Orbán si mette di traverso sui 50 miliardi di aiuti all’Ucraina e blocca il bilancio comunitario. Inclusi i fondi per la lotta all’immigrazione esaltati da Meloni. Che sul nuovo Patto di stabilità rischia di trovarsi di fronte a un dilemma: accettare la resa o non firmare, entrando in rotta con la Ue
ITALIA/UE. Il vertice Ecofin del 20 rischia di andare a vuoto. Per la premier il rischio di dover scegliere tra il no e la resa si fa più concreto
Per Giorgia Meloni si avvicina il momento della scelta più difficile. Il rischio di dover decidere tra un veto sulla riforma del Patto di stabilità che potrebbe guastare i rapporti con la Ue e l’ingoiare regole capestro è concreto. Ieri lo hanno detto quasi senza perifrasi sia lei da Bruxelles che Giorgetti da Roma.
«Le posizioni sono ancora abbastanza distanti. Bisogna lavorarci ora per ora», ammette la presidente del consiglio. «Le possibilità di arrivare a un accordo la prossima settimana sono scarse», conferma il ministro dell’Economia. È dunque probabile che anche il vertice straordinario Ecofin del 20 dicembre vada a vuoto. Del resto, duettano i principali esponenti del governo, decisioni di tale portata «non si possono prendere in videonconferenza». Servirà probabilmente un secondo vertice eccezionale prima del 31 dicembre, stavolta in persona. Sempre che ce ne siano gli estremi perché convocare un vertice per registrare il fallimento annunciato sarebbe solo controproducente.
LA PARTITA NON È né chiusa né persa, però non è neppure vicina a concludersi in modo per l’Italia soddisfacente. Sul tema, nel punto stampa da Bruxelles, la premier è particolarmente cauta, quasi pesa le parole. Nessuna richiesta ultimativa in sé: «È un equilibrio che deve tenersi insieme. Ci sono ancora almeno tre punti in discussione e creano un equilibrio diverso. Bisogna tenere aperte tutte le strade finché non si capisce qual è il punto di caduta migliore che si può ottenere».
Crack Mps: tante colpe, nessun colpevole
I tre punti sono tali da non autorizzare grandi ottimismi, data la posizione rigida assunta dalla Germania e dai Paesi nordici: i parametri delle clausole di salvaguardia su deficit e debito, in particolare quella zona cuscinetto sul deficit che porterebbe di fatto la soglia del parametro ben al di sotto del 3% di Maastricht; la flessibilità nel rientro dello 0,5% sul deficit, che i frugali, e neppure tutti, sono disposti a concedere solo per tre anni mentre Italia e Francia la vorrebbero fissa, tenendo cioè sempre conto degli interessi maturati per le spese strategiche, Green Deal, digitalizzazione e Difesa; gli incentivi per procedere con le riforme, in particolare quelle del Pnrr e per la Difesa. Su un pacchetto del genere trovare un punto d’equilibrio che soddisfi sia la Germania che l’asse franco-italiano sarà un’impresa.
Meloni prova a giocare di diplomazia, evita di minacciare apertamente il veto: «Non voglio metterla così. Non sarebbe un buon modo di cercare una sintesi». Poi però lei stressa conferma che la possibilità estrema non è esclusa: «Solo una cosa non posso fare: dare il mio ok a regole che non io ma nessun governo italiano potrebbe rispettare». Giancarlo Giorgetti è più stringato: «Metteremo la firma solo se ci sono gli interessi del Paese». Detta firma, anche se la premier per diplomazia lo nega, trascina anche quella sul Mes. «Questo link lo vedono solo in Italia», assicura Giorgia Meloni, ma firmare il Mes dopo aver bloccato il Patto di stabilità è una eventualità non contemplata.
SAREBBE UNA SCELTA difficilissima per tutti. Per questo governo lo è ancora di più. Nel suo primo anno a palazzo Chigi la presidente del consiglio ha ottenuto successi politici molto più a Bruxelles che a Roma. Di concreto, anche da questo difficile Consiglio europeo non porta a casa niente. Ha esaltato i quasi 10 miliardi per la lotta contro l’immigrazione, giacché solo di questo si tratta, inseriti nella bozza di modifica del bilancio. Ma sono soldi virtuali, almeno per ora, dato che l’amico ungherese Viktor Orbán li ha bloccati. Si compiace per gli applausi tributati dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen all’accordo con l’Albania. Che però è congelato dalla Corte costituzionale albanese. Meloni è ottimista sullo soluzione positiva di entrambe le vicende ma al momento la realtà è questa.
Dal punto di vista politico, invece, qualche risultato la premier italiana lo incamera: è stata importante se non decisiva nel costringere Orbán a una prima ma non definitiva resa: cose che in Europa contano parecchio. Il duello tra lei e il presidente francese Emmanuel Macron si è concluso con un’alleanza cementata dall’interesse comune. Pur se solo sulla carta, i falchi che puntavano i piedi sul bilancio negando anche un solo euro alla crociata sull’immigrazione hanno fatto un passo indietro. Però se l’Italia da sola bloccasse sia la riforma del Patto di stabilità che quella del Mes il clima a Bruxelles diventerebbe molto meno idilliaco. Se invece Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti si piegassero, dovrebbero poi governare per quattro anni in condizioni proibitive. Nessuno più di loro, oggi, spera che quel magico punto d’equilibrio, di qui ai botti di capodanno, si materializzi
Commenta (0 Commenti)E’ venuto a mancare per un incidente Massimo Scalia, uno dei fondatori del movimento ecologista in Italia, mente raffinatissima del pensiero ambientale. Un grande dolore per tutta la comunità di Ecofuturo.
Massimo Scalia è stato un noto esponente dell’«ambientalismo scientifico» italiano. Ha insegnato e fatto ricerca in Fisica Matematica per oltre 40 anni alla «Sapienza» di Roma, coniugando il metodo scientifico con lo spirito necessario nelle battaglie ambientaliste e per un nuovo futuro energetico.
Leader del movimento antinucleare degli anni 70 e 80, che portò alla chiusura delle centrali atomiche nel 1990, ha dato un forte contributo anche nel referendum del 2011 contro il tentativo di rilanciare il nucleare.
Cofondatore di Legambiente e dei Verdi è stato parlamentare alla Camera dal 1987 al 2001. Ha promosso la prima legislazione organica su risparmio energetico e fonti rinnovabili, la legge per il bando dell’amianto e ha presieduto per due legislature la Commissione d’inchiesta sulle «ecomafie».
Dopo il 2001 ha ripreso le sue ricerche sui sistemi dinamici non lineari, in particolare su un modello globale di «stato stazionario» economico-ecologico. Ha diretto la sezione Bioelettromagnetismo del Centro di Ricerca Interuniversitario Per lo Sviluppo sostenibile (Cirps). Buona parte delle sue pubblicazioni scientifiche sono accessibili su Researchgate: Massimo SCALIA | Research profile (researchgate.net)
È stato esperto di parte civile nella vittoriosa battaglia giudiziaria contro la mega centrale di Porto Tolle (2013). Ha costituito la Commissione scientifica che segue il «decommissioning» degli impianti nucleari italiani.
Ha presieduto il Comitato scientifico del Dess Unesco 2005-2014 e ed è stato parte della presidenza del Comitato nazionale per l’Educazione alla Sostenibilità della Cni-Unesco.
Il dramma scatenato dal massacro perpetrato da Hamas sembrava aver coperto il brusio sul nucleare che stava crescendo nel “palazzo”, ma in realtà stavano lavorando come formichine. La piattaforma “Il nuovo nucleare in Italia”, un documento confidenziale, era stato presentato al ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Pichetto Fratin il 22 ottobre scorso.
E dopo la pensata dei tre deputati della maggioranza, che avevano tentato con un emendamento al “decreto Sud” di affidare alla Difesa la realizzazione non solo dei nuovi Centri per il rimpatrio, ma anche gli “impianti energetici” – leggi “centrali nucleari” – [leggi qui nota 1], erano insorti i nuovi pretoriani “atomici”, cazziando la superficialità di Salvini: «Sul nucleare serve serietà» (Foglio, 27 ottobre 2023), il quale, una volta tanto, incredibile!, non c’entrava. E Pichetto, volando novello Aladin sulla sua piattaforma, aveva asseverato con fermezza: «Abbiamo bisogno di stare nella ricerca di un nucleare pulito, di nuova generazione, tanto diverso da quello referendario» (Il Sole 24 Ore Radiocor Plus 30 ott). Già, ma quale?
Il ministro aveva però anticipato la risposta, addirittura prima che gli fosse presentata la piattaforma, con un tema a lui caro, quello degli Smr (Small Modular Reactor). «Difficile che vedremo una centrale nucleare, vedremo tanti small reactor che sono delle piccole centrali da 300, 500, 1000 megawatt questo sì. Sfatiamo un mito poi: saranno i privati nel 2030-2035 a fare domanda per installare le centrali, non sarà lo Stato che lo farà, ma saranno le imprese che avranno l’interesse» (Ageei, 6 ottobre 2023). Per non umiliare il vicepremier, Pichetto si era sentito in obbligo di dire anche lui qualche grossa minchiata. Come quella di qualificare “piccole centrali” reattori da 300 a 1000 Mw.
Sembra di risentire l’indimenticabile Cingolani! 300 Mw è infatti la taglia massima prevista per gli Smr, che non sono poi davvero una novità e presentano il seguente quadro. Due in esercizio in Russia, un Pwr (Pressurized Water Reactor) da 70 Mw e un Rbkm da 11 Mw (un mini reattore moderato a grafite tipo Cernobyl), un Htgr (High Temperature Gas-cooled Reactor) da 210 Mw in Cina e un altro, sembra, in India. Ma del quale non si trova traccia se non nell’annuncio in un sito di statistiche, che però all’annuncio si ferma [leggi qui nota 2].
La Iaea (International Atomic Energy Agency) ci informa che ci sono complessivamente oltre 80 progetti di Smr in vari Paesi del mondo, alcuni sono stati ritirati, e dei quattro in costruzione, due sono in Cina, uno in Russia e uno in Argentina [leggi qui nota 3]. Però, nonostante il panegirico e i vantaggi che l’Agenzia atomica predica per gli Smr come “Nuclear Power for the Future”, l’ultimo rapporto sul loro stato dell’arte risale a tre anni fa e, dopo decadi di chiacchiere – i prototipi sono partiti negli anni ’60 in Germania, Russia e Giappone – l’espansione degli Smr è rimasta flatus vocis. Meno di un millesimo della potenza nucleare in esercizio nel mondo! Con la produzione di energia nucleo-elettrica, non fa mai male ricordarlo, che su scala mondo è scesa a meno del 10% di quella elettrica complessiva e, conseguentemente, a meno del 2% dei consumi finali d’energia.
In definitiva i tanto sottolineati aspetti appetibili degli Smr – la piccolezza della taglia rispetto alle centrali di potenza, la modularità, cioè la possibilità di assemblare in fabbrica componenti e sistemi, e il trasporto dell’unità assemblata nel sito dell’installazione – hanno convinto solo gli utenti abituali, che sono la Marina degli Stati che ha in dotazione sottomarini a propulsione nucleare. L’eterna liaison nucleare civile/nucleare militare, come − a parte l’ormai annosa vicenda dell’Iran − confermò pochi anni fa (ce ne fosse stato bisogno) la richiesta abbastanza ultimativa che la Rolls Royce, uno dei produttori di Smr, avanzò al Governo inglese per sollecitare altri ordinativi. (Chaffee P., 2020, “Rolls Royce pushes for major Smr commitments”, Nucl. Intell. Weekly.14).
Piccoli e sicuri? Piccoli certamente, quanto alla sicurezza siamo alle solite con la fissione nucleare. Gli Smr adottano le stesse tecnologie di fissione ultra-note e non sono mai stati concepiti per la sicurezza intrinseca, i problemi sono sempre gli stessi. Insomma, per la fissione vale − all’insegna del repetita iuvant − la battuta di Giorgio Parisi: «È più vecchia del transistor». Il perché di questo ritardo, e come l’innovazione abbia riguardato componenti e soluzioni ingegneristiche anche importanti, ma non la Fisica del reattore, lo riserviamo ai ripetitivi dibattiti per un eventuale terzo referendum sul nucleare. Quanto alla contaminazione radioattiva si avrebbe, per cumulativi 1000 Mw, cioè quanti quelli di una centrale di potenza, un maggior coinvolgimento di territorio dovuto al frazionamento in tanti piccoli impianti….
Continua a leggere su Smr, la favola del mini-nucleare sicuro e le leggi della Fisica. L’Italia si accoda agli “orfani dell’atomo” – Italia Libera
Commenta (0 Commenti)INCIDENTI FERROVIARI. La procura di Ravenna, come atto dovuto, lo inserisce nel registro I colleghi: fatto scendere per risolvere il guasto senza attivare i freni. Trenitalia smentisce un intervento della Sala operativo centrale per la presenza dell’ad di Rfi. Ghirra (Avs): il ministro riferisca invece di tagliare 500 milioni in sicurezza
I danni subiti dal Frecciarossa Etr 600 dopo il tamponamento di domenica vicino Faenza
Il copione è sempre lo stesso. Specie da quando il macchinista – anche per i velocissimi Frecciarossa – è unico. La colpa di qualsiasi incidente è sua. E così la procura di Ravenna ha indagato per disastro ferroviario – reato che prevede da 5 a 15 anni di pena – il macchinista di 44 anni di Venezia alla guida dell’Etr 600 Lecce-Venezia che domenica poco dopo le 20 nei pressi di Faenza aveva la responsabilità del treno che ha tamponato il Regionale fermo a un semaforo, provocando una ventina di feriti per fortuna lievi.
SI TRATTA DI UN ATTO DOVUTO: nei prossimi giorni la procura affiderà a un esperto una perizia tecnica per fare luce sull’incredibile incidente.
Una circostanza che sarà presa in esame riguarda anche il fatto – anticipato dal manifesto e confermato dall’azienda – che sul Frecciarossa viaggiasse l’amministratore delegato di Rfi, l’azienda di Fs che si occupa della gestione delle infrastrutture, Gianpiero Strisciuglio.
La ricostruzione più accreditata tra i macchinisti e i sindacalisti – le chat sono state da noi visionate e risultano quanto meno plausibili – è quella di un «eccesso di zelo». La presenza dell’ad di Rfi, seppure non si fosse «palesato» come sostiene l’azienda, avrebbe portato a cercare di risolvere il guasto sull’Etr 600 nei tempi più brevi possibili. Se Trenitalia ieri «in merito all’articolo pubblicato» dal manifesto «smentisce che la Sala operativa centrale abbia fatto pressione sul macchinista per compiere attività non conformi ai regolamenti o per velocizzare le operazioni, in quanto a bordo del treno viaggiava l’ad di Rfi Gianpiero Strisciuglio», in realtà sarebbe stata «la sala operativa dedicata ai Frecciarossa» e il cosiddetto dirigente «reperibile» «a dare indicazione al macchinista di individuare la perdita d’aria su una carrozza lasciando il materiale (il treno, ndr) sfrenato: è stato suggerito di non inserire il freno a molla onde evitare di non togliere e di staccare la piastra», «il collega è quindi sceso a isolare una vettura e si è visto andare via il treno. I capitreno a quanto pare non erano in cabina», concludono i macchinisti.
TRENITALIA CONFERMA comunque che le cause dell’incidente «sono in corso approfondimenti ed è stata nominata una commissione interna per accertare la dinamica dell’accaduto».
Tutte questioni che saranno comunque prese in esame dall’inchiesta che ha, innanzitutto, l’obiettivo di definire la dinamica dell’incidente: il Frecciarossa è andato in retromarcia a causa della leggera pendenza dei binari impattando, a bassissima velocità – circa 16 km all’ora – contro il Regionale che era regolarmente fermo al semaforo. La velocità dello scontro, in ogni caso, è stata il fattore determinante per le sue conseguenze, sei passeggeri hanno riportato lievi ferite medicate senza la necessità di un ricovero, un’altra decina ha avuto qualche contusione.
IERI SONO STATE PRESENTATE due interrogazioni parlamentari che citano la ricostruzione del manifesto. «Il ministro Salvini cosa dice del contenuto della chat dei lavoratori e dei sindacalisti che fa riferimento a un errore del macchinista unico causato dalle pressioni per risolvere nel più breve tempo possibile il guasto per il quale il treno era fermo? Invece di tagliare 500 milioni del Pnrr sulla sicurezza ferroviaria, aspettiamo di ascoltare la sua voce in aula», ha dichiarato Francesca Ghirra, capogruppo di Alleanza Verdi Sinistra in commissione Trasporti alla Camera. La deputata ravennate del Pd Ouidad Bakkali chiede al ministro di fare chiarezza sull’episodio e di completare il progetto per rendere la Bologna-Rimini a quadruplo binario
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ALLA CAMERA. Bertinotti e Casini contro la riforma, solo Fini la difende con molta volontà e pochi argomenti
Fausto Bertinotti, parlamentarista convinto, spiega che battersi per il parlamento in queste condizioni significa difendere un simulacro. Pie Ferdinando Casini, senatore imposto dal Pd ai suoi elettori bolognesi, parte lancia in resta contro le liste bloccate e i candidati paracadutati. Gianfranco Fini, che mollò Berlusconi e ne anticipò la crisi e poi aprì al governo Monti, stronca i governi tecnici, fonte di ogni male. Gli ex presidenti della camera sono così, hanno alle spalle una storia politica lunga e tante curve a gomito, ma a vederli uno accanto all’altro a (ri)parlare di riforme ci si diverte persino, tanto serrati sono i loro litigi.
Fini, che ci tiene al ruolo di consigliere anziano di Meloni assai più di quanto lei voglia riconoscerlo, è per principio favorevole al disegno di legge di riforma costituzionale firmato dal governo. In nome del fatto che lui e prima di lui il Msi sono sempre stati «presidenzialisti convinti» (pazienza che questa non sia esattamente una proposta presidenziale e nemmeno semi). La sua difesa del progetto di Meloni è tanto ferma nelle intenzioni quanto traballante nelle argomentazioni, tipo «i poteri del presidente della Repubblica non vengono toccati perché resta presidente del Csm e riceve le credenziali degli ambasciatori».
Siamo alla camera dei deputati, ospiti dell’associazione ex parlamentari e della stampa parlamentare, e c’è anche una quarta vecchia gloria, Carlo Scognamiglio Pasini, tuttora però più noto come ex velista che come ex presidente del senato dunque meno loquace.
A margine Fini ammetterà che il premierato Meloni style se non va bocciato non può ancora essere promosso. Rimandato: «Aspetto di vedere come il parlamento lo modificherà, perché credo e spero che lo modificherà».
Casini poco prima lo aveva incalzato con la perfidia che solo i democristiani custodiscono, ricordandogli il suo ruolo nella nascita del governo Monti: come fa a dire adesso che i governi tecnici sono il male? La sua replica – «mi spiego meglio, sono proprio i difetti del sistema istituzionale attuale a rendere talvolta inevitabili i governi tecnici» – aveva lasciato però inevasa la questione: Fini, all’epoca, era favorevole o contrario alla nascita del governo Monti? (remainder: era favorevole).
Casini è qui in veste voce della verità: «Non prendiamoci in giro, la riforma proposta dal governo cambia tutto a partire dalla funzione di terzietà del capo dello stato, al quale vengono tolti i poteri di moral suasion». Bertinotti è attestato sulla linea apocalittica: «Andiamo verso una democrazia autoritaria che sradica il suo futuro dalle radici democratiche e antifasciste della Repubblica, la riforma è il terminale del ciclo regressivo».
Nel complesso, fatta salva la difesa d’ufficio di Fini, il progetto di riforma di Meloni esce fuori malissimo dalla giornata. Più o meno quello che sta accadendo nelle audizioni parlamentari e infatti non c’è nessuno disposto a scommettere che il testo resterà tale e quale.
E forse non a caso quando dal palco chiamano a intervenire il consigliere in questo campo della presidente del Consiglio, il professore costituzionalista Francesco Saverio Marini (qualificato, con una gaffe rivelatrice, «il vero autore della riforma») lui non c’è, non risponde. Gelo in sala, oggi i difensori del premierato devono accontentarsi di Fini
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PIAZZA FONTANA: 1969 - 2023. La bomba di Milano aprì il decennio più nero della Repubblica: le responsabilità di neofascisti e pezzi di Stato sono ormai storia. Bettin e Dianese a caccia dei «gelidi mostri», Tobagi punta agli intrecci della politica
Per trovare una verità sepolta dai decenni bisogna mettersi a riguardare la storia minuto per minuto. È un lavoro che richiede pazienza e poi non è affatto detto che produca risultati tangibili, perché se è vero che in guerra la prima vittima è proprio la verità, dove una guerra non è mai stata dichiarata a morire subito è quasi sempre la memoria. E purtroppo l’esattezza delle risposte dipende sempre dalla domanda da cui si decide di partire. Per esempio: il decennio che corre tra la strage di piazza Fontana, avvenuta 54 anni fa esatti , e quella della stazione di Bologna è stato un decennio di guerra? Si dirà che sono successe tante cose, che non c’è stato solo il sangue, non c’è stata solo la violenza, non ci sono state solo le bombe, le trame e le congiure. C’è stato anche il coraggioso tentativo di trasformare l’Italia in un paese civile: lo statuto dei lavoratori, l’aborto, il divorzio, l’obiezione di coscienza, la chiusura dei manicomi.
GIANFRANCO Bettin e Maurizio Dianese parlano di «verità d’insieme», forse l’unica possibile a distanza di tanto tempo dai fatti. La tigre e i gelidi mostri, da poco uscito per Feltrinelli, è un tentativo di portare un po’ di luce nelle tenebre della Repubblica: la tigre è il cambiamento che irrompe in società (e spaventa i reazionari) e il resto del titolo è un riferimento a Nietzsche, secondo il quale «Stato si chiama il più gelido dei mostri», perché in fondo il sangue delle stragi è per lo più nelle mani di uomini dello Stato, non pezzi deviati come si usa dire, ma funzionari, agenti, dirigenti, nomi noti e importanti, tendenzialmente stimati in società.
E il percorso arriva fino a oggi: la destra italiana appare distante dalle tendenze eversive del passato – anche se certi dettagli ricorrono: Meloni ha festeggiato la sua vittoria elettorale del 2022 all’hotel Parco dei Principi di Roma, dove nel 1965 andò in scena il battesimo della cosiddetta «destra rivoluzionaria» – e ha pure imparato bene a gestire la tigre, imponendo
Leggi tutto: Stragi senza giustizia, ma la verità esiste ed è tutta negli archivi - di Mario Di Vito
Commenta (0 Commenti)Da sei settimane, un mese e mezzo, al senato è aperta la sessione di bilancio. La legge più importante dell’anno, la prima di cui il governo Meloni rivendica pienamente la maternità, è un volume di 260 pagine, 109 articoli più tabelle. Un testo impegnativo da affrontare e votare, ma non è successo ancora nulla, non si è spostato un euro, non è stato approvato un comma. È tutto fermo, in attesa che il governo presenti la vera legge di bilancio, sotto forma di emendamenti. Le trattative ci sono, le mediazioni pure ma sono tutte a palazzo Chigi e in parlamento arrivano appena gli echi di un lavorio che riguarda solo la maggioranza.
I senatori aspettano, i deputati neanche perché ormai hanno capito che saranno richiamati in aula tra natale e capodanno a votare e tacere.
Accade così da tempo, ma ogni anno è un po’ peggio. Stavolta la presidente del Consiglio si era fatta vanto di aver depositato la legge quasi nei termini, a ottobre, e aveva garantito che sarebbe stata approvata presto, prima delle feste. Aveva anche detto che la sua era una manovra blindata, spingendosi a vietare gli emendamenti di maggioranza. Poi però, da un mese e mezzo, tra di loro non parlano che di modifiche e di emendamenti. Quando avranno deciso giocandosi a tressette in famiglia le ultime risorse – pare che il Ponte di Salvini abbia pescato le carte peggiori – marceranno sul parlamento, che nel frattempo si è intrattenuto in audizioni e dossier bugiardi perché riferiti a un testo vecchio, a una legge per allodole. Sui nuovi articoli, stringendo ormai il tempo, al senato ci sarà spazio solo per fiducie e voti blindati. Poi alla camera si salterà persino l’esame in commissione, con tanti saluti alla Costituzione che prescrive almeno per le leggi di bilancio una procedura «normale» di approvazione.
È questa in fondo la nuova normalità, sulla quale i moniti del Quirinale non riescono a incidere. Perché sta diventando un’abitudine far girare a vuoto il parlamento e quello attuale in versione bonsai è il primo con un numero ridotto di deputati e senatori: «Saranno tutti più autorevoli», garantivano i 5 Stelle. Altroché. Poi succede che le camere approvino un raro disegno di legge come quello che vieta la carne coltivata e il governo faccia sapere al Quirinale che cambierà quel testo per decreto. O che l’opposizione abbia diritto di portare in discussione una sua proposta sul salario minimo e il governo dopo aver lasciato parlare trasformi tutto in una delega a se stesso. Se proprio le camere devono lavorare, basta trovargli qualcosa di innocuo da fare.
Il fenomeno di fondo non è nuovo, ma nuovo è il grado di arroganza con il quale il governo di destra riesce a mettere il parlamento nell’angolo. Nuova e preoccupante è anche l’impossibilità, o l’incapacità, delle opposizioni di ostacolare almeno un po’ questa tendenza.
Servono dunque più poteri, serve una delega piena e definitiva all’esecutivo e alla presidente del Consiglio in una situazione come questa? Serve il premierato perché è tutta colpa della Costituzione vecchia e da cambiare se Meloni, malgrado non abbia praticamente ostacoli tra sé e la “Gazzetta ufficiale”, non sta riuscendo a ottenere risultati e procede al ritmo di una promessa tradita al mese? La risposta è troppo facilmente negativa e anche quello che sta accadendo sulla legge di bilancio conferma il senso vero della riforma costituzionale: un grande alibi per un governo incapace