Una nuova marcia della pace e della fraternità per fermare le stragi. E' quella che va in scena nella Giornata Internazionale dei Diritti Umani, in occasione del 75° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (10 dicembre 1948-2023)
Tgr
La platea
Riprendiamo in mano la bussola dei diritti umani! è lo slogan della giornata iniziata con un incontro di riflessione e proposta alla
Scritto da di Luisiana Gaita su il Fatto Quotidiano
“La pressione contro i combustibili fossili potrebbe raggiungere un punto critico con conseguenze irreversibili”. Con queste parole l’Opec, Organizzazione che riunisce tredici Paesi esportatori di petrolio, ha sollecitato i suoi membri attraverso alcune lettere a “rifiutare qualsiasi testo o formula (nel documento definitivo della Cop 28 di Dubai, ndr) che miri all’energia, cioè ai combustibili fossili, piuttosto che alle emissioni”. Diverse fonti indipendenti hanno confermato l’autenticità delle lettere a Bloomberg e Reuters. Ma se la ministra francese dell’Energia, Agnes Pannier-Runacher, si è detta “sbalordita” e “arrabbiata”, per il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica italiano, Gilberto Pichetto Fratin c’è poco da meravigliarsi. “La Cop28 ha la rappresentanza dei Paesi ma anche la rappresentanza di tanti blocchi di interesse, sarebbe da stupirsi se l’Opec, che rappresenta i Paesi produttori e venditoridipetrolio, non tutelasse i propri interessi”. D’altro canto, secondo una ricerca del Corporate Europe Observatory, per la coalizione Kick Big Polluters Out, di cui fa parte ReCommon insieme a oltre 450 organizzazioni, Unione europea e Stati membri hanno accreditato oltre 130 rappresentanti delle imprese Oil & Gas e la delegazione quest’anno è arrivata alla cifra record di 2450 rappresentanti di aziende nel settore. Tra i Paesi europei l’Italia è al terzo posto per dati di accesso. “Grazie all’accredito ufficiale, i lobbisti del fossile avranno accesso ai negoziatiistituzionali, a cui non possono partecipare i rappresentanti della società civile o dei media” spiega a ilfattoquotidiano.itLuca Manes, responsabile Comunicazione di ReCommon. E, a riguardo, c’è un nuovo report che rivela come Eni sia la seconda azienda a livello mondiale per progetti di espansione di produzione di idrocarburi negli Emirati, nonché principale partner internazionale dell’azienda di stato emiratina Adnoc.
Le lettere inviate dall’Opec – Secondo quanto riportato dal Guardian, le lettere – tutte identiche – sono datate 6 dicembre, firmate da Haitham al-Ghais, dirigente petrolifero kuwaitiano e segretario generale dell’Opec e indirizzare ai tredici membri. Tra questi, gli Emirati Arabi Uniti, che ospitano la Cop 28, ma anche Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Algeria, Nigeria, Angola, Congo, Gabon, Guinea Equatoriale e Venezuela. Questi paesi possiedono l’80% delle riserve petrolifere globali e hanno prodotto circa il 40% del petroliomondiale negli ultimi dieci anni. Allo stesso tempo, però, oltre 100 Paesi hanno già chiesto che nella decisione finale della Cop28 si preveda l’eliminazione graduale dei combustibilifossili. Alcune lettere sono state inviate anche a 10 alleati dell’Opec, noti come paesi Opec+, tra cui Russia e Messico, a cui ugualmente si ‘suggerisce’ che un eventuale punto di svolta contro il petrolio e il gas, metterebbe “a rischio la prosperità e il futuro del nostro popolo”. “Non esiste un’unica soluzione o un unico percorso per la transizioneenergetica, per realizzare un futuro energetico sostenibile” ha detto il segretario generale dell’Opec Haitham Al Ghais. Per la ministra dell’Ambiente Francese, Agnes Pannier-Runacher “la posizione dell’Opec mette in pericolo i Paesi più vulnerabili e le popolazioni più povere che sono le prime vittime di questa situazione”. Il ministro italiano, Pichetto Fratin, commenta: “La Cop deve dare un percorso che è quello della decarbonizzazione che significa superare la fase carbone e successivamente la fase petrolio. Quella dell’Opec è una mossa di puro interesse di parte”.
Le imprese Oil&gas alla Cop. Anche quelle italiane – E gli interessi di parte alla Cop 28 giocano un ruoloimportante, se Unione europea e Stati membri hanno accreditato oltre 132 rappresentanti del settore dei combustibili fossili. E se lo stesso Governo Meloni ha permesso alle big del fossile di far parte della delegazione italiana che partecipa alla Cop 28 di Dubai. Tra gli accreditati, infatti, ci sono gli amministratori delegati di TotalEnergies ed Eni, che sono intervenuti ai colloqui sul clima delle Nazioni Unite come parte delle delegazioni della Commissione Europea e dei governi degli Stati membri. Lo rileva una ricerca del Corporate Europe Observatory. Sia dalla Francia che dal Belgio sono arrivati 26 lobbisti del settore dell’oil&gas, il numero più alto di delegati portati dagli Stati membri dell’Ue e dalla Commissione. Per la Francia sei i lobbisti di TotalEnergies, incluso il ceo PatrickPouyanné. L’Italia, invece, ha portato il terzo gruppo di lobbisti più grande dell’Ue, diciannove accrediti, con un’ampia delegazione di Eni (14), ma anche quattro rappresentanti di Snam e uno di Edison, società proponente del gasdotto Eastmed. A questi, però, vanno aggiunti il numero uno di Eni, ClaudioDescalzi e GuidoBrusco, direttore generale Natural Resources di Eni dal 2022 (e presidente di Confindustria Energia) che non sono stati convocati dalla delegazione italiana, ma dalla CommissioneUe.
Eni è la seconda azienda per progetti di espansione di idrocarburi negli Emirati – Ma Eni, attualmente citata in giudizio da GreenpeaceItalia, ReCommon e altri dodici cittadini e cittadine, “per i danni subiti e futuri, in sede patrimoniale e non, derivanti dai cambiamenti climatici a cui Eni ha significativamente contribuito”, secondo un nuovo report di Urgewald, Lingo, Reclaim Finance e BankTrack, è la seconda azienda a livello mondiale per progetti di espansione di produzione di idrocarburi negli Emirati. Nonché principale partner internazionale dell’azienda di stato emiratina Adnoc. Come ricorda il think tank italiano Ecco, Eni è presente negli Emirati Arabi Uniti dal 2018 ed è impegnata sia in attività di esplorazione che di produzione, agendo principalmente come operatore in più di 18mila chilometri quadrati di superficie”. L’azienda detiene la quota maggiore di risorse di petrolio e gas in fase di sviluppo e di valutazione negli Emirati dopo Adnoc (622 miliardi di barili equivalenti di petrolio o 5,1%). Tra le varie concessioni rientra il progetto Ghasha, il cui avvio è previsto per il 2025, con una produzione stimata di oltre 450 milioni di metri cubi di gas al giorno e più di 120mila barili di olio e condensati al giorno. “Il progetto sta suscitando le critiche dei movimentiambientalisti – spiega Ecco – perché il giacimento offshore è situato nella Riserva della Biosfera di Marawah, la più grande riserva marina naturale del MedioOriente”. Oltre ai numerosi progetti di estrazione e produzione di idrocarburi, Eni e Adnoc stanno investendo nella cattura e lo stoccaggio del carbonio (Ccs). Attualmente l’impianto è associato a un progetto di recupero del petrolio volto ad aumentare la produzione del giacimento petrolifero onshore di Bab, sempre negli Emirati. Le emissioni prodotte dai principali progetti di estrazione di petrolio e gas nei paesi membri dell’Opec del Golfo causeranno più di 43 milioni di morti premature nella regione entro la fine del secolo. La stima è dei ricercatori della rete ambientalista Lingo (Leave it in the ground). I ricercatori di Lingo hanno calcolato anche i danni totali per la regione, misurati in base al costo sociale del carbonio, e ammontano a circa 19.800 miliardi di dollari nell’area del Consiglio di cooperazione del Golfo e a 80.000 miliardi di dollari a livello globale. Si tratta di 70 volte il Pil annuale dell’Arabia Saudita (1.100 miliardi di dollari nel 2022) e di 800 volte l’importo destinato ai finanziamenti annuali per il clima (100 miliardi di dollari).
SECONDO ATTO. Tra i 350 abitanti morti sotto le bombe negli ultimi due giorni c'è anche lo scrittore Refaat Al Areer: è un omicidio deliberato, dicono i palestinesi. Veto Usa all’Onu: no al cessate il fuoco
Sfollati palestinesi nelle tende del campo improvvisato nella zona di Muwasi - foto Ap/Fatima Shbair
Per Ramy Abdul, docente di diritto e presidente dell’Euro-Med Human Rights Monitor, il bombardamento che due giorni fa ha ucciso a Gaza il poeta e intellettuale Refaat Al Areer non è stato casuale ma deliberato. «L’altro ieri – ha scritto Abdul su X (Twitter) – Refaat ha ricevuto una telefonata dai servizi segreti israeliani che gli dicevano di averlo localizzarlo nella scuola dove si era rifugiato. Lo hanno informato che lo avrebbero ucciso. (Refaat) È uscito dalla scuola per non mettere in pericolo gli altri, alle ore 18 è stato bombardato l’appartamento di sua sorella in cui sono rimasti uccisi lui, la sorella e i suoi quattro figli».
A Gaza credono che nei passati due mesi bombe sganciate dai jet israeliani abbiano preso di mira alcune delle espressioni più brillanti della società civile palestinese. Alla morte era scampato per miracolo qualche settimana fa Raja Sourani, storico attivista dei diritti umani. Privo di vita invece è stato estratto dalle macerie, qualche giorno fa, Sufian Tayeh, presidente dell’Università islamica e scienziato con rapporti con atenei di tutto il mondo. Ora Refaat Al Areer.
POETA, romanziere, traduttore e professore di letteratura che ha
CLIMA. La classifica di Germanwatch, Can e Newclimate institute. Ciafani (Legambiente): "Serve un’inversione di rotta, possiamo colmare il nostro ritardo grazie soprattutto al contributo dell'efficienza energetica e delle rinnovabili"
Corteo di Fridays for Future a Milano - foto LaPresse
Ieri a Dubai Germanwatch, NewClimate Institute e Can International hanno reso pubblico il Climate Change Performance Index (Ccpi) 2024, cioè il ranking che monitora i progressi in materia di mitigazione dei cambiamenti climatici di 63 Paesi responsabili di oltre il 90% delle emissioni globali.
L’ITALIA è in caduta libera, avendo perso nell’ultimo anno ben 15 posizioni, fino alla 44esima posizione, dietro tra gli altri a Pakistan, Colombia, Indonesia e Messico. Questo risultato negativo è legato in particolare al rallentamento della riduzione delle emissioni climalteranti (37esimo posto della specifica classifica) e a una politica climatica nazionale fortemente inadeguata a fronteggiare l’emergenza (58esimo posto della specifica classifica). «Il governo del Paese ha fatto poco per spingere verso politiche climatiche più ambiziose; in alcuni settori ha addirittura fatto marcia indietro» si legge nella scheda-Paese. E ancora: «Sono previste nuove infrastrutture per i combustibili fossili, come gasdotti e terminali di rigassificazione, e non è in vista alcun piano di eliminazione graduale dei sussidi ai combustibili fossili». Un quadro desolante: il Climate change performance index (Ccpi) prende come parametro di riferimento gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e gli impegni assunti al 2030; il Ccpi si basa per il 40 per cento sul trend delle emissioni, per il 20 per cento sullo sviluppo sia delle rinnovabili che dell’efficienza energetica e per il restante 20 per cento sulla politica climatica. Anche quest’anno le prime tre posizioni della classifica non sono state attribuite, in quanto nessuno dei Paesi ha raggiunto secondo i ricercatori la performance necessaria per contribuire a fronteggiare l’emergenza climatica e contenere il surriscaldamento del pianeta entro la soglia critica di 1,5 gradi centigradi. Anche se «alcuni Paesi ottengono buoni risultati in singole categorie, nessun Paese è costantemente in “alto” o “molto in alto”. La media non è semplicemente sufficiente per un percorso verso 1,5 gradi. I Paesi devono moltiplicare gli sforzi.
IN QUESTO SENSO la Cop 28 svolge un ruolo cruciale. «Una decisione vincolante di triplicare la capacità di energia rinnovabile, raddoppiare l’efficienza energetica e ridurre drasticamente l’uso di carbone, petrolio e gas fino al 2030 potrebbe aprire la strada a un percorso allineato con gli obiettivi di Parigi» ha commentato Jan Burck di Germanwatch, uno degli autori. Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, l’attuale aggiornamento del Piano nazionale integrato energia e Clima (Pniec) consente un taglio delle emissioni entro il 2030 di appena il 40,3 per cento rispetto al 1990, davvero poca cosa, un obiettivo insufficiente. «Nonostante il boom delle rinnovabili, la corsa contro il tempo continua. Entro il 2030 – spiega Mauro Albrizio, responsabile ufficio europeo di Legambiente – le emissioni globali vanno quasi dimezzate, grazie soprattutto alla riduzione dell’uso dei combustibili fossili».
E A PROPOSITO di fossili, in fondo alla classifica restano i Paesi esportatori e utilizzatori di combustibili fossili come Emirati Arabi Uniti (65esimi), Iran (66esimo) e Arabia Saudita (67esima). La Cina, che lo ricordiamo è il maggiore responsabile delle emissioni globali, rimane stabile al 51esimo posto dello scorso anno: le emissioni continuano a crescere per il forte ricorso al carbone. Invece gli Stati uniti, secondo emettitore globale, si posizionano al 57esimo posto. Un passo indietro di cinque pozioni rispetto allo scorso anno, «dovuto all’ancora scarsa attuazione delle misure previste dall’Inflation Reduction Act, che destina un considerevole sostegno finanziario per l’azione climatica» spiega un comunicato di Germanwatch.
SOLO TRE MEMBRI del G20, India e Germania (14esime) insieme all’Unione Europe (16esima), sono nella parte alta della classifica. La maggior parte dei Paesi del G20, invece, si posiziona nella parte bassa. Mentre Canada (62esimo), Russia (63esima), Sud Corea (64esima) e – ancora – Arabia Saudita (67esima) sono i Paesi del G20 con la peggiore performance climatica.
Riguardo la posizione dell’Italia, il presidente di Legambiente Stefano Ciafani commenta: «Serve una drastica inversione di rotta. L’Italia può colmare l’attuale ritardo e centrare l’obiettivo climatico del 65 per cento, in coerenza con l’obiettivo di 1,5° gradi, grazie soprattutto al contributo dell’efficienza energetica e delle rinnovabili». È il «Paris compatible scenario» elaborato da Climate analytics, secondo cui il nostro Paese può ridurre le sue emissioni climalteranti di almeno il 65 per cento grazie al 63 per cento di rinnovabili nel mix energetico ed al 91 per cento nel mix elettrico entro il 2030. Per farlo bisogna uscire dal carbone entro il 2025 e dal gas fossile entro il 2035. Uno scenario incompatibile con le scelte del governo Meloni, dal rigassificatore alle porte di Savona al metanodotto Snam, 430 chilometri da Sulmona a Minerbio (Bologna), contro cui ieri si è manifestato nella cittadina abruzzese
L’intesa sul nuovo Patto di stabilità si scontra con il muro del rigore. Dopo 8 ore i ministri Ue gettano la spugna: se ne riparla intorno al 20 dicembre. Ma il tedesco Lindner avverte: «I deficit si abbassano, non si perdonano». Giorgetti minaccia di non firmare e frena anche sul Mes
NODO ALLA GOLA. Niente intesa, i ministri Ecofin parlano di passi avanti significativi ma bisogna trattare ancora. Giorgetti:«No a un cattivo accordo»
Paolo Gentiloni all’Eurofin di Bruxelles - foto Ap
I ministri Ecofin gettano la spugna alle 4 del mattino dopo una “cena” durata 8 ore. Passi avanti «significativi» ma l’accordo sul nuovo patto di stabilità ancora non c’è. Se ne riparlerà in un vertice straordinario Ecofin tra il 18 e il 21 dicembre, dopo il prossimo Consiglio europeo del 14 e 15, in modo che anche i capi di governo possano affrontare in via informale la questione. Il commissario Ue Paolo Gentiloni, cauto per natura, non azzarda percentuali: «La missione non è compiuta ma ci sono ragionevoli possibilità di trovare l’intesa entro l’anno». Il francese Bruno Le Maire invece si butta: «Successo al 95%». Il collega tedesco Christian Lindner frena ma non troppo: 92%. Un gioco delle parti tra Francia e Germania che non si limita a previsioni e percentuali.
UN TESTO SUL QUALE il compromesso sembra possibile c’è, approvato dai quattro Paesi maggiori, Germania, Francia, Italia e Spagna, ma contrastato da sette “frugali”. Prevede un triennio di flessibilità, dal 2025 al 2027, nel rientro sul deficit, che ogni Paese dovrebbe concordare con la Commissione. Ma la sensazione è che il nodo sia più aggrovigliato. «Noi accettiamo un pacchetto complessivo. Non si può isolare un punto dagli altri», commenta il ministro italiano Giancarlo Giorgetti e fa risuonare per l’ennesima volta la minaccia di non firmare un’intesa insoddisfacente: «Piuttosto che un cattivo accordo è meglio tornare alle vecchie regole».
LA CONTESA, come prevedibile, è stata tutta intorno a una voce sola, anche perché su tutto il resto i rigoristi la avevano già avuta vinta: il rientro sul deficit. La clausola di garanzia chiesta dalla Germania impone un rientro dello 0,5% ogni anno. La controproposta francese abbassava l’esborso allo 0,3% del Pil a patto che lo 0,2% fosse investito in spese strategiche, il verde, il digitale, la difesa. Lindner ha puntato i piedi: «I deficit si abbassano, non si perdonano». Un po’ è rigorista ai confini dell’integralismo di suo, un po’ è pressato dalle difficoltà in casa, diventate mastodontiche dopo la sentenza della Corte costituzionale tedesca che ha dichiarato incostituzionale lo spostamento di 60 miliardi presi per il Covid, dunque non a deficit, alla voce spese ecologiche.
È di fronte a questa impasse insuperata che è spuntata la proposta di compromesso: una formula che, «considerando» l’aumento selvaggio dei tassi deciso dalla Bce nell’ultimo anno e la necessità riconosciuta anche dai falchi più rapaci di trovare un equilibrio tra rigore e investimenti, concederebbe tre anni di flessibilità, evitando così le procedure d’infrazione per deficit eccessivo che minacciano una decina di Paesi tra cui l’Italia.
Però non è facile credere che le difficoltà siano tutte qui, rappresentate solo da sette Paesi particolarmente rigoristi. Il problema inconfessato è l’intera logica delle nuove regole. Il ministro italiano troverebbe «logico e coerente con le aspirazioni europee» rendere definitivo l’accordo transitorio di compromesso. «Abbiamo accettato le salvaguardie proposte dalla Germania ma se i governi continuano a mantenere alti gli standard delle ambizioni europee le regole fiscali devono essere adeguate», prosegue. L’allusione è ancora a quella richiesta di contare nel deficit le spese strategiche che il ministro tedesco Lindner ha però liquidato sdegnosamente: «Siamo contrari alla golden rule». Ma non c’è solo questo: le «clausole» a cui allude Giorgetti e che sembrano essere già passate in giudicato portano di fatto il tetto del deficit dal 3% di Maastricht all’1,5%. Il rientro sul debito di un punto percentuale all’anno, anche nell’arco non di 4 ma di 7 anni come chiedono Italia e vari Paesi con la solita resistenza nordica, è una pietra al collo da 20 miliardi l’anno. La richiesta di valutare la necessità di rientro del deficit sulla spesa primaria invece che strutturale, cioè senza includere gli interessi sul debito, è già stata respinta dai frugali.
NEL COMPLESSO L’INTERA logica della proposta iniziale della Commissione, basata su trattative flessibili, Paese per Paese, con la Commissione stessa, rischia di uscire non solo stravolta ma addirittura rovesciata. La trattativa dei prossimi 10-15 giorni sarà dunque più profonda e complessiva di quanto i ministri ammettano.
Per l’Italia, che ha dovuto incassare anche lo smacco, peraltro previsto, della nomina della spagnola Nadia Calviño alla guida della Bei al posto del candidato italiano Daniele Franco, la partita si gioca anche sul tavolo del Mes. Giorgetti aveva fatto capire ai colleghi che la questione si sarebbe potuta sbloccare la settimana prossima a fronte di un patto con elementi di flessibilità rilevanti. Il vicepremier forzista Antonio Tajani già si era lanciato, dichiarandosi in un’intervista a favore della ratifica. Il ministro italiano dell’Economia frena: «È in calendario il 14 dicembre. Deciderà il parlamento». La ratifica non è certa. In realtà non lo è ancora neppure la firma dell’eventuale accordo sul patto.
IL CASO. Le grandi aziende energetiche non dovranno versare l’ultima rata della tassa sugli extraprofitti e risparmieranno così 450 milioni di euro. Ma la cifra potrebbe essere più alta per quest’anno. E per il prossimo le modalità vanno ancora definite. Le opposizioni denunciano anche un altro condono fiscale. La sanità è il problema del governo: i medici e infermieri annunciano nuovi scioperi a gennaio
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni - Ansa
È stato approvato al Senato, con 87 voti favorevoli e 46 contrari, il «decreto anticipi» collegato a una legge di bilancio varata due mesi fa dal Consiglio dei ministri che ieri sera aspettava ancora un corposo pacchetto di emendamenti con i quali il governo Meloni dovrebbe modificare un testo presentato come un sacro testo inemendabile.
IL PRIMO SCONTRO è stato provocato da uno sconto da 450 milioni di euro sulla tassa sugli extra-profitti delle società energetiche. Per Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde, potrebbe essere il doppio. La tassa era stata prevista dal governo Draghi per un importo teorico di 8,3 miliardi di euro, è stata rimodulata nella prima finanziaria di quello Meloni (2,5 miliardi), ora si arriverebbe a un’ulteriore modifica (450 milioni o anche 800). Si permetterebbe così alle compagnie che dovevano versare l’ultima tranche della tassa sugli extra-profitti al 30 novembre di non pagare, almeno per quest’anno. Per il prossimo le modalità sono ancora da stabilire.
«DAL 2021 fino a settembre 2023, le società energetiche hanno registrato profitti per 70 miliardi di euro, in gran parte dovuti all’incremento vertiginoso delle bollette a carico di famiglie e imprese» ha ricordato Bonelli. «Non bastava accanirsi sulle famiglie dicendo No alla proroga del mercato tutelato, ora arriva anche il regalo di Natale per le società energetiche». «Saldi e sconti per banche e grandi società energetiche e salasso per i cittadini alle prese con l’aumento di mutui e bollette» ha sintetizzato Giuseppe Conte dei Cinque Stelle.
LA SECONDA POLEMICA, con bagarre in aula e sospensione di cinque minuti , ha riguardato Claudio Lotito, presidente della Lazio e vicepresidente della Commissione Bilancio per Forza Italia. Un emendamento a suo nome ha prorogato i termini scaduti delle prime rate della «rottamazione quater. Non è una proroga ma un «condono», hanno sostenuto le opposizioni, che ne hanno chiesto il ritiro.
IL «DL ANTICIPI» scadrà il 17 dicembre, ora passerà alla Camera dove sarà approvato con la fiducia. è un altro «decreto salsiccia» che contiene una norma anche sugli affitti brevi e turistici, non solo per chi fa l’«imprenditore»: un Codice identificativo nazionale, l’obbligo di dotare gli appartamenti di sistemi di rilevamento di gas ed estintori. In questo caso la maggioranza ha corretto un limite che essa stessa aveva introdotto in precedenza.
SUGLI EMENDAMENTI l’attesa è nervosa. I tempi stringono, oggi è l’Immacolata, arriva il Natale, c’è lo spettro dell’esercizio provvisorio e il palazzo vuole andare in vacanza. La contraddizione è tutta nel campo del governo e della maggioranza. Sono circa 15. Riguarderebbero il comparto difesa: divieto delle armi chimiche; ridenominazione dei progetti navali di rilevanza strategica nazionale; rifinanziamento del «Nato Innovation Fund» e per il Polo nazionale per la subacquea. Sullo sport nuove risorse per il progetto «Filippide» (per persone con autismo), sui Lep si pensa a una proroga al 31 ottobre 2024 dell’attività della cabina di regia. Dal ministero dell’Istruzione arrivano ritocchi all’Agenda Sud, mentre per il Masaf il potenziamento degli uffici di diretta collaborazione. Un altro pacchetto di proposte riguarderebbe anche la Protezione civile, con norme sulla struttura commissariale sisma del 2016 e sulla ricostruzione post-calamità. Sul fronte della Pubblica amministrazione, si punterebbe al finanziamento dei sistemi informativi gestiti dal Dipartimento della Funzione pubblica, a nuove misure a favore di Caivano e ad interventi per il personale della Croce rossa italiana.
E C’È IL TAGLIO alle pensioni nel pubblico impiego, a cominciare dai medici. Dovrebbe arrivare un emendamento anche su questo. Il governo ha già incassato uno sciopero generale il 5 dicembre, un altro è in arrivo il 18, quello dell’«intersindacale». Anaao Assomed, Cimo-Fesmed e Nursing Up ne hanno annunciato un altro a gennaio nel caso in cui l’emendamento non risolva il problema. Sarà salvaguardato chi va in pensione col trattamento di vecchiaia e chi avrà maturato requisiti prima che la legge di Bilancio enti in vigore.
LA MOBILITAZIONE mette in difficoltà il governo. Lo si vede dall’insistenza con la quale Meloni ribadisce di avere messo più soldi che mai sulla sanità. Lo si vede dallo scontro con il ministro della Sanità Schillaci con il quale i sindacati hanno intrattenuto un rapporto cordiale. Per Schillaci le loro richieste sono esagerate. Il governo ha messo 3 miliardi, in tutto 5,3. Invece, per i sindacati ci sarà solo un aumento del 5.78%, 10 punti al di sotto del tasso inflattivo e sarà decurtato al rinnovo del contratto. «Il contratto 2019-2021, pre-firmato a settembre, deve ancora essere licenziato dal Consiglio dei Ministri e dovrà poi passare dalla Corte dei Conti»
“La pressione contro i combustibili fossili potrebbe raggiungere un punto critico con conseguenze irreversibili”. Con queste parole l’Opec, Organizzazione che riunisce tredici Paesi esportatori di petrolio, ha sollecitato i suoi membri attraverso alcune lettere a “rifiutare qualsiasi testo o formula (nel documento definitivo della Cop 28 di Dubai, ndr) che miri all’energia, cioè ai combustibili fossili, piuttosto che alle emissioni”. Diverse fonti indipendenti hanno confermato l’autenticità delle lettere a Bloomberg e Reuters. Ma se la ministra francese dell’Energia, Agnes Pannier-Runacher, si è detta “sbalordita” e “arrabbiata”, per il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica italiano, Gilberto Pichetto Fratin c’è poco da meravigliarsi. “La Cop28 ha la rappresentanza dei Paesi ma anche la rappresentanza di tanti blocchi di interesse, sarebbe da stupirsi se l’Opec, che rappresenta i Paesi produttori e venditori di petrolio, non tutelasse i propri interessi”. D’altro canto, secondo una ricerca del Corporate Europe Observatory, per la coalizione Kick Big Polluters Out, di cui fa parte ReCommon insieme a oltre 450 organizzazioni, Unione europea e Stati membri hanno accreditato oltre 130 rappresentanti delle imprese Oil & Gas e la delegazione quest’anno è arrivata alla cifra record di 2450 rappresentanti di aziende nel settore. Tra i Paesi europei l’Italia è al terzo posto per dati di accesso. “Grazie all’accredito ufficiale, i lobbisti del fossile avranno accesso ai negoziati istituzionali, a cui non possono partecipare i rappresentanti della società civile o dei media” spiega a ilfattoquotidiano.it Luca Manes, responsabile Comunicazione di ReCommon. E, a riguardo, c’è un nuovo report che rivela come Eni sia la seconda azienda a livello mondiale per progetti di espansione di produzione di idrocarburi negli Emirati, nonché principale partner internazionale dell’azienda di stato emiratina Adnoc.
Le imprese Oil&gas alla Cop. Anche quelle italiane – E gli interessi di parte alla Cop 28 giocano un ruolo importante, se Unione europea e Stati membri hanno accreditato oltre 132 rappresentanti del settore dei combustibili fossili. E se lo stesso Governo Meloni ha permesso alle big del fossile di far parte della delegazione italiana che partecipa alla Cop 28 di Dubai. Tra gli accreditati, infatti, ci sono gli amministratori delegati di TotalEnergies ed Eni, che sono intervenuti ai colloqui sul clima delle Nazioni Unite come parte delle delegazioni della Commissione Europea e dei governi degli Stati membri. Lo rileva una ricerca del Corporate Europe Observatory. Sia dalla Francia che dal Belgio sono arrivati 26 lobbisti del settore dell’oil&gas, il numero più alto di delegati portati dagli Stati membri dell’Ue e dalla Commissione. Per la Francia sei i lobbisti di TotalEnergies, incluso il ceo Patrick Pouyanné. L’Italia, invece, ha portato il terzo gruppo di lobbisti più grande dell’Ue, diciannove accrediti, con un’ampia delegazione di Eni (14), ma anche quattro rappresentanti di Snam e uno di Edison, società proponente del gasdotto Eastmed. A questi, però, vanno aggiunti il numero uno di Eni, Claudio Descalzi e Guido Brusco, direttore generale Natural Resources di Eni dal 2022 (e presidente di Confindustria Energia) che non sono stati convocati dalla delegazione italiana, ma dalla Commissione Ue.
Eni è la seconda azienda per progetti di espansione di idrocarburi negli Emirati – Ma Eni, attualmente citata in giudizio da Greenpeace Italia, ReCommon e altri dodici cittadini e cittadine, “per i danni subiti e futuri, in sede patrimoniale e non, derivanti dai cambiamenti climatici a cui Eni ha significativamente contribuito”, secondo un nuovo report di Urgewald, Lingo, Reclaim Finance e BankTrack, è la seconda azienda a livello mondiale per progetti di espansione di produzione di idrocarburi negli Emirati. Nonché principale partner internazionale dell’azienda di stato emiratina Adnoc. Come ricorda il think tank italiano Ecco, Eni è presente negli Emirati Arabi Uniti dal 2018 ed è impegnata sia in attività di esplorazione che di produzione, agendo principalmente come operatore in più di 18mila chilometri quadrati di superficie”. L’azienda detiene la quota maggiore di risorse di petrolio e gas in fase di sviluppo e di valutazione negli Emirati dopo Adnoc (622 miliardi di barili equivalenti di petrolio o 5,1%). Tra le varie concessioni rientra il progetto Ghasha, il cui avvio è previsto per il 2025, con una produzione stimata di oltre 450 milioni di metri cubi di gas al giorno e più di 120mila barili di olio e condensati al giorno. “Il progetto sta suscitando le critiche dei movimenti ambientalisti – spiega Ecco – perché il giacimento offshore è situato nella Riserva della Biosfera di Marawah, la più grande riserva marina naturale del Medio Oriente”. Oltre ai numerosi progetti di estrazione e produzione di idrocarburi, Eni e Adnoc stanno investendo nella cattura e lo stoccaggio del carbonio (Ccs). Attualmente l’impianto è associato a un progetto di recupero del petrolio volto ad aumentare la produzione del giacimento petrolifero onshore di Bab, sempre negli Emirati. Le emissioni prodotte dai principali progetti di estrazione di petrolio e gas nei paesi membri dell’Opec del Golfo causeranno più di 43 milioni di morti premature nella regione entro la fine del secolo. La stima è dei ricercatori della rete ambientalista Lingo (Leave it in the ground). I ricercatori di Lingo hanno calcolato anche i danni totali per la regione, misurati in base al costo sociale del carbonio, e ammontano a circa 19.800 miliardi di dollari nell’area del Consiglio di cooperazione del Golfo e a 80.000 miliardi di dollari a livello globale. Si tratta di 70 volte il Pil annuale dell’Arabia Saudita (1.100 miliardi di dollari nel 2022) e di 800 volte l’importo destinato ai finanziamenti annuali per il clima (100 miliardi di dollari).