Clima Nel rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia torna lo scenario che prevede +2,5 gradi entro la fine del secolo
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Durante la Cop30, l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha pubblicato il World Energy Outlook 2025, il rapporto annuale sulle tendenze dell’energia e delle emissioni. Dal report emerge che il picco dei combustibili fossili è vicino, ma la temperatura media globale aumenterà almeno di 2,5°C entro la fine del secolo rispetto all’era preindustriale.
Secondo l’Agenzia, l’uso globale di carbone, petrolio e gas raggiungerà un massimo entro il 2035. Nel dettaglio, il carbone è già in calo, il petrolio toccherà il picco entro il decennio e il gas seguirà a metà degli anni Trenta. Allo stesso tempo, la produzione di energia pulita accelera: entro il 2035 il solare crescerà del 344% e l’eolico del 178%.
LA TRANSIZIONE DOVRÀ fare i conti anche con il crescente consumo di energia dei data center e dell’intelligenza artificiale. Nel 2025, gli investimenti globali in infrastrutture digitali raggiungeranno 580 miliardi di dollari, superando per la prima volta la spesa annuale per la produzione di petrolio (540 miliardi). I data center, spiega l’analisi, sono concentrati tra Stati uniti, Cina ed Europa e in queste regioni nei prossimi è previsto un aumento della loro capacità di oltre l’85%. In Cina e in Unione europea i data center rappresentano il 6-10% della crescita della domanda di elettricità fino al 2030, una cifra molto inferiore rispetto a quella prevista per gli Stati uniti, dove per questo stesso periodo i data center copriranno circa la metà della crescita della domanda totale di elettricità.
Le previsioni dell’Agenzia sono realizzate per diversi scenari. In quello delle politiche dichiarate (Stated policies scenario, Steps) – che considera le strategie energetiche e di riduzione delle emissioni proposte e realisticamente attuabili – il mondo arriva a +2,5°C entro fine secolo. In quello delle politiche attuali (Current policies scenario, Cps), la temperatura globale tocca +2,9°C nel 2100. Nello scenario a emissioni nette zero (Net zero emissions scenario, Nze), l’unico compatibile con 1,5°C, il riscaldamento si arresta a metà secolo.
IL RITORNO DELLO SCENARIO delle politiche attuali – rimosso nel 2020 perché considerato «inimmaginabile nelle circostanze attuali» – è stato attribuito alle forti pressioni da parte del governo statunitense, che finanzia circa il 14% del bilancio dell’Iea. Secondo la testata Politico, alti funzionari dell’amministrazione Trump si sono lamentati per mesi del fatto che i rapporti dell’Agenzia «scoraggiano gli investimenti nei combustibili fossili» mostrando picchi imminenti nella domanda globale di petrolio e gas.
Tuttavia, come spiega l’Agenzia, il Cps «si basa su una lettura ristretta delle politiche attuali, assumendo che non ci sarà nessun cambiamento anche dove i governi hanno espresso l’intenzione di agire».
IN PRATICA, IL CPS descrive un mondo in cui i Paesi seguono l’esempio di Donald Trump, smantellando le proprie strategie per l’abbandono dei combustibili fossili. Ad esempio, l’ipotesi che la Cina interrompa le riforme del mercato elettrico e i target sulla produzione di energia rinnovabile e l’Ue non rispetti gli impegni di abbandono del carbone. Anche nello scenario più pessimistico, comunque, le rinnovabili diventerebbero la principale fonte energetica mondiale entro il 2050, superando petrolio e gas, nonostante l’ostilità politica e gli investimenti ridotti previsti in questo quadro.
Investimenti che, da quando è stato siglato l’Accordo di Parigi, da parte del settore oil and gas superano di 46 volte quelli in energie pulite. Negli ultimi dieci anni, le compagnie petrolifere hanno beneficiato di investimenti pari a 8,7 mila miliardi di dollari.
Il Production gap report di quest’anno – che monitora la discrepanza tra la produzione di combustibili fossili pianificata dai governi e i livelli di produzione globali compatibili con l’accordo di Parigi – mostra che i piani di estrazione di carbone, petrolio e gas al 2030 superano del 120% la soglia utile a contenere il riscaldamento globale a +1,5°.
UNA VOCE DIVERSA arriva da un Paese del Sud America – non il Brasile, che ospita la Cop e che, come Russia, India e Arabia Saudita, ha persino ampliato le proprie ambizioni di produzione dopo la Cop28, dove si decise per un abbandono graduale di petrolio, carbone e gas. La Colombia ha annunciato infatti per aprile 2026 la prima conferenza internazionale per l’eliminazione dei combustibili fossili. La ministra dell’Ambiente Irene Vélez l’ha definita un momento decisivo per i Paesi del Sud del mondo: «Costruiremo un futuro che metta la vita, l’equità e la sostenibilità sopra la distruzione e l’ingiustizia».
Commenta (0 Commenti)Il caso All’assemblea dell’Anci Meloni ha parlato di una «manovra priva di tagli», I sindaci hanno contestato una riduzione di 2,8 miliardi fino al 2029 e di fondi insufficienti per servizi e contratti. Il presidente Mattarella ha sottolineato l’urgenza di un piano casa basilare per famiglie e giovani
Sergio Mattarella con Gaetano Manfredi e Matteo Lepore all'Assemblea annuale ANCI – ANSA
I tagli ai comuni ci sono, ma non si vedono. È l’abracadabra fatto ieri dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni che non si è presentata davanti a cinquemila sindaci riuniti da ieri a Bologna per l’assemblea dell’Anci. In un messaggio ha sostenuto che «a partire dalla legge di bilancio per il 2026, che per la prima volta dopo molti anni non prevede nuovi tagli». Ha ragione. I tagli sono stati fatti nella manovra dell’anno scorso e dureranno, per ora, fino al 2029. Solo ai comuni ammontano a 2,8 miliardi di euro. La situazione diventerà drammatica quando la spesa militare arriverà fino al 5% del Pil entro il 2035, come stabilito con la Nato e Trump.
MELONI SOSTIENE di avere risposto alla richiesta dei comuni di incrementare almeno il fondo per i minori affidati da 100 a 250 milioni di euro e di stabilizzare il contributo da 60 milioni per i centri estivi. Non ha ricordato che non è stato finanziato il fondo nazionale per la morosità incolpevole, che ancora non esiste un credibile piano casa e che il rinnovo del contratto per i lavoratori degli enti locali peserà per un miliardo e mezzo di euro. Il governo ha invece previsto solo 100 milioni di euro, il resto peserà sulle spalle dei Comuni. «L’idea che non ci siano tagli agli enti locali è veramente sorprendente e offensiva» ha commentato il sindaco di Modena Massimo Mezetti.
«LAVORIAMO costantemente con il freno a mano tirato – ha detto Gaetano Manfredi, presidente dell’Anci e sindaco di Napoli – Dobbiamo gestire l’impatto delle precedenti leggi di Bilancio: circa 2 miliardi in meno di capacità operativa fino al 2029 – ha spiegato Manfredi – Se ben 740 milioni di euro sono il taglio, ci sono 1 miliardo e 350 milioni di accantonamenti previsti per finanziare investimenti e per ridurre il disavanzo. La prospettiva del 2026 quindi non è rosea. Ci troviamo di fronte ad una contrazione di 460 milioni di euro per la parte corrente».
L’ALLARME DI MANFREDI si è poi esteso al piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). A giugno 2026 tutti i 194 miliardi di euro dovranno essere spesi tutti. I comuni sono preoccupati da quello che (non) capiterà dopo la fine del Pnrr. “Mi limito a guardare i dati sulle nostre amministrazioni – ha aggiunto Manfredi – C’è un taglio dei fondi pluriennali per investimenti pari a 8 miliardi per il prossimo decennio; è un grande problema, soprattutto l’azzeramento dei fondi per i piccoli Comuni. Rimoduliamo pure gli importi, ma non azzeriamoli». Manfredi ha definito la manovra «conservativa». Ha riconosciuto gli sforzi del governo, ma ha evidenziato i problemi sulla spesa per i minori italiani e quella per l’assistenza scolastica agli studenti con disabilità. «Chiediamo risorse, sì, ma per poter continuare a lavorare al meglio».
L’USCITA DI MELONI ha provocato la reazione della segretaria del Pd Elly Schlein: «Prende in giro i sindaci, dimentica che le sue manovre precedenti hanno già sottratto 10 miliardi e 700 milioni agli enti locali tra parte corrente e investimenti. Le si è di nuovo rotta la calcolatrice». «Schlein è una marziana – hanno risposto i responsabili enti locali del centrodestra – i tagli non ci sono».
«L’ANNO PROSSIMO con il Pnrr finiremo tutte le metropolitane, le tranvie e gli acquisti di autobus, ma non ci sono fondi per questi nuovi servizi – ha detto il sindaco di Bologna Matteo Lepore – Se non si mette mano adesso alla Legge di bilancio, difficilmente si potranno portare avanti queste iniziative». Lepore è stato contestato in piazza della Costituzione, dove si sta svolgendo l’assemblea dell’Anci, dai sindacati confederali e di base. Oggetto dello scontro è l’incremento di 2.441 milioni sul salario accessorio del personale, giudicato insufficiente dai sindacati.
IL DRAMMATICO problema della casa è stato ricordato nel messaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che le ha definite «basilari per incoraggiare le nuove famiglie, per favorire i giovani studenti, per includere i lavoratori». «Siamo davanti a forme inedite di disagio e a nuove povertà, e anche a domande più esigenti, che non possiamo trascurare o mettere tra parentesi». Le speranze sono concentrate sul Pnrr le cui risorse andrebbero «utilizzate al meglio». Altrimenti «sarebbe un dannoso impoverimento di risorse».
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Vietati alle medie, anzi no. Ma serve il permesso dei genitori. Sulle ore dedicate alla sessualità la destra va in tilt e il ministro Valditara bersagliato alla camera dalle critiche perde le staffe: «Vergogna, sfruttate i femminicidi» e va via. Le opposizioni: «Si scusi o blocchiamo l’aula»
La mala educazione Le opposizioni bloccano il provvedimento: «Frattura tra parlamento e governo»
Il ministro Valditara alla Camera durante il question time
Un uomo entra nella Camera dei deputati, urla, insulta i parlamentari e se ne va. Sarebbero intervenuti i questori di Montecitorio e probabilmente le forze dell’ordine se si fosse trattato di una persona qualunque. Ma era un ministro della Repubblica e non è stato allontanato dall’Aula.
LA GIORNATA DI IERI del leghista Giuseppe Valditara si è rivelata un assurdo per le istituzioni. Il ministro dell’Istruzione (e merito) chiamato a riferire sulla legge sull’educazione sessuoaffettiva, dopo la parziale retromarcia del suo partito, è arrivato in ritardo e senza sentire gli interventi precedenti, ha preso la parola urlando: «È stato detto che con questo disegno di legge impediremmo l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole, di informare i nostri giovani sui rischi delle malattia sessualmente trasmesse: è falso». «Sono indignato che abbiate detto che questa legge impedisca la lotta contro i femminicidi», ha continuato, per poi gridare all’indirizzo delle opposizioni: «Vergognatevi!». Poi ha lasciato la Camera per recarsi in Puglia per la campagna elettorale.
IN AULA È SCOPPIATA la bagarre anche perché le frasi incriminate non erano state pronunciate negli interventi precedenti. «Chiedo formalmente di richiamare il ministro», l’invito inascoltato del deputato Marco Grimaldi (Avs). «Quel vergognatevi deve essere ritirato, sono parole indegne e non rispettose dell’opposizione in parlamento», l’intimazione del Pd. Ma Valditara stava già per lasciare Roma, salvo rientrare improvvisando delle scuse dopo che il capogruppo di Forza Italia, Paolo Barelli, accompagnato da altri deputati, lo ha invitato a dare un «contributo per svelenire il clima, riportando la discussione ai toni giusti». «Mi dispiace se qualcuno si è sentito offeso – ha detto Valditara -. Contestualizziamo le mie affermazioni che non erano rivolte a nessuno di voi in particolare». Un tentativo senza successo.
«MI SONO SENTITO OFFESO – ha detto il dem Bruno Tabacci -. Sono nostalgico del linguaggio parlamentare che ho studiato da Moro, Berlinguer e Almirante: c’è una retrocessione». Parla di «totale mancanza rispetto per il parlamento e «di modo rabbioso di rivolgersi alle opposizioni» il segretario di Più Europa, Riccardo Magi. «Quello che è successo è grave – ha spiegato la dem Simona Bonafé -. Si è creata una frattura tra parlamento e governo che non ci permette di andare avanti a votare questo provvedimento. Chiediamo la convocazione di una capigruppo per riorganizzare i lavori». Richiesta inizialmente non accolta, comportando una specie di ostruzionismo da parte del centro sinistra che, non avendo ottenuto né la sospensione dell’esame del ddl, né il suo ritorno in commissione, ha iniziato a intervenire in massa. Solo in serata è stata accordata la riunione richiesta, mentre la discussione dovrebbe continuare oggi. Ma «faremo in modo che il ddl slitti nelle settimane successive», la promessa del M5s.
LE LEGGE PROPOSTA dal ministro prevede l’obbligo di consenso scritto dei genitori per ogni attività scolastica, curriculare o extracurriculare, inerente tematiche sulla sessualità e
Leggi tutto: Educazione affettiva: lo show in aula di Valditara con insulti - di Luciana Cimino
Commenta (0 Commenti)Beati i ricchi Una settimana di cortei: Cobas e Usb in piazza il 28 novembre. Poi Uil, Cgil e Cisl
Una manifestazione Uil a Genova – foto Ansa
Tutti contro la manovra, ma in giorni separati. Come da aspettative anche la Uil ha annunciato la sua mobilitazione contro la quarta legge di bilancio varata dal governo Meloni. Nel tentativo avviato da diversi mesi dal segretario generale Bombardieri di divincolarsi dalla Cgil troppo di lotta e differenziarsi dalla Cisl acquiescente verso il governo, il sindacato ha faticato a trovare una direzione. Poi ieri la decisione dell’esecutivo nazionale: «Vogliamo dare continuità alla mobilitazione già in atto sui territori e nelle categorie, con iniziative e assemblee nei luoghi di lavoro che culmineranno nella manifestazione nazionale a Roma sabato 29 novembre, con l’obiettivo di ottenere modifiche alla manovra». Il sindacato guidato da Bombardieri, pur apprezzando la detassazione degli aumenti contrattuali, benché insufficiente, «ribadisce il proprio giudizio negativo sui capitoli relativi a pensioni, sanità e fisco, considerati inadeguati e incompleti». E chiede all’esecutivo di confermare «senza indugio», la tassa sugli extraprofitti delle banche estendendo la misura anche ai settori farmaceutico ed energetico «dove, negli ultimi tempi, si sono registrati enormi profitti».
LE MOTIVAZIONI per protestare dunque ci sono ma le date possibili erano già state tutte prenotate dagli altri sindacati (il 28 novembre lo sciopero generale di quelli di base, il 12 dicembre quello della Cgil e il 13 la manifestazione Cisl) e alla Uil non è rimasto altro che scegliere il 29. Altro giorno occupato, non dalla manovra, ma dalle iniziative per la giornata internazionale di solidarietà con la Palestina che coinvolgono diverse realtà che hanno riempito le piazze di ottobre. Una scelta, quella della Uil, che a molti è sembrato come un tentativo maldestro di giovarsi della partecipazione contro il genocidio e da altri come un ulteriore segnale del tafazzismo dell’opposizione al governo, che si scopre frammentata persino davanti a una legge di bilancio giudicata pessima persino da Bankitalia. Con il consueto scambio di accuse tra i soggetti coinvolti a chi ha più deluso le aspettative di quanti avevano visto nello sciopero generale congiunto del 3 ottobre scorso la nascita di un possibile movimento contro il nazionalismo e il bellicismo delle destre.
CHI STA TENTANDO di capitalizzare quella giornata è l’Usb che non a caso è stata la prima sigla a convocare lo sciopero del 28 novembre. Insieme a Potere al Popolo sta tentando di lanciare “Cambiamo tutto”, un percorso in vista delle elezioni del 2027. Inoltre si è premunita con testimonial d’eccezione, come la relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese e il musicista Robert Waters. Nei giorni scorsi c’erano stati diversi appelli per far convergere i sindacati su una unica data, tra i quali quello dei Cobas, che sia la Cgil che l’Usb hanno rifiutato. «È un dibattito privo di fondamento – hanno dichiarato dall’Unione sindacale di base – Al di là di qualche “pontiere” che tenta di accreditarsi come mediatore generoso, la realtà è che pochi stanno riflettendo sul significato politico di questa scelta». La differenza è nelle piattaforme di convocazione, è la spiegazione dell’Usb, anche se a prima vista non sembrerebbero così diverse, al netto della proposta del sindacato di base di un reddito di base a 2mila euro al mese per tutti. Anzi, a spegnere le speranze ci pensano proprio loro: «La straordinaria unità del 3 ottobre è stata possibile solo perché la drammaticità del genocidio contro il popolo palestinese aveva imposto uno sciopero politico, fuori dagli schemi e dalle regole consuete, che l’intero paese, oltre le sigle sindacali, ha realizzato con coraggio», hanno spiegato. Di diverso parere i Cobas che avvisano: «L’entusiasmo potrebbe raffreddarsi dovendosi dividere tra date e cortei separati».
LA TRIPLICE, cioè l’alleanza tra Cgil,Cisl e Uil non esiste più ma neanche, a questo punto, la possibilità di unirsi davanti a un obiettivo comune tra realtà diverse, come forse la contingenza avrebbe richiesto. Ma di questa situazione non può gioire neanche la maggioranza che si troverà per giorni sui giornali le cronache dei cortei contro il governo. E sarà uno sforzo complicato derubricare il tutto come «fine settimana lungo».
Commenta (0 Commenti)Terra rimossa Nuovi dettagli sul piano Trump svelati da The Atlantic: saranno costruite comunità separate a est della linea gialla, Tel Aviv selezionerà i palestinesi ammessi. Non potranno più uscire. Per il resto della Striscia, nessuna ricostruzione in vista. Intanto, la Knesset passa in prima lettura la pena di morte per i detenuti arabi, Ben Gvir festeggia
Ogni nuovo dettaglio del piano Trump per Gaza che emerge da fonti anonime o dalle rivendicazioni orgogliose dei suoi fautori va nella stessa direzione: la partizione della Striscia e l’imposizione di un mandato coloniale gestito dall’asse Washington-Tel Aviv.
CHE L’AMMINISTRAZIONE statunitense – attraverso il Board of Peace a guida trumpiana – stia promuovendo una ricostruzione punitiva per i palestinesi e rassicurante per Israele era stato chiarito dagli annunci ufficiali e dall’invenzione della «linea gialla», confine immaginario che corre parallelo alla frontiera est della Striscia, sottraendole oltre la metà del territorio. Al momento la yellow line è scarsamente segnalata da blocchi di cemento verniciati di giallo, una vaghezza che permette ai soldati di ammazzare chiunque, inconsapevolmente la oltrepassi.
È nel territorio oltre quella linea – che Israele continua a presidiare con gli stivali a terra e da cui non intende ritirarsi – che avverrà la ricostruzione: zone residenziali in cui stipare qualche decina di migliaia di palestinesi, sotto dominio israeliano diretto, mentre il resto di Gaza rimane nell’inferno di una terra resa invivibile.
The Atlantic ieri ha aggiunto un altro tassello con un’inchiesta della giornalista Hana Kiros: la selezione dei palestinesi «meritevoli» a vivere nelle zone ricostruite spetterà alle autorità israeliane. Ad affermarlo alla rivista statunitense sono fonti del Dipartimento di Stato e del governo israeliano che al progetto danno un nome: «Alternate Safe Communities», comunità di circa 6mila persone a cui fornire case, una clinica e una scuola ma separate dal resto della popolazione e passate al vaglio dai servizi segreti israeliani.
Ovvero lo stesso modello applicato dalla Gaza Humanitarian Foundation che, la scorsa estate, «distribuiva» pacchi alimentari sotto il fuoco dei cecchini solo a un membro per famiglia e solo a palestinesi considerati «puliti» da Israele. Seppure «i criteri per l’approvazione restino oscuri – scrive Kiros – se una persona o i suoi parenti sono legati ad Hamas» saranno esclusi.
CHI RIENTRERÀ nella community non potrà più attraversa il confine invisibile. Lo dice la fonte del Dipartimento di Stato: «Un luogo dove le persone sono di fatto sequestrate». Il primo insediamento dovrebbe sorgere a Rafah, dopo la rimozione delle macerie e degli ordigni inesplosi, attività che sarebbe già stata appaltata a un’azienda statunitense, la Tetra Tech. Nei giorni scorsi l’amministratore delegato era in Israele a discutere il da farsi.
Dalla pulizia etnica della Riviera trumpiana si passa alla prigionia istituzionalizzata, un nuovo livello di oppressione mascherato da beneficenza che si somma al mantenimento dell’assedio israeliano, intoccabile. E si passa all’esclusione dalla ricostruzione della stragrande maggioranza della popolazione per cui, a oggi, non è previsto nemmeno un flusso di aiuti dignitoso o per lo meno in linea con quanto stabilito dagli accordi di Sharm el Sheikh a metà ottobre.
L’ultima denuncia è dell’Unicef secondo cui Israele blocca l’ingresso a 1,6 milioni di siringhe per le vaccinazioni dei bambini e ai frigo a pannelli solari per conversare le fiale, impedendo una campagna di massa. La ragione ufficiale comunicata da Israele, dice il portavoce di Unicef, Ricardo Pires, «è che le siringhe e i frigo sono considerati dual use». Tel Aviv non ha fornito dettagli in merito.
Continua a mancare anche il cibo. Quello attraversa i valichi lo fa a bordo di camion commerciali e non umanitari: significa che i prodotti vanno pagati e che ciò che finisce sul mercato non è necessariamente quello di cui una popolazione ridotta alla fame ha bisogno, come carne, uova, verdure. Mancano anche i macchinari per rimuovere le macerie, un’attività fondamentale sia a dare degna sepoltura ai corpi intrappolati tra le macerie, sia a evitare il diffondersi ulteriori di malattie e ad avviare una ricostruzione fai-da-te.
IERI LA PROTEZIONE civile è riuscita a recuperare una trentina di cadaveri, per ora senza nome, a ovest di Gaza City. Se non saranno identificati entro 48 ore, saranno sepolti in un cimitero comune a Deir al-Balah. Secondo le stime, mancano all’appello almeno 10mila palestinesi, che si aggiungono ai 70mila uccisi accertati. Un bilancio che continua a crescere a causa del fuoco israeliano che in 24 ore ha abbattuto altre tre persone (245 palestinesi uccisi dall’entrata in vigore della tregua, 529 corpi recuperati).
The Israeli illegal terrorist settlers attacked today Palestinian factories in Beit Lid town in Tulkarem district, destroying property and burning vehicles . The Israeli settlers terrorism is spreading all over the West Bank. pic.twitter.com/iqzH8m45uD
— Mustafa Barghouti @Mustafa_Barghouti (@MustafaBarghou1) November 11, 2025
Intanto, mentre la Cisgiordania subiva un’ondata di attacchi incendiari dei coloni (colpite comunità e una fabbrica della nota azienda casearia al Juneidi), la Knesset approvava in prima lettura il disegno di legge che introduce la pena di morte per i sospettati di omicidio di israeliani su base nazionalistica (insomma, i palestinesi). Il ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, ha festeggiato distribuendo tra gli scranni parlamentari baklava, uno dei tipici dolci arabi. Si è appropriato anche di quelli.
Non regge il minimo Respinto un ricorso legale da parte di Svezia e Danimarca contro un’«ingerenza» di Bruxelles. La sentenza penalizza gli sforzi per salari equi. Sul lavoro povero l’Italia è senza strumenti
Leggi ancheSalario minimo, cala il sipario. La rivolta delle opposizioni
Flash mob al Senato per il salario minimo – foto La Presse
In una sentenza con importanti implicazioni per i salari in tutto il continente, la Corte di giustizia europea ha mantenuto ieri una parte significativa della direttiva europea sul salario minimo, respingendo un ricorso legale da parte di Svezia e Danimarca, che sostenevano un’eccessiva ingerenza da parte dell’Unione Europea. Pur avendo ritenuto che la direttiva fosse sostanzialmente conforme ai Trattati Ue e avesse mantenuto la maggior parte delle tutele della contrattazione collettiva, la Corte ha annullato la disposizione che elencava i criteri di cui gli Stati membri con salari minimi legali devono tenere conto nella definizione e nell’aggiornamento di tali salari, nonché la norma che impedisce la riduzione di tali salari in caso di indicizzazione automatica. L’annullamento di queste misure non è utile per i futuri sforzi volti a tutelare salari equi.
QUEST’ULTIMA osservazione è stata avanzata dal gruppo «The Left» al parlamento europeo e traduce una doppia preoccupazione. La Corte Ue ha indebolito la già incerta capacità della legislazione europea di portare i governi nazionali ad adottare un salario minimo, oltre che di aggiornarlo. In secondo luogo la Corte Ue ha escluso che i salari minimi recuperino l’inflazione lì dove sono in vigore. Di solito sono i governi a prendere simili decisioni, teoricamente consultando le «parti sociali». Tuttavia, un simile indebolimento della direttiva Ue non aiuterebbe chi sostiene l’indicizzazione dei salari, per di più in un momento della loro più forte compressione, mentre i profitti non tassati manifestano una grande esuberanza in Europa, e ovunque.
LA DECISIONE della Corte di giustizia «rafforza il modello sociale europeo, basato su salari equi e adeguati e su una solida contrattazione collettiva – ha detto la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen – Perché porta sia equità sociale che benefici economici. Questa è una buona notizia per i lavoratori, soprattutto per quelli con salari bassi, e per i datori di lavoro in tutta Europa che pagano salari equi. Una pietra miliare». Dichiarazione, quella di von der Leyen che suona più che altro formale, e non risponde alla realtà. In tutta Europa, i salari hanno perso potere di acquisto a causa dell’inflazione da profitti e la contrattazione soffre di una pesante crisi. Per non parlare dell’Italia dove un salario minimo non esiste nemmeno, i salari sono bloccati da trent’anni e la contrattazione non riesce a recuperare l’inflazione accumulata nel 2022 e 2023. In questa situazione rispolverare le antiche vestigia del «pilastro sociale», come ha fatto von der Leyen, è uno sberleffo. Il «pilastro», che conterrebbe tra l’altro un reddito minimo europeo, oggi giace sepolto sotto le macerie di un Europa avviata verso l’economia di guerra.
IL PRONUNCIAMENTO della Corte Ue è stato recepito con soddisfazione dai partiti dell’opposizione e dai sindacati come Cgil e Uil. Tutti hanno
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