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L'addio Lutto per la sinistra italiana e per il popolo palestineseù

Addio Ali Rashid, il coraggio gentile della lotta Ali Rashid

È morto Ali Rashid. Era nato nel 1953 ad Amman primo rifugio dalla Palestina di una famiglia di Gerusalemme costretta addirittura a cambiare cognome dal regime hashemita che nel ’70 massacrerà i palestinesi. Era un militante di sinistra di Al Fatah. È stato segretario nazionale del Gups, l’Unione degli Studenti palestinesi, aveva fatto parte dell’Unione degli scrittori e giornalisti palestinesi e, dal 1987 per molti anni è stato il Primo Segretario della Delegazione generale palestinese in Italia, dove aveva fatto parte di Democrazia proletaria, eletto nel 2006 come deputato per Rifondazione comunista (si era ricandidato nel 2008 per Sinistra Arcobaleno e nel 2024 con Pace Terra Dignità, senza essere rieletto). Ma queste scarne righe sulla sua vita politica non rendono appieno la sua forza, il suo coraggio instancabile, la sua dolcezza nonostante tutto.

Nella sequenza di addii in questa epoca alla deriva di senso e di futuro ho spesso usato, con sincerità, l’espressione «per me era un fratello». Stavolta l’espressione è più vera, lui è stato più fratello che mai. Con lui ho condiviso quasi quaranta anni di appassionata quanto disperata vicinanza per la lotta e la tragedia del popolo palestinese.

Ora se ne va proprio nel giorno del 77° anniversario della Nakba, la catastrofe della cacciata di quel popolo nel 1948 da parte delle milizie e dell’esercito israeliano dalla propria terra e dalle proprie case; e nei giorni in cui i palestinesi muoiono in massa tra le rovine di Gaza e nella nuova colonizzazione della Cisgiordania; hanno fiato solo come bersagli di un sanguinoso tiro al piccione dell’esercito di Netanyahu, abbandonati da tutti e nell’indifferenza del cosiddetto civile e democratico Occidente mentre si consuma un genocidio. Il suo cuore non ha retto, si è spezzato. Chi può reggere il dolore provato a distanza e nell’impotenza opprimente di fronte alle scene di stragi che arrivano tra bambini e donne che si contendono tozzi di pane?

Che resta ai palestinesi come arma se non la scrittura e la presa di parola, ci dicevamo. Così nell’ultimo anno insieme abbiamo organizzato molte presentazioni della terza edizione de “La terra più amata. Voci della letteratura palestiinese”, curata con l’altro fratello di Palestina, Wasim Dahmash: per un’idea di “Divano” che recuperasse almeno le ragioni dei poeti, da Goethe a Mahmud Darwish. “Nel Diwan – mi scriveva proponendo il testo di presentazione delle iniziative a Firenze – scorrevano le parole verso l’infinito. Rispettose e cordiali, si spogliavano dal piglio del dominio e si ammantavano dell’ansia di comunicare. Poeti, narratori e cantastorie…si alternavano sul palcoscenico che durava tutto l’anno. Passato, presente e futuro con filo ininterrotto per non smarrirsi nel vuoto… Protagonisti sono le parole che sfilano come la seta dai gelsi e lasciano indelebile il segno sul quaderno della notte. Solo il chiarore della mente a farci lume nella ascesa verso le nostre ardite deduzioni».

«Nel Diwan – continuava – rinascerò da me stesso e sceglierò lettere capitali per il mio nome, in questo presente senza tempo e senza luogo. Ormai nessuno ricorda come abbiamo varcato l’indicibile e ci siamo accorti che non siamo più capaci d’attenzione. Per non sentirci dire un giorno “era mio padre quell’uomo in pena da far sopportare a me la sua storia”. Questa nostalgia, che né l’oblio ci allontana né il ricordo ci avvicina, questa tensione verso l’altro che è in noi non si risolve nel soggetto pensante – concludeva – , quello che Marx in parole suggestive definisce “il sogno di una cosa”, il soggetto umano che attende il tempo che non c’è ancora, l’uomo inedito, in tensione verso il futuro, verso il suo adempimento per creare il futuro che non è più certezza ma è una pura ipotesi. Il futuro ci sarà se lo avremo creato». Questo era Ali.

Ora ai palestinesi non resta neppure Ali Rashid. Dalla voce pacata, sommessa che però pretendeva l’ascolto e l’otteneva, anche dai nemici. È stato per tutti noi il vero e degno rappresentante della Palestina. Non si è mai risparmiato in una vita fatta di esilio e dolore – negli anni ’90 il Pd prendeva sprezzante le distanze dai palestinesi. Contro ogni sopraffazione è stato un costruttore tenace quanto inascoltato di pace. Addio Ali.

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Il posto sicuro L’Italia e l’Europa hanno fatto in Libia un scelta comprensibile nel breve periodo - soprattutto a scopi propagandistici presso l’opinione pubblica - ma miope

L’Italia e la Gomorra di Libia 

Regolamenti di conti mortali e scontri tra le fazioni in Tripolitania, avanzata delle truppe del generale Khalifa Haftar da Bengasi alla Sirte: la Libia sfugge a ogni controllo e soprattutto a quello del governo di Giorgia Meloni, che ieri a un certo punto stava valutando persino l’evacuazione degli italiani.

Questa confusione e l’essere sempre in balìa delle fazioni e dei clan libici è dovuta essenzialmente alla scelta italiana ed europea di rinunciare a ogni strategia politica, tanto è vero che l’influenza militare maggiore è quella della Turchia e Ovest e della Russia di Putin, padrino del generale Haftar, a Est, in Cirenaica. Ma mentre Erdogan e Putin si parlano, anche a distanza, noi riceviamo informazioni di seconda mano, e accuratamente “masticate” dal sultano turco, e nessuna ovviamente da Mosca che ha appena ricevuto Haftar in pompa magna: oggi il generale riceve sostegno militare non solo da Mosca ma anche dalla Turchia che un tempo lo osteggiava apertamente e nel 2019 era intervenuta a difesa del governo Sarraj di Tripoli. Come cambia il mondo… e qui ce ne accorgiamo sempre con un leggero ma fatale ritardo.

L’Italia e l’Europa hanno fatto in Libia un scelta comprensibile nel breve periodo – soprattutto a scopi propagandistici presso l’opinione pubblica – ma miope. Ammantato e imbellettato da accordi internazionali che dovrebbero fornire una copertura di legalità, l’Italia ha impiantato il “sistema libico”, ovvero un meccanismo di corruzione che prevede il versamento ai libici di somme di denaro da parte dell’Italia e dell’Europa in cambio della repressione violenta dei flussi migratori. Così ci siamo trovati in mano non a uno stato, sia pure in ricostruzione e dotato di ingenti risorse energetiche che da sempre interessano l’Eni, ma siamo precipitati nelle cronache della malavita libica. Per contenere i flussi migratori ci siamo affidati a dei criminali.

Esemplare il caso del generale Almasry che fa parte a pieno titolo di questo sistema. L’uomo, noto come il torturatore dei migranti e il capo del carcere di Mitiga, un criminale che aveva costruito la sua fama con un regime del terrore fatto di abusi, stupri e omicidi, è un ricercato dalla corte penale internazionale dell’Aja che avevamo arrestato a Torino e poi abbiamo rilasciato con un cavillo e il silenzio farisaico del ministro della Giustizia.

In Libia siamo talmente in buone mani che lunedì a Tripoli hanno fatto fuori, in circostanze poco chiare, un altro nostro “amico” del sistema di repressione libico. Si tratta di Abdulghani al Kikli, noto come “Ghnewa”, capo della potente Ssa, l’Apparato di Supporto alla Stabilizzazione. Anche Al Kikli, come Almasry, è stato più volte avvistato in Italia dove andava e veniva indisturbato ospite. Alle sue milizie era affidata in parte la gestione delle carceri dove vengono rinchiusi i migranti. E infatti il suo nome è apparso in diversi dossier dell’Onu in cui si parla di abusi e torture nelle carceri di quello che veniva chiamato il “signore di Abu Salim”, la vecchia e famigerata prigione di Gheddafi che non ha mai smesso di inghiottire le sue vittime anche dopo la caduta del raìs.

A cosa si deve questo caos in Tripolitania? Siamo di fronte a lotte di potere e di soldi in cui il governo del premier Dbeibah è intervenuto appoggiandosi ad altre milizie, in particolare la Brigata 444, formata da combattenti provenienti da Misurata e ritenuta vicina al primo ministro, ovvero colui che firma gli accordi con l’Italia e l’Europa. Chi oltrepassa certe “linee rosse” viene eliminato. E’ stato il caso di Bija, il noto trafficante di Zawiya, ucciso vicino a Tripoli nell’estate scorsa. E come l’eliminazione, tentata ma non riuscita, del ministro dell’Interno Adel Juma il 12 febbraio scorso. Ricoverato per diversi mesi a Roma fu visitato in marzo proprio da Al Kikli. Nella girandola di alleanze e rivalità tripoline chi comanda ha la pistola in tasca e noi come Paese ci siamo in mezzo.

L’assenza di un vera strategia politica libica ha portato all’ascesa del generale Haftar, ex ufficiale di Gheddafi che nei suoi vent’ani di esilio in Usa è anche diventato cittadino americano. Il feldmaresciallo, che tiene in pugno la Cirenaica e l’Esercito Nazionale Libico (Lna), è sbarcato a Mosca, invitato il 9 alla parata della vittoria. Lui gioca una partita geopolitica che può disegnare nuovi equilibri nel caos libico. La Russia, dopo il parziale ritiro dalla Siria, ha scelto la Libia come nuovo avamposto africano e mediterraneo. Ma la vera sorpresa è un’altra. Haftar ha mandato il figlio Saddam ad Ankara lo scorso aprile, ricucendo con la Turchia che nel 2020 lo aveva bloccato alle porte di Tripoli. Haftar ha ottenuto forniture di droni turchi, addestramento per 1.500 uomini dell’Lna ed esercitazioni navali congiunte. In sintesi la Turchia, che mantiene basi in Tripolitania, si propone come mediatore per unificare le forze armate libiche. Il sultano di Ankara ha delle strategie, a noi, a quanto pare, resta soltanto la Gomorra libica.

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Negoziati In questi giorni i resoconti non veritieri di molti media sono arrivati nello stesso giorno in cui il nuovo papa incontrando la stampa del mondo ha chiesto di disarmare l’informazione

Guerra ucraina, le parole armate e la verità come vittima

 

Mentre scriviamo ancora non sappiamo cosa accadrà domani, giovedì 15, se Putin e Zelensky si incontreranno o meno a Istanbul e se parteciperà da “mediatore” Trump. Sappiamo solo con certezza che la prima vittima di ogni guerra è la verità. Basta vedere come gran parte dei media sta informando su come è nato l’evento. “Tregua, Trump convoca Putin“, “…Se Putin dovesse accettare l’invito del leader ucraino ad incontrarsi…”, “…Rimane il tema del cessate il fuoco, condizione ineludibile da Zelensky e dei leader europei…”, ”Gelo da Mosca”: titoli e aperture di quotidiani e di tg tutt’altro che veritieri. Che dire poi delle dichiarazioni di Giorgia Meloni, volenterosa ma trumpiana: «L’Ucraina ha accettato subito di incontrare Putin a Istanbul giovedì, chiarendo in pochi minuti, rispetto a certa propaganda, quale tra le parti coinvolte nel conflitto sia certamente a favore della pace…». In realtà – come il manifesto ha scritto – i fatti stanno diversamente: in sequenza temporale, è stato Putin che ha sparigliato il campo del vertice dei Volenterosi a Kiev, proponendo, con inusitato annuncio in tardissima serata da Mosca domenica sera, l’incontro diretto tra lui e Zelensky, «con il sostegno dei leader mondiali dei Brics»; ne è seguita dal presidente ucraino, con il sostegno della coalizione dei Volenterosi, una “accettazione riluttante” condizionata ad un cessate il fuoco prima di trenta giorni, e per questo subito dopo c’è stato l’intervento a gamba tesa di Donald Trump su Zelensky perché accettasse l’invito immediatamente anche senza la condizione della tregua di un mese. Si parla ora di “gelo da Mosca”. Ma se lo stesso racconto degli avvenimenti è capovolto, il “gelo” è inevitabile e il fallimento annunciato, come quello provocato per i negoziati russo-ucraini di Istanbul dell’aprile 2022.

Una ricostruzione necessaria che non vuole far premio di una presunta volontà di pace di Putin, primo responsabile con l’invasione del febbraio 2022 – il secondo è l’allargamento a Est della Nato – , ma sottolineare la sequenza degli accadimenti. Perché purtroppo alla vista non ci pare ci sia nessuna pace “giusta e duratura” e nemmeno una tregua. Perché? Perché intanto la guerra inutile continua, e perché i governi europei, la cui politica estera è surrogata dall’Alleanza atlantica, che avrebbero dovuto avanzare proposte diplomatiche di mediazione in questi tre anni, continuano ad inviare armi “per la vittoria” – impossibile secondo gli stessi generali del Pentagono contro la potenza militar-nucleare russa, per arrivare all’ammissione recente di Zelensky: “Per noi è impossibile riconquistare i territori occupati”; intanto alimentando odio e una litania sanguinosa di giovani vittime. Il fatto più grave è che da questa emergenza di guerra l’Unione europea ha tratto la nuova ragione di esistenza: il riarmo generalizzato. Con una quantità di investimenti miliardari che segnano una svolta epocale dal welfare al warfare. Investimenti che dovranno essere doppi, per ogni singolo paese, verso inediti quanto pericolosi nazionalismi armati magari bipartisan o protofascisti, e anche per la Nato che batte cassa con Trump. Questo “riarmo” rappresentano i Volenterosi: la richiesta di una tregua serve a legittimare l’idea di una loro missione militare di “sicurezza” dentro l’Ucraina – la Nato, che è il casus belli di questa guerra, ma così senza la Nato – per il controllo “super partes” del cessate il fuoco che dovrebbe essere fatto paradossalmente da chi ha inviato armi per sostenere un fronte contro l’altro, e alla prima verifica di violazione del cessate il fuoco ecco l’intervento in guerra stavolta diretto; intanto trasformando l’Ucraina nel nuovo arsenale di armi d’Europa. Eppure le Nazioni unite, anche se bombardate da Netanyahu, esistono ancora e se sarà auspicabilmente tregua o congelamento dello stallo nel conflitto, sarà inevitabile il coinvolgimento del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Fatto da sottolineare, le parole non veritiere e per l’occasione “armate” della maggior parte dei media giungono nello stesso giorno in cui il nuovo papa Leone XIV incontrando la stampa del mondo in Vaticano ha chiesto di “disarmare le parole” come condizione di un’epoca “disarmata e disarmante”. Il papa che viene tirato per la tonaca per la diversa visione delle guerre – è un agostiniano – e che non ha esitato a bollare l’invasione russa come “imperialista”: come non essere d’accordo sulla vocazione zarista di Putin che mettendo in discussione la storica sovranità dell’Ucraina non ha trovato di meglio con veemenza anticomunista che prendersela con Lenin e con la Rivoluzione d’Ottobre. Ma altresì come non essere d’accordo con papa Francesco che non solo per essere gesuita ma per avere sperimentato sulla sua pelle la guerra dei militari golpisti all’interno della sua Chiesa argentina negli Anni Settanta, considerava la guerra “sempre come “sconfitta” e “sempre guerra civile” e, riflettendo sulle origini del conflitto, non esitava a parlare per l’invasione dell’Ucraina dell’”abbaiare della Nato ai confini” dichiarando di “vedere uno scontro tra imperialismi” per il quale è difficile ragionare come “la favola di Cappuccetto rosso, tra buoni e cattivi”. I due papi, nella continuità del cristianesimo che deve “dare a Cesare quel che è di Cesare”, si compenetrano a vicenda e questo papa, per ora, ripete ad libitum le parole di Bergoglio: “Una pace giusta e duratura”. Noi dovremmo cominciare, costruendo un movimento terreno, a diffidare del “pacifismo” imperiale di Trump e a non avere più bisogno delle parole di un papa per affermare il rifiuto della guerra e la priorità della pace.

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Blitz in aula Il parlamento italiano vota per acquistare nuove tecnologie militari da Israele

Cinque minuti per insultare le vittime di Gaza Funerali simbolici per i soccorritori della Mezzaluna Rossa uccisi nella Striscia – Ap

Devo purtroppo constatare che in Parlamento bastano cinque minuti per votare milioni di euro da destinare a nuove tecnologie di guerra. È quanto avvenuto nella Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, dove, senza alcun vero dibattito, è stato approvato lo schema di decreto ministeriale SMD 19/2024. Si tratta della prosecuzione di un programma militare di lungo periodo per la dotazione di sofisticati sistemi «Multi-Missione Multi-Sensore» (MMMS) montati su aerei Gulfstream G550. Stiamo parlando dell’Atto del Governo n. 264 sottoposto a parere parlamentare. Il suo esame è durato dalle ore 13.40 alle 13.45 del 6 maggio.

Tutto questo, ripeto, in cinque minuti. E con un silenzio assordante su un fatto gravissimo: la tecnologia alla base di questi sistemi è israeliana. Una tecnologia nata da decenni di occupazione, repressione e controllo militare su un intero popolo.

Mentre a Gaza si muore, mentre l’opinione pubblica internazionale si interroga sui crimini di guerra di Netanyahu, l’Italia rafforza i suoi legami militari con l’apparato bellico israeliano. E lo fa nel modo peggiore: senza trasparenza, senza discussione, senza che i parlamentari stessi – in molti casi – siano pienamente consapevoli di ciò che stanno votando. Infatti nei resoconti parlamentari viene omessa la parola Israele. Non viene scritto che queste tecnologie vengono da Israele, dal suo complesso industriale-militare.

In questo Atto di Governo n. 264 si perpetua la segretezza, e questo lo si riscontra nel linguaggio criptico degli atti parlamentari, nei tempi compressi che impediscono ogni approfondimento.

Come cittadino, come credente, come testimone della sofferenza umana, non posso tacere. Questo voto frettoloso e opaco è una ferita alla democrazia. È un insulto al dolore delle vittime dei conflitti armati. È un tradimento dei valori di pace, giustizia e solidarietà che dovrebbero guidare le scelte pubbliche.

È assurdo che questo accordo commerciale militare avvenga in un momento in cui si sta consumando la tragedia di Gaza.

Mentre un popolo rischia di scomparire sotto le bombe, l’Italia stringe accordi con Israele per rendere ancora più terribile e devastante la guerra. Dovremmo boicottare il governo di Netanyahu e invece acquistiamo i sistemi d’arma israeliani.

Chiedo ai parlamentari di risvegliarsi dal torpore. Chiedo ai cittadini di informarsi, di vigilare, di opporsi. Chiedo alla stampa di fare il suo dovere e di informare. E chiedo, infine, alla coscienza collettiva di interrogarsi: in silenzio stiamo per acquistare da Israele delle tecnologie di morte.

Diciamo stop, contattiamo i parlamentari, poniamoli di fronte alle loro responsabilità! E boicottiamo l’apparato bellico di Israele.

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L’eredità del Pkk Sono trascorsi poco più di dieci anni dal 26 gennaio 2015 e dall’immensa bandiera curda, 75 metri di stoffa, appesa a sventolare sulla collina di Mistenur, alle porte di Kobane. […]

Il XII Congresso del Partito dei Lavoratori del Kurdistan Il XII Congresso del Partito dei Lavoratori del Kurdistan

Sono trascorsi poco più di dieci anni dal 26 gennaio 2015 e dall’immensa bandiera curda, 75 metri di stoffa, appesa a sventolare sulla collina di Mistenur, alle porte di Kobane. L’impressione era che a muoverla non fosse il vento, ma l’aria limpida della ritrovata libertà dopo mesi di occupazione islamista. Il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, era stato fondato parecchi decenni prima, nel 1978, ed è impossibile dire che quella fosse stata la sua prima conquista. Eppure, in qualche modo, quella bandiera sopra Kobane è il simbolo dei risultati raggiunti.

I risultati ottenuti da un movimento che in cinquant’anni di storia ha cambiato il volto del Medio Oriente e della questione curda: 75 metri di stoffa dicevano che da una lotta armata durissima, da una guerra civile che ha provocato 40mila morti, dal sacrificio di centinaia di migliaia di famiglie che hanno perso figlie e figli spariti tra le montagne per imbracciare un fucile, era nato un embrione di liberazione. Dal colonialismo ma anche dai suoi retaggi: la liberazione dall’idea dello stato nazione, dal nazionalismo monolitico, dai confini dentro cui chiudere un’identità unica, di per sé fittizia in una regione tanto ricca di popoli diversi. Il Pkk, che annuncia il suo scioglimento per la fine del proprio ruolo storico, lo fa lasciando dietro di sé una rivoluzione tuttora in corso, che è politica, geopolitica, anti-patriarcale e anti-gerarchica, sociale, filosofica. Servirà tempo per comprendere appieno cosa ha mosso il XII Congresso del Partito, quali le prese d’atto e quali le prospettive future.

Servirà tempo per capire se la scelta compiuta è stata quella giusta, lungimirante come i precedenti punti di svolta teorizzati dal fondatore-prigioniero Abdullah Ocalan e resi pratica da milioni di persone in Kurdistan, tra Turchia, Siria, Iraq e Iran.

Quello che oggi, tra le emozioni confuse che solo i momenti storici sanno provocare, si può dire quello che il Pkk ha ottenuto, anche e soprattutto scegliendo – negli anni Ottanta – la via della lotta armata.

Ha lanciato una rivoluzione sociale, il confederalismo democratico, tra i cui pilastri – accanto a liberazione delle donne, democrazia dal basso ed ecologismo – si impone l’idea dell’autodifesa popolare. È con la lotta armata che il Pkk e le organizzazioni sorte nel suo solco (le Ypg e le Ypj siriane, le Yjs e le Ybs ezide) hanno liberato milioni di persone dal giogo dello Stato islamico. Con le armi è avanzato villaggio per villaggio un nuovo paradigma, rivoluzionario, che ha trovato terreno fertile non solo tra le comunità curde ma tra quelle arabe, assire, ezide, circasse, turkmene, oltre confini settari vecchi di un secolo, avulsi dalla realtà millenaria della regione. È avanzata l’idea che le donne occupino lo stesso posto degli uomini, dentro le istituzioni, le cooperative, le comuni. È avanzata l’idea che si difendano da sé.

Allo stesso modo, in Turchia, il Pkk è stato l’anima di una trasformazione politica che ha permesso alle più recenti formazioni politiche di estrazione curda (l’Hdp prima, il Dem poi) di diventare non solo terzo partito in parlamento, ma di attirare intorno a sé una galassia di movimenti di sinistra, femministi, ecologisti, Lgbtqia+, socialisti, sindacali, capace di sopravvivere a una repressione di stato con ben pochi precedenti e alla detenzione (ormai decennale) dei suoi leader più iconici, Selahattin Demirtas e Figen Yüksekdag.

Dal Pkk è nato tantissimo. L’«ultimo» lascito è il messaggio che tiene insieme tutto il resto: in un mondo che corre verso un riarmo suicida, che impone la guerra come unica soluzione ai conflitti politici attraverso l’eliminazione dell’altro, che militarizza l’immaginario in nome di nuovi nazionalismi, il Pkk parla di pace e pratica il disarmo.

 

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Da Kiev a Gaza C’è sempre il giorno della fake news. L’Europa che porta la pace in Ucraina e persino Trump, il maggiordomo di Netanyahu, che vorrebbe riconoscere lo Stato di Palestina. La Nato […]

Il presidente ucraino Zelensky nel palazzo della Commissione europea Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Bruxelles foto di Omar Havana/Ap

C’è sempre il giorno della fake news. L’Europa che porta la pace in Ucraina e persino Trump, il maggiordomo di Netanyahu, che vorrebbe riconoscere lo Stato di Palestina. La Nato e la Coalizione dei volenterosi continuano «a stare al fianco dell’Ucraina».

Lo ha scritto su X il segretario generale dell’Alleanza atlantica Mark Rutte. Intanto, secondo il Jerusalem Post, che cita fonti diplomatiche di Paesi del Golfo Persico, il presidente statunitense Trump sta pensando di annunciare il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte degli Stati uniti, il più importante alleato di Israele.

Naturalmente è tutto falso.

I volenterosi europei sono un’accolita di capi di governo deboli che non hanno nessun appoggio dell’opinione pubblica, stanca dopo tre anni di guerra inutile in cui Vladimir Putin non ha rovesciato Volodomyr Zelensky, dimostrandosi uno stratega incapace, e migliaia di russi e ucraini sono morti per niente. Quanti? Nessuno del mainstream dell’informazione lo sa dire. E già solo per questo si sono squalificati davanti a tutti.

Se non sai neppure definire i rapporti di forza in campo significa che hai completamente fallito il tuo compito di informare. Era già accaduto nella guerra del Vietnam, cinque decenni fa, quando gli americani scappavano dal tetto dell’ambasciata americana. Bastava allora, per sapere e capire, leggere le cronache di Aldo Natoli sul manifesto.

***

Per non parlare della Palestina. Ma davvero crediamo che Trump possa riconoscerla? Se mai accadesse sarebbe un colpo fatale alla geopolitica statunitense e atlantica. In questi decenni gli Stati uniti si sono legati allo Stato ebraico mani e piedi, al punto che oggi abbiamo un complesso militar-industriale israelo-americano. Paesi, nominalmente sovrani come l’Italia, si sono consegnati a Israele: basti pensare che la nostra cybersecurity è stata appaltata l’8 marzo 2023 a Netanyahu.

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Ma c’è dell’altro. Oggi in Europa e in Italia è impossibile criticare il massacro di Gaza senza essere accusati di antisemitismo. Se davvero Trump ci liberasse dalla gabbia in cui ci ha messo il potere saremmo tutti felici.

Ma c’è sempre un problema. Liberare i popoli e le nazioni vuol dire liberarsi dall’ingiustizia. E la domanda non è solo rivolta ai capi di stato e di governo. È una questione che riguarda noi stessi come individui e come collettività. Siamo disposti a perseguire la via della giustizia?

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La giustizia, scriveva Hannah Arendt, è un concetto fondamentale nella vita politica e sociale, strettamente legato alla libertà e al diritto di avere diritti. Non è un mero concetto astratto, ma un’esperienza politica concreta che richiede la capacità di agire e di prendere posizione. E oggi tutti noi, tutti i giorni, siamo chiamati a questo: a prendere posizione e ad agire contro l’ingiustizia. È il nostro maggiore impegno come esseri viventi, per non essere vittime inconsapevoli delle fake news.

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