall’esplosione. La diretta della Reuters sugli schermi europei si interrompe così all’improvviso. Resta solo un’ultima immagine, la polvere che copre tutto, la fine di Hussam e la morte del giornalismo vero, che dovrebbe spingere, almeno l’Europa ancora libera, a osservare un silenzio stampa per questo che non è un incidente ma un omicidio premeditato.

Questo se non vogliamo, come scriveva ieri Matteo Nucci sul manifesto, che la menzogna ripetuta in maniera ossessiva e dilagante non diventi verità. Le dimensioni del genocidio palestinese, la devastazione di Gaza, la carestia usata come arma di guerra, l’assassinio dei giornalisti e dei testimoni stanno andando oltre ogni limite. E qui c’è ancora chi sostiene che tutto questo è una falsità. E se proprio tutto questo orrore avviene la colpa è di Hamas. Qui c’è gente ancora incline a credere al premier israeliano Netanyahu, inseguito come Putin da un mandato come criminale di guerra della Corte penale internazionale, il quale sostiene che la carestia è una fake news e la maggior parte dei morti sono terroristi.

Persino i servizi israeliani lo smentiscono: l’83% delle vittime a Gaza sono civili. Ma pure di dare consistenza alle sue menzogne Netanyahu, mentre si prepara a occupare Gaza City, non solo bolla come bugiardi tutti – dagli operatori umanitari ai medici, dalle grandi ong ai sopravvissuti – ma cerca di eliminare tutte le fonti con la strage sistematica e voluta dei giornalisti palestinesi. È semplicemente un assassino.

Ma qui il silenzio stampa, l’indignazione, le condanne morali, il riferimento flebile a una giustizia che forse non verrà mai, non bastano. Qui bisogna fare qualche cosa. Applicare sanzioni. L’Unione europea dovrebbe sospendere gli accordi di associazione e di finanziamento di Israele. Magari annullare pure acquisti e vendite di armi e congelare gli insidiosi accordi di sicurezza con il governo di Tel Aviv: è questo che fa dei governanti europei dei complici del massacro di Gaza. Più si va avanti e più si capisce che l’inazione europea con i suoi proclami ipocriti è la maschera di un verità indicibile per molti: Israele fa parte integrante dei nostri apparati di sicurezza, basti pensare che nel 2023 l’Italia ha appaltato a Netanyahu la nostra cybersecurity. Israele sa tutto di noi e noi voltiamo la testa dall’altra parte, siamo persino spinti a dare credito a lui e al suo alleato Trump. Perché l’Unione europea stenta a intervenire? Abbiamo paura. Dal 2022 gli Usa hanno sanzionato 6mila imprese e individui della Russia e neppure vagamente farebbero una ritorsione a Israele: è l’unico stato al mondo che può influire sulla politica a Washington. È possibile che se la Ue o uno stato europeo varasse sanzioni serie a Tel Aviv, gli Stati uniti interverrebbero per fargliela pagare. L’atmosfera pesante che si respira si è capita bene dall’incontro tra Putin e Trump e dalla «non trattativa» sui dazi con gli Usa.

In ballo però non c’è solo la questione palestinese. Lo si capisce bene leggendo il rapporto di Francesca Albanese sull’economia del genocidio, che ha avuto l’ulteriore conferma del quotidiano britannico Guardian. Nella strage di Gaza, forse anche in questa del Nasser, sono coinvolte le grandi multinazionali americane, non solo del settore bellico. Israele si affida a Microsoft e alle sue strutture per archiviare le intercettazioni dei palestinesi nei territori illegalmente occupati. Sorveglianza e intercettazioni tengono un intero popolo sotto controllo: figuriamoci se non sapevano che la telecamera dell’ospedale era della Reuters. Ecco che cosa dovremmo temere e che forse già temono i governi europei: Israele e gli Usa (che detengono la stragrande quota di mercato mondiale della cybersecurity) possono fare di noi quel che vogliono. Il genocidio e gli omicidi di Gaza ci riguardano.

 

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