Ultradestre Questa ostilità e la plateale discesa in campo di Washington al fianco della destra nazionalista in Germania (che presto si estenderà in forme altrettanto cogenti a tutte le analoghe formazioni […]
Elonk Musk all'Ufficio ovale della Casa bianca insieme a Donald Trump – foto Alex Brandon/Ap
Questa ostilità e la plateale discesa in campo di Washington al fianco della destra nazionalista in Germania (che presto si estenderà in forme altrettanto cogenti a tutte le analoghe formazioni nazionalpopuliste nel resto d’Europa) sono strettamente connesse e funzionali a una politica che lavora non da ieri alla disgregazione dell’Unione europea, ma mai in forme così perentorie.
I rapporti tra gli Stati uniti e i gruppi dell’estrema destra eversiva in Europa hanno una lunga storia. Ma si è trattato, nella stagione della guerra fredda, di relazioni occulte, di reti ausiliarie destinate a entrare in funzione in particolari momenti di crisi e in chiave di repressione anticomunista. Non certo di una affinità ideologica baldanzosamente sbandierata, di modelli politici e culturali additati come valore comune ed esemplare. Chiunque sedesse alla Casa bianca prima di Trump, malgrado i più torbidi rapporti con golpisti e dittature, non poteva esimersi dal rimarcare una netta distanza tra la democrazia liberale e le dottrine autoritarie incistate nella tradizione dell’estrema destra.
Il quadro è ora completamente cambiato: Trump e il suo seguito si rispecchiano pienamente in una versione plebiscitaria dell’investitura popolare che non tollera ostacoli o limitazioni. Che pretende di incarnare la volontà del popolo e rivendica in conseguenza una pienezza di poteri senza regole e senza controlli.
È lo stesso ammodernamento del Führerprinzip, lo stesso strapotere dell’esecutivo cui aspira l’estrema destra europea. Dunque, per la nuova amministrazione statunitense, partiti come Afd in Germania, il Rassemblement national in Francia o il Fidesz di Viktor Orban in Ungheria, con le loro ossessioni xenofobe e identitarie e il patriottico rifiuto di ogni conflittualità sociale, rappresentano qualcosa di più di una sponda occasionale, quasi una sorta di «partiti fratelli» dai quali attendersi il superamento di quelle resistenze europee alla totale deregulation che non lasciano il campo sufficientemente libero ai colossi del capitalismo americano.
I centristi europei erano soliti discriminare queste formazioni della destra radicale accusandole, fra l’altro, di essere manovrate da Mosca. Ma dopo l’insediamento di Trump l’argomento deperisce: non sarebbe più Putin l’interlocutore privilegiato dei partiti nazionalisti, bensì proprio lo storico alleato d’oltreatlantico che li chiamerà semmai a fiancheggiare quel rapporto diretto con la Russia che non contempla il parere dell’Unione europea e ancor meno un qualche suo ruolo.
I nazionalismi europei sono in tutta evidenza lo strumento più adeguato allo scopo di spezzettare un’Europa già debolmente coesa a favore di interessi a dire il vero più americani che russi.
La minaccia che incombe su questa Unione, che avendo seminato molta retorica bellicista e poca intelligenza diplomatica non può aspettarsi un grande raccolto, non è un’improbabile espansione della Russia verso Ovest, da contrastare con una corsa al riarmo che dissanguerà i bilanci degli stati europei e rimpinguerà i profitti dell’industria bellica statunitense senza peraltro mettere davvero il Vecchio continente in condizione di difendersi dai giganteschi apparati militari delle superpotenze.
Il pericolo ben più reale e incombente sono le forze politiche dell’estrema destra dove già governano, dove condizionano i governi o dove si accingono a farlo. Sono queste forze che possono stravolgere completamente quel che resta delle democrazie del dopoguerra e mettere fine a ogni velleità di autonomia dell’Europa unita. Ed è proprio su queste formazioni che punta le sue carte la controrivoluzione trumpista.
Spostare risorse dal sostegno dei livelli di vita e di benessere della società civile europea, dai redditi e dal welfare all’escalation militare significa sguarnirsi sul fronte più reale e concreto del conflitto, quello contro il nazionalismo populista dell’estrema destra che si nutre della crisi economica e del malcontento popolare, per prepararsi invece a uno scontro immaginario e fuori dalla storia con l’armata bianca del nuovo Zar.
Non vi è saggezza né realismo nel lasciare a Trump il monopolio del dialogo diplomatico con Mosca per riservarsi il ruolo di falchi guerrieri. E Macron, prima di promettere truppe e armamenti sul fronte dell’est, dovrebbe preoccuparsi dei governi in ostaggio del Rassemblement national che insistentemente impone alla Francia. Perché è da lì che può arrivare il colpo mortale per l’Unione europea, così come da un grande successo, benedetto da Washington, dell’estrema destra in Germania. Tra pochi giorni.
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Commenti La strategia di Trump è gangsteristica, ma invece di intravvedere la possibilità che si apre, l’Europa ragiona come se incredibilmente la pace fosse un pericolo
C’è una parola in particolare che descrive quello che è diventata la guerra ucraina. La prendiamo dal vocabolario del grande scrittore Emilio Gadda, che la mutuò da quello romanesco per il romanzo Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, ed è «gnommero». Vuol dire groviglio, garbuglio, matassa annodata, per la quale, se non si va al capo iniziale con cui il gomitolo è stato inizialmente avvolto, non c’è alcuna possibilità di sbrogliarlo. Perché è ormai proprio uno gnommero la crisi che da quasi tre anni si consuma nel sangue di tante giovani vite, ucraine e russe, una intera generazione mandata al macello nel cuore d’Europa. Ma non dimenticando, ecco il punto, l’inizio del 2014 con l’oscura vicenda di Majdan e gli otto anni di guerra civile interna tra esercito ucraino e milizie ucraine filo russe. Nei quali anni abbiamo sentito di tutto, quasi mai una parola di pace dalle leadership internazionali che dopo ben due negoziati, Minsk 1 e Minsk 2 abilmente fatti fallire, hanno abbandonato l’Ucraina al suo destino infausto. Perché bisognava, o meglio ancora bisogna, arrivare ad una «vittoria militare» dell’Ucraina, all’inflessibile ingresso di Kiev nella Nato che, dimenticando che è stata la «ragione» della guerra, è stato rivendicato e praticato fino a poche ore fa come obiettivo dall’Alleanza atlantica.
Da Zelenski da molti Paesi Ue e dai comandi militari in primis dal “nostro” Dragone, nonostante gli Stati uniti – che ne hanno la guida militare e politica – siano stati e sono contrari, prima di Trump lo stesso Biden, comprendendo che lo sbocco sarebbe quello di una guerra totale, atomica con la Russia.
Ora accade che l’isolazionista imperiale Trump – perché è chiaro che il suo isolazionismo lo paghiamo noi, con gli acquisti monopolisti di armi, di energia e sotto l’imposizione di feroci dazi economici – muova a una mediazione e trattativa con l’ultimo nemico dell’Occidente, zar Putin; dopo tre anni di combattimenti e di spargimento di sangue in Ucraina e anche in Russia. È pur vero che una pace fatta di sole imposizioni, sbilanciata e quindi ingiusta non sarebbe che l’anticamera di una nuova guerra come dichiarò Keynes per il trattato di Versailles dopo la Prima guerra mondiale. Ma resta sicuramente altrettanto vero e più accettabile che un cessate il fuoco subito e una trattativa di pace sostenuta dai protagonisti internazionali – non come quella di Istanbul, accettata sia da Kiev che da Mosca, che poteva far finire il conflitto e venne fatta fallire dall’ex leader britannico e transatlantico Boris Johnson – con la prospettiva di una accordo di non belligeranza sarebbe a questo punto meglio di qualsiasi guerra.
L’aspettativa diffusa tra i popoli è grande, come all’interno dei Paesi coinvolti, in Ucraina dove abbiamo sostenuto ogni addestramento alle nuove armi che per miliardi e miliardi abbiamo inviato a Kiev senza accorgerci che centinaia di migliaia di giovani si organizzavano per rifiutare il reclutamento, anche a rischio della loro vita e libertà; e in Russia dove solo la fine di questa guerra può aprire una prospettiva politica diversa dal neo-zarismo putiniano dando voce a quanti la guerra non l’hanno voluta e che rifiutano i processi autarchici del potere di Putin, che indubbiamente la rivendicherà come vittoria, ben misera però; perché a ben vedere a mala pena riuscirà a nascondere la ferita nel corpo sociale della Federazione russa e nel mondo con il chiaro timore della violenza sottesa ad ogni sua promessa. Una sorta di isolazionismo forzato, «rispettato» perché armato, vincente sul terreno dei rapporti di forza ma non del diritto, della civiltà e della democrazia.
Ora, invece di intravvedere le possibilità che si apre, si ragiona come se incredibilmente la pace fosse un pericolo, un rischio. E ogni armamentario ideologico è buono, sempre nella fretta di azzerare le nostre responsabilità e il passato, quello remoto e quello prossimo che più o meno consapevolmente abbiamo vissuto tutti noi. Si ripete dagli scranni del parlamento e dei giornali mainstream che «la sicurezza è stata rimessa in discussione dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina» e che con Tump «stiamo abbandonando il canone occidentale». Ma la domanda è: tutte le guerre che negli ultimi 30 anni l’Occidente ha condotto, con massacri di massa e spargimento di sangue in Somalia, ex Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia e pure in Siria quale sicurezza hanno costruito nel mondo? E quale messaggio di sicurezza e canone occidentale sono arrivati a Putin che per anni ha chiesto di non allargare la Nato a est con basi militari, sistemi d’arma, missili ai confini russi? Cosa che inesorabilmente e perfino, militarmente tronfi, abbiamo fatto contro ogni evidenza e consapevolezza, diffusa perfino nelle alte gerarchie militari occidentali e nelle analisi dei promotori bipartisan della stessa politica estera Usa?
Sarà sfuggito al cattolico presidente Mattarella che perfino papa Bergoglio per spiegare quel che è accaduto con l’Ucraina abbia azzardato la metafora pungente dell’«abbaiare della Nato ai confini russi»? E quale canone occidentale è emerso da tutte le “nostre“ guerre se non quello del «domino espansivo» – proprio come da lectio magistralis presidenziale? E poi non è singolare il fatto che mentre si azzardano paragoni con il nazismo, a fomentare nella Germania i neonazisti sia l’amico amerikano?
Ma all’occasione di una trattativa di pace, certo ambigua e pericolosa e che può risolversi in un nulla d fatto e precipitarci ancora di più nel baratro, non solo non viene colta ma si risponde con l’impegno ad aumentare i già inutili finanziamenti miliardari in armi a Kiev perché continui la guerra a nome nostro e ora addirittura con la sospensione del famigerato Patto di stabilità per produrre nuove micidiali armi. Vale a dire più odio, più vittime, più guerra. Alimentando in modo cieco l’idea che raggiungere oltre il 35% della spesa atlantica e/o un modello unificato a forza della difesa europea comune – provate a mettere insieme il controllo dell’atomica francese con il comando delle autoblinde lituane -, rappresenti la risposta alla voragine aperta dalla nuova strategia compradora-gangsteristica di Trump – questo è con chiarezza in Medio Oriente, sulla pelle dei palestinesi.
No, la risposta non sono le armi. Il vero deficit dell’Europa unita fin qui realizzata, è un deficit politico. L’Unione non ha strutturalmente una sua politica estera che è stata fin qui guidata dall’Alleanza atlantica, e a dire eterodiretta da Washington.
Prima di ogni difesa comune, dai costi impensabili, è fondamentale che l’Unione europea decida quale è il suo ruolo nel mondo e se non è ora di tornare a ragionare, oltre i troppi muri e fili spinati, degli obiettivi internazionali, inclusivi e democratici verso tutto l’Est – fin qui fatto entrare tutto nella Nato a caccia del nuovo nemico – e verso il Mediterraneo, vale a dire il segmento orientale che è fa parte della sua storia. Solo una strategia estera di pace sarà capace di togliere acqua e alimento a ogni pretesa autarchica, che cresce solo sulla base della rivendicazione nazionalista-identitaria e violenta. Altrimenti le autocrazie e l’estrema destra suprematista cresceranno nel cuore d’Europa sempre più. E a ogni rifiuto di strategia di pace dell’Europa si apriranno, come ora, crisi locali che ingoieranno ogni futuro.
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Kurdistan/Italia Il dirigente di Rifondazione Comunista racconta l'arrivo del leader del Pkk in Italia e il ruolo del governo italiano, in risposta all'intervista dell'ex presidente del Consiglio uscita sul manifesto
Abdullah Ocalan incontra una delegazione di Rifondazione Comunista. Ramon Mantovani è alla sua sinistra
Mi fa estremamente piacere, lo dico sul serio, che Massimo D’Alema tenga ad apparire come amico del popolo kurdo e a cercare di autoassolversi dalle responsabilità che ebbe nella vicenda che portò al sequestro illegale del presidente Abdullah Ocalan. Significa, che nonostante tutto, il corso degli eventi e la statura politica di Ocalan lo hanno indotto ad esternare le cose che ha detto nell’intervista rilasciata a Chiara Cruciati sul manifesto del 14 febbraio 2025.
Mi corre però l’obbligo, per il rispetto che si deve al presidente Ocalan e al popolo kurdo, di fare alcune precisazioni su quanto dichiarato da D’Alema.
Ho più volte, ed anche recentemente a una agenzia kurda, detto che a Rifondazione Comunista, attraverso il sottoscritto, fu richiesto di aiutare il presidente Ocalan a venire nel nostro paese in quanto si trovava in pericolo di vita in Russia, dove i servizi di intelligenza di Eltsin, divisi al loro interno, potevano consegnarlo da un momento all’altro alla Turchia. Per farlo non esitammo a usare tutta la nostra capacità di relazioni interne ed esterne all’Italia e a mantenere, come chiunque sappia come funzionano queste cose può ben immaginare, il riserbo e la confidenzialità su tutti i nostri contatti.
IL NOSTRO AIUTO e la mia personale partecipazione nelle nostre intenzioni erano e dovevano rimanere riservate, sia perché non siamo mai stati abituati, come altri, ad usare lotte e drammi di altri popoli e movimenti per motivi di “visibilità”, sia per evitare che la provincialissima stampa italiana usasse il nostro coinvolgimento per miserabili polemiche interne che avrebbero nuociuto alla causa kurda. In altre parole, non fummo noi ad avere l’idea di “portare” (come scrissero e dissero tutti i giornali e tutte le tv) Ocalan in Italia per dare fastidio al governo o per altri strampalati obiettivi di politica interna. Come se il leader di un popolo di trenta e più milioni di persone si facesse “portare” dal sottoscritto come un pacco.
Anzi, mi preoccupai di spiegare bene ad Ocalan che l’Italia, fra i paesi Nato europei, era sempre stata il paese più servile ed obbediente agli ordini Usa. Ma il presidente Ocalan insistette per venire in Italia sostanzialmente per due motivi. Il parlamento italiano era stato un anno prima, approvando una mia risoluzione, l’unico parlamento europeo a riconoscere l’esistenza di un conflitto armato in Turchia e a impegnare il governo italiano ad adoperarsi per una soluzione negoziata e pacifica.
Il primo effetto che ebbe la risoluzione fu che vennero concessi da quel momento in poi migliaia di status di rifugiati a cittadini kurdi con passaporto turco. Lo stesso ministro degli interni Napolitano, rispondendo alla Camera ad interrogazioni della destra, disse che così si doveva fare in seguito a una decisione della commissione esteri.
Il secondo effetto fu un invito di Ocalan d incontrarlo in Siria al quale andammo Alfio Nicotra, Walter De Cesarias e io. Incontro di cui Liberazione dette notizia con tanto di fotografie. Ocalan era convinto che l’Italia, per questo e anche perché paese della Nato e sede del Vaticano, era il luogo migliore per proclamare un cessate il fuoco unilaterale da parte del Pkk e proporre alla Turchia di aprire un negoziato.
Questi, e non altri, furono i motivi che fecero scegliere al presidente Ocalan l’Italia, per cercare di trasformare una difficoltà in una opportunità. Questi, e non altri, furono i motivi che ci indussero a fare tutto il possibile per aiutare il Pkk e Ocalan sia per la solidarietà internazionalista, che era ed è un principio irrinunciabile del nostro partito, sia per far compiere, se possibile, dei passi al nostro paese per contribuire alla soluzione pacifica di un conflitto iniziato con il colpo di stato fascista dell’esercito turco agli inizi degli anni ’80.
Ciò che dice D’Alema sull’arresto di Ocalan è vero solo in parte. Io stesso dissi a Ocalan, arrivati a Fiumicino, di recarsi al passaggio dei passaporti diplomatici, di dichiarare la propria identità, di consegnare il passaporto falso che aveva con sé e di chiedere asilo politico. Tempo dopo scoprii che la relazione della polizia di stato alla magistratura diceva che Ocalan aveva tentato di attraversare la frontiera con un passaporto falso e, riconosciuto, era stato tratto in arresto.
Lo venni a sapere con precisione quando fui indagato come indiziato del reato di favoreggiamento di ingresso clandestino, avendo dovuto confermare le voci di una mia partecipazione, sicuramente fatte circolare da servizi di intelligenza prima in Grecia e poi in Italia.
SEPPI ANCHE da un deputato di Alleanza Nazionale che Berlusconi in persona si apprestava a diffondere la notizia del mio accompagnamento di Ocalan in una conferenza stampa. È così vero ciò che dico che il magistrato che mi interrogò concluse il mio interrogatorio quando spiegai che quel che dicevo circa Ocalan che si diresse al passaggio dei passaporti diplomatici, cosa piuttosto bizzarra per chi volesse entrare clandestinamente nel nostro paese, lo avrebbe potuto verificare visto che c’erano numerose telecamere che dovevano per forza aver registrato il fatto.
Del resto Ocalan era atteso da un nugolo di agenti che effettivamente lo arrestarono, ma dopo aver ascoltato la richiesta di asilo, e lo condussero fuori dalla sala della frontiera insieme alla sua segretaria e al portavoce in Italia dell’Ufficio di Informazione sul Kurdistan che fungeva anche da interprete. Il magistrato nel congedarmi mi disse che le registrazioni dell’aeroporto di quel giorno e di quell’ora erano sparite. L’accusa contro di me venne archiviata per questo.
Orbene, i casi sono due: o D’Alema, o chi per lui alle sue dipendenze, si è dimenticato di aver ordinato alla polizia di stato di redigere una relazione falsa sull’arresto di Ocalan, oppure ciò è stato fatto a sua insaputa autonomamente da apparati dello Stato deviati o al servizio di un altro paese. In entrambi i casi si tratta di cose gravissime che avrebbero dovuto avere un seguito giudiziario. Inoltre mi pare di ricordare che l’allora responsabile esteri dei Ds, Umberto Ranieri, qualche anno dopo scrisse che il governo era stato informato e che aveva commesso un grave errore ad accettare che Ocalan venisse in Italia. Ma forse la mia memoria è difettosa.
Quanto alle pressioni a me risulta che vennero da più parti. Certo i più attivi furono gli Usa come dice lo stesso D’Alema. Ma a parte le telefonate riservate che cita D’Alema la segretaria di stato Madeleine Albright disse pubblicamente che l’Italia doveva estradare Ocalan in Turchia, e cioè oltre a intromettersi in una vicenda che riguardava due stati sovrani (almeno formalmente) ordinava al governo italiano di violare una legge della Repubblica, che vieta esplicitamente di estradare chicchessia verso un paese che lo potrebbe condannare a morte.
AD ALBRIGHT nessuno del governo italiano rispose adeguatamente con una dichiarazione a tutela della nostra sovranità e anche della nostra dignità come paese. Anche le imprese belliche italiane, pubbliche e private, esercitarono le loro pressioni. E a me risulta che anche alti funzionari dello Stato compirono atti tesi a condizionare il governo.
Si può anche facilmente verificare, consultando gli archivi delle agenzie di stampa italiane, che ci fu un giorno nel quale la mattina il presidente del Consiglio e il ministro della giustizia dissero che il governo non era competente sulla concessione o meno dell’asilo (cosa che D’Alema nell’intervista non dice raccontando, invece, di aver consultato la commissione per l’asilo) e lo stesso giorno nel pomeriggio ben tre ministri, e non ministri qualsiasi perché erano Dini, ministro degli esteri, Scognamiglio, ministro della difesa, e Fassino, ministro del commercio con l’estero dissero che il governo NON DOVEVA CONCEDERE L’ASILO, in parte smentendo D’Alema e Diliberto. Strano che la stampa italiana composta in parte da un esercito di dietrologi, di pettegoli, di incompetenti sulla politica estera e di ricercatori di piccoli e grandi scoop, non si accorse di questo piccolo dettaglio.
Infine, io non posso dire nulla su cosa avvenne dopo la partenza di Ocalan dall’Italia tranne che alla fine dopo il suo sequestro illegale in Kenya dovettero dimettersi tre ministri greci, a cominciare dal ministro degli esteri.
Però posso portare una testimonianza perché prima della partenza, quando Ocalan valutava il da farsi anche sulla base di ciò che gli avevano consigliato gli avvocati Pisapia e Saraceni (che erano anche deputati della Repubblica) i quali, al contrario di quanto afferma D’Alema, a me risulta lo avessero consigliato di rimanere in Italia giacché le accuse che gli venivano rivolte nella richiesta di estradizione erano teoremi politici più che accuse circostanziate, e avrebbero superato la prova di qualsiasi tribunale italiano che le avesse esaminate.
Vero è invece, in esecuzione di un trattato fra Italia e Turchia precedente il colpo di stato militare e mai annullato, che un minuto dopo il rifiuto ufficiale dell’estradizione qualsiasi magistrato italiano avrebbe potuto arrestare Ocalan e sottoporlo a giudizio secondo le accuse della magistratura turca.
LA MIA TESTIMONIANZA è che Ocalan mi disse che se l’avessero arrestato in Italia secondo il trattato di cui sopra, pur non temendo il processo, pensava che il popolo kurdo avrebbe vissuto il suo arresto in Italia come una sconfitta che avrebbe potuto provocare reazioni disperate e incontrollate. Io, ovviamente, mi limitai a descrivere cosa sarebbe successo se fosse rimasto condividendo l’opinione degli avvocati e rassicurandolo sulla crescita del movimento di solidarietà con il popolo kurdo, ma non mi permisi di dare consigli e tanto meno indicazioni.
Poche ore dopo il mio colloquio vennero da me esponenti di primo piano del Pkk che mi informarono, dato il rapporto fraterno fra noi e loro, che il movimento pensava che il loro presidente avrebbe dovuto rimanere in Italia ma che, ovviamente, avrebbe avuto l’ultima parola sul da farsi. Solo a quel punto dissi loro a nome del mio partito che anche noi eravamo della stessa opinione e che se poteva servire usassero questa informazione per convincerlo a rimanere. Ho detto tutto questo per testimoniare dello spessore umano e politico di Ocalan che prima che a sé stesso pensò al suo popolo. Il che è più o meno il contrario di quel che fanno i governanti europei e italiani in particolare.
Abdullah Ocalan è il Nelson Mandela (chissà come sarebbe passato alla storia chi non avesse concesso asilo al Mandela capo militare della Anc) del popolo kurdo. I suoi scritti in carcere sono una elaborazione che tutta la sinistra mondiale dovrebbe studiare e sono alla base del fatto che il Rojava è l’unico posto in Medio Oriente dove c’è democrazia, dove le donne hanno gli stessi diritti degli uomini e dove le persone di diverse etnie e religioni convivono pacificamente. Invece è tutt’oggi bersaglio di bombardamenti e di attacchi continui da parte della Turchia (con le armi fornite dalle industrie belliche italiane) e dell’Isis.
Noi combatteremo sempre per la liberazione di Abdullah Ocalan che consideriamo anche un nostro punto di riferimento politico e teorico.
Commenta (0 Commenti)Commenti La conferenza di Monaco non è la fine della Nato. Basta che i Paesi Ue paghino di più per la difesa restando i migliori clienti del complesso militar industriale israelo-americano
A Monaco gli americani le hanno sparate grosse. Vance, il vice di Trump, si è spinto da affermare che in Europa la libertà «è in ritirata» e che «i valori tra le due sponde dell’Atlantico non sono più condivisi». Cosa per altro riconosciuta con amarezza dal presidente tedesco Steinmeier: «La nuova amministrazione americana ha un diverso modo di vedere il mondo rispetto noi. Non ha riguardo per le regole stabilite, la partnership e la fiducia». Insomma tra le due sponde dell’Atlantico stanno per cominciare le pratiche di separazione ma, come spesso avviene, gli interessi prevalgono sulle passioni e complicano i divorzi.
La conferenza di Monaco sulla sicurezza non è la fine della Nato. Basta pagare. E perché mai dovrebbe esserlo? I Paesi dell’Alleanza atlantica non spendono per la difesa quanto vorrebbe Washington (il raddoppio della spesa europea al 5% del Pil) ma restano comunque i migliori clienti del complesso militar-industriale israelo-americano. Certo Vance in Baviera ha strapazzato gli alleati ma non si ammazza la gallina europea che fa le uova, pronta comunque ad acquistare sempre più armi dagli Usa. L’anno scorso, per esempio, la Nato ha portato da 40 a 50 miliardi di euro le spese in armamenti per l’Ucraina: la maggior parte dei contributi sono venuti proprio dagli stati europei e le commesse per l’industria militare americana sono state, al solito, notevoli.
Non è da oggi che l’Europa è un vassallo degli Stati uniti e questo certamente non cambierà domani neppure con Trump. Anzi. La prospettiva per Trump è quella di vendere sempre più gas liquido agli europei e di farlo passare anche attraverso le pipeline dell’Ucraina che prima portavano il gas russo.
In poche parole il presidente americano e i suoi esattori hanno in mano due bollette in scadenza: quella della difesa e un’altra per l’energia. Un megawatt ora di gas in Europa costa oggi oltre 40 euro, negli Stati uniti 7: e così si sistema anche la competizione industriale tra le due sponde dell’Atlantico. Poi tra un po’ arrivano anche i dazi e con questo Trump liquiderà la questione europea, considerata come una noiosa perdita di tempo che assorbe energie al dossier più spinoso, ovvero la Cina. Quanto al Medio Oriente lì ci pensa Netanyahu, il quale strangolando gli aiuti a Gaza prepara un inverosimile futuro da resort di lusso per la Striscia. E anche su questo – ancora peggio che sull’Ucraina – gli europei non hanno niente da dire. Persino pronunciare la formula “due popoli due stati” verrà percepito pure qui come una vera e propria presa in giro.
Certo da Monaco non arrivano buone notizie né per l’Europa né per l’Ucraina. Ma lo sapevamo già. Mentre Trump e Putin aprivano con una telefonata le trattative sull’Ucraina, il nuovo segretario alla Difesa americano, Pete Hegseth, dichiarava che l’Europa non può più fare affidamento sugli Stati uniti per la propria difesa, avvertendo che Washington non sarà più il principale garante della sicurezza del continente. Naturalmente è vero solo in parte visto che nessuno, per ora, mette in discussione un apparato bellico che fa leva sulle testate nucleari. Ma tutto fa gioco all’amministrazione Trump per agitare le acque e far credere che la Nato è in liquidazione, una manovra per estorcere ancora più denaro agli europei.
A Monaco ci si è messo pure Zelesnski ad alimentare il clima di smarrimento, affermando che, senza garanzie di sicurezza, Putin potrebbe attaccare la Nato l’anno prossimo. I russi, ha detto, «possono andare avanti in Ucraina, oppure andranno in Polonia o nei Paesi Baltici», con la differenza che però questi ultimi sono membri della Nato con tutte le conseguenze del caso. Ma ormai Zelenski dice la qualunque perché ha capito che Trump, pur di chiudere la partita ucraina, sarebbe pronto anche a consegnare la sua testa a Putin, anche se firma l’accordo con gli Usa sulle terre rare.
Del resto il disorientamento degli ucraini e degli europei è comprensibile. Trump non aveva avvertito nessuno della sua iniziativa con Putin. Non aveva sentito gli ucraini, i diretti interessati, che hanno scoperto tutto soltanto dopo la conversazione con Putin, e gli europei sono stati lasciati totalmente ai margini. Trump porta avanti una politica imperiale perché questa è la natura del suo secondo mandato, come ormai risulta chiaro a tutti. Il presidente americano vuole trattare direttamente con Putin le sorti dell’Ucraina e anche eventuali garanzie di sicurezza, così come intende negoziare direttamente con il leader cinese. La sua preferenza per i dittatori appare evidente, così come è palese il suo fastidio per le democrazie che considera imbelli e inconcludenti.
Ma questo è anche il momento della verità per l’Europa, per trovare alternative agli Stati uniti – che non siano la guerra – e alla visione del mondo di Trump basata su un’unica superpotenza. Altrimenti saremo ancora più vassalli di prima.
Intervista Massimo D’Alema ricostruisce quanto avvenne tra il 1998 e il 1999: l’arrivo in Italia del leader curdo, il ruolo del governo, l’arresto
Il 12 novembre 1998 Abdullah Ocalan, fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), sbarca a Fiumicino da un aereo partito da Mosca. Aveva da poco lasciato la Siria, cacciato dopo anni di ospitalità. La polizia italiana lo arresta, primo atto di una delle vicende che ha più segnato la questione curda e il suo rapporto con l’Italia: nei due mesi trascorsi a Roma, intorno al leader si genera una mobilitazione senza precedenti e una presa di coscienza collettiva della lotta di liberazione curda.
Su una delle mensole nel suo ufficio romano, l’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema conserva una targa: una stella rossa e sopra la sigla Pyd, Democratic Union Party, la forza politica della sinistra curda siriana fondata nel 2003 e da 13 anni una delle anime del confederalismo democratico in atto nella regione. Il primo governo D’Alema era nato poche settimane prima dell’arrivo di Ocalan. Resterà in carica per altri dieci mesi dopo la cattura del leader curdo, avvenuta a Nairobi il 15 febbraio 1999, esattamente un mese dopo aver lasciato l’Italia.
Il governo sapeva che Ocalan stava arrivando in Italia?
No. Fu Rifondazione ad avere un ruolo, in particolare Ramon Mantovani, ma non in accordo con il governo. Fui informato la notte in cui Ocalan arrivò in Italia. Su di lui pendeva un mandato di cattura tedesco. Noi eravamo e siamo tuttora vincolati alla Germania dal Trattato di Schengen, se una persona con un mandato di cattura europeo viene in Italia lo dobbiamo arrestare.
Ed è successo, Ocalan è stato arrestato a Fiumicino.
La mattina stessa parlai con il cancelliere Schroeder: la Germania non intendeva inoltrare la richiesta di estradizione per ragioni di sicurezza interna, c’era la preoccupazione che un processo a Ocalan in Germania avrebbe potuto creare tensioni tra comunità turca e comunità curda. Avremmo potuto fare una forzatura, metterlo su un aereo e mandarlo a Berlino, ma siamo persone sagge. Ocalan fu liberato e diventò ospite del governo italiano, condotto per ragioni di sicurezza in una villa protetto dalle forze dell’ordine, dove ricevette persone, ebbe incontri. Era un uomo libero, ma protetto. Si scatenò un inferno: ci fu un’immediata richiesta di estradizione da parte della Turchia. Noi la respingemmo sulla base del principio costituzionale per cui non consegniamo persone a paesi nei quali rischiano la pena di morte.
Che tipo di pressioni subì il governo?
Si aprì una crisi diplomatica molto pesante che coinvolse imprese italiane con investimenti in Turchia. Ci furono manifestazioni contro l’Italia ad Ankara, anche tentativi di assalto alla nostra ambasciata. Il presidente Usa Clinton mi chiamò dicendo che stavamo proteggendo un terrorista e che la Turchia era un paese membro della Nato, gli andava consegnato. Gli americani presero anche posizione pubblicamente, non fu solo una pressione privata.
Alcuni protagonisti dell’epoca parlano anche di pressioni di Confindustria.
Non dico pressioni, ma da Confindustria vennero da me delegazioni di imprenditori per gli interessi italiani minacciati in Turchia. E nel frattempo ci fu un’iniziativa per la concessione a Ocalan dell’asilo politico. Noi interrogammo la commissione per l’asilo che ci diede un parere contrario: a una persona con un mandato di cattura per omicidio all’interno dell’Unione europea non possiamo concederlo.
L’asilo però fu concesso, mesi dopo.
Il tribunale ha ritenuto che si potesse dare l’asilo. Ma nel frattempo lui se n’era andato.
Ma il governo si costituì parte civile contro la richiesta di protezione.
L’Avvocatura difese il parere che ci aveva fornito la commissione: sarebbe stato difficile riconoscere l’asilo a una persona considerata un terrorista a livello internazionale.
La decisione del tribunale avrebbe risolto il problema. Non si sarebbe trattato più di una decisione politica. Non avreste potuto aspettare?
Ci sarebbero stati problemi seri comunque. Anche con l’asilo avremmo dovuto proteggerlo, sarebbe stato un bersaglio. Avevamo un dialogo con Ocalan, attraverso persone, amici comuni, curdi, palestinesi, che ci aiutarono a dirgli che nella sua condizione avremmo potuto garantirgli l’uscita dall’Italia in condizioni di sicurezza. L’asilo non avrebbe cambiato la sua condizione.
Avrebbe permesso di tenerlo in Italia.
Ma lui era un uomo libero, nessuno gli ha impedito di rimanere qui. Poteva andare dove voleva. Vorrei essere chiaro: non lo abbiamo espulso, non è stato consegnato a nessuno. Intorno a quella villa c’erano servizi segreti di mezzo mondo, turchi, americani, israeliani. Era comunque in una condizione di pericolo, con o senza l’asilo politico. Alla fine lui si convinse che fosse ragionevole andarsene.
Ex avvocati di Ocalan hanno raccontato di un’opera di convincimento che ha riguardato anche i consiglieri stessi del leader curdo. Che ruolo ha avuto il governo?
Era giusto che lui andasse via, quello che è stato sbagliato è ciò che è accaduto dopo. Noi abbiamo fatto in modo che se ne potesse andare dall’Italia in condizioni di sicurezza, cosa che non era affatto banale dal punto di vista organizzativo.
Esisteva già una destinazione finale?
C’era una destinazione intermedia e c’era una destinazione finale. Gli americani non si accorsero di nulla. Attraverso determinati accorgimenti, risultò a tutti essere ancora qui quando in realtà se n’era già andato. Fu un’operazione abbastanza complessa e fu gestita borderline: un’operazione così non poteva essere interamente gestita dai nostri apparati senza che gli americani lo sapessero. Il capo della polizia mi disse che avrei dovuto trovare io la via. Organizzammo tutto molto bene: lui scomparve e arrivò in una base militare di un altro paese. Da lì doveva andare in Sudafrica.
Perché a vostro avviso il Sudafrica avrebbe dovuto essere più sicuro dell’Italia?
Nel nostro paese era stato individuato, era circondato. Nessuno avrebbe saputo che si trovava in Sudafrica.
Poteva restare qui sotto protezione.
Sarebbe stato un affare di Stato per tutta la vita. Avremmo dovuto creare un fortilizio in Italia. Ocalan l’ha capito, era una persona di buon senso. In nessun paese occidentale poteva essere al sicuro. Il Sudafrica era un paese amico, indipendente, meno condizionato dall’Occidente. Il vice presidente sudafricano Mbeki era l’erede di Nelson Mandela, erano compagni e questa era una questione che poteva essere affrontata solo tra compagni. Al contrario la Grecia gli ha offerto una protezione molto meno limpida: noi lo abbiamo protetto alla luce del sole, ce ne siamo presi la responsabilità con crisi diplomatiche, danni economici, litigi con gli americani. Ci siamo presi la responsabilità di dire che non lo avremmo consegnato alla Turchia.
Tra Russia e Sudafrica, come si inserisce la Grecia?
Feci un accordo con il primo ministro russo Primakov e con il vicepresidente sudafricano Mbeki: Pretoria lo avrebbe accolto non ufficialmente, ma ospitato e protetto. Quando Ocalan arrivò a Mosca, però, decise diversamente: accettò un invito riservato del governo greco. O meglio, del ministro degli esteri greco Pangalos che controllava i servizi segreti esterni. Pagalos, mi raccontò il primo ministro socialista Simitis, aveva preso contatti con i curdi e invitato Ocalan senza informare il governo. Così il leader curdo fu ospitato in alcune ambasciate greche in Africa. A Nairobi gli dissero che doveva partire perché c’era un paese europeo che gli avrebbe dato l’asilo politico.
Invece?
Invece non era vero, Ocalan fu venduto da un ufficiale dei servizi greci. Sulla via per l’aeroporto fu preso, secondo quello che mi dissero i greci, dagli israeliani. Furono gli israeliani a catturarlo e consegnarlo ai turchi, così mi fu detto.
Ha parlato di litigi con gli americani. Che tipo di pressioni ha subito?
È chiaro che quando viene un ambasciatore americano e quando ti telefona il presidente degli Stati Uniti la cosa ha un certo peso. Con garbo gli si può dire di no come è stato fatto: siamo un paese libero se vogliamo fare uso della nostra libertà. Credo che gli americani lo facessero perché questa vicenda aveva dei risvolti di carattere geopolitico: in quel momento c’era uno scontro tra Europa e Usa perché che gli europei volevano realizzare il South Stream, il gasdotto che dalla Russia doveva arrivare nell’Europa meridionale. Gli americani sostenevano un progetto alternativo, un gasdotto dall’Azerbaigian. Il paese chiave era la Turchia perché entrambi i progetti passavano per il Mar Nero. Creare una frattura tra Turchia e Unione europea era interesse americano. Mostrarsi amici della Turchia era interesse americano. Penso che a Clinton di Ocalan non importasse, ma il fatto che una tensione tra Turchia e Italia gli faceva gioco.
Era quello un periodo centrale per la questione curda. Dall’Italia Ocalan lanciò le basi per il processo di pace.
La questione riguarda la Turchia, la necessità di superare un nazionalismo turco che ha origini ottomane. Non credo che la presenza di Ocalan in Italia avrebbe potuto cambiare il corso della politica turca. Noi abbiamo fatto quello che si poteva fare nelle condizioni date. Abbiamo la coscienza tranquilla: non abbiamo consegnato Ocalan a nessuno e abbiamo sempre sostenuto la necessità di una soluzione politica al riconoscimento dei diritti del popolo curdo in Turchia, Siria, Iraq e Iran.
In quei due mesi ha mai incontrato Ocalan?
No, mai.
Non ci ha nemmeno parlato al telefono?
Non mi ricordo, ma era complicato. D’altro canto ci sono dei limiti entro cui si svolge il mandato del presidente del Consiglio. Non è un uomo libero