Un Lunedì Rosso che vira decisamente al nero.
Tre inchieste sul nuovo apartheid in Cisgiordania, il massacro (anche) di giornalisti a Gaza e i palestinesi usati come cavie nei tunnel dall’Idf.
E ancora: il “green deal” europeo che evapora a Bruxelles e l’emigrazione senza precedenti di giovani italiani e le proteste studentesche.
C’è grande confusione sotto al cielo, ma stavolta non va bene.
Nella foto: Bambini tra le tende di Khan Younis a Gaza, completamente allagata dalle piogge, foto Abed Rahim Khatib /Anadolu via Getty Images
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Alla Cop30 si parla di roadmap globale per l’addio ai combustibili fossili. Una scatola vuota senza tempi, meccanismi di verifica e volontà politica, nell’anno nero dell’indietro tutta occidentale sul clima. Suona l’allarme la grande Marcia dei Popoli che ieri ha invaso Bélem
Leggi ancheContrordine, l’Occidente sul green va indietro tutta
Attivisti indigeni alla manifestazione di ieri a Belém – foto Fernando Llano/Ap
Sabato, sulle strade di Belém, non c’erano solo centinaia di frutti maturi caduti dagli alberi di mango, ma anche migliaia di persone in marcia per il clima e contro i combustibili fossili. Attivisti e attiviste arrivati da ogni parte del mondo si sono ritrovati nella città dell’Amazzonia brasiliana che ospita la Cop30, la trentesima conferenza dell’Onu sul cambiamento climatico, per chiedere più ambizione.
UN CORTEO come non se ne vedevano da anni. Dopo le Cop in Egitto, Emirati Arabi Uniti e Azerbaigian – Paesi poco inclini a striscioni e tamburi – il Brasile ha riportato in strada un’energia che mancava: colori, musica e un funerale simbolico ai combustibili fossili. È stata la prima grande protesta di massa fuori da una Cop dai tempi di Glasgow, quattro anni fa, anche se chi era al vertice Onu in Scozia racconta che il livello di partecipazione visto in Brasile non ha paragoni.
La «Marcia dei popoli», come è stata ribattezzata, chiude la prima settimana dei negoziati e segue due manifestazioni guidate nei giorni scorsi dai movimenti indigeni del Sudamerica, decisi a non far ignorare ancora le proprie voci mentre il mondo discute di come frenare il riscaldamento globale.
Tra i momenti più teatrali del corteo c’è stato il funerale ai combustibili fossili: persone vestite a lutto, marionette spettrali alte diversi metri e tre grandi bare con scritto «carbone», «petrolio» e «gas». Una delle attrici ha spiegato: «La nostra vita dipende dall’eliminazione dei combustibili fossili. I nostri figli dipendono dalla nostra lotta».
TRA CARRI, MASCHERE, striscioni e cori, alcuni elementi hanno catturato l’attenzione mediatica: i cartelli e i canti per la Palestina; un serpente lungo trenta metri – un cobra, doppio senso tra l’animale sacro per molti popoli amazzonici e la parola portoghese che significa «paga»; uno striscione con scritto: «Il collasso ambientale è capitalista: Lula, la transizione energetica con il petrolio amazzonico è una farsa»; e, poco oltre, un camion che diffondeva le note di Bella ciao.
Alla manifestazione hanno partecipato sindacati, collettivi studenteschi, congregazioni francescane, ong e associazioni locali. Tra loro anche la Rete delle favelas sostenibili, che chiede misure di adattamento nelle periferie urbane e ha lanciato una carta già firmata da oltre duecento rappresentanti degli insediamenti informali di tutto il mondo.
UN GIOVANE della favela João Telles de Menezes, di Rio de Janeiro, ha raccontato al manifesto: «Le decisioni calate dall’alto non servono alla nostra realtà. Vogliamo misure concrete per rendere più vivibili i nostri quartieri. Un esempio sono i tetti ricoperti di piante per abbassare la temperatura delle nostre abitazioni».
Mentre fuori si marciava, dentro la Cop30 la discussione più spinosa è quella riguardante una roadmap globale per l’uscita dai combustibili fossili. Secondo fonti brasiliane, Lula vuole arrivare a un piano formale già a Belém, ma il presidente della Cop, André Corrêa do Lago, continua a raffreddare le aspettative, lasciando intendere che i tempi potrebbero non essere maturi.
IL FRONTE FAVOREVOLE però cresce. Francia, Germania, Colombia, Isole Marshall, Regno Unito e Kenya sono tra i Paesi che sostengono apertamente una roadmap e,
Leggi tutto: I popoli in marcia sognano l’addio ai combustibili fossili - di Novella Gianfranceschi
Commenta (0 Commenti)Mentre la Russia scatena gli attacchi più pesanti su Kiev, uccidendo civili e spegnendo le centrali elettriche, lo scandalo della corruzione sugli aiuti internazionali si allarga e si avvicina a Zelensky. L’Europa è spiazzata e il governo italiano diviso. Salvini: basta soldi all’Ucraina
Volodymyr Kudrytskyi, ex amministratore delegato di Ukrenergo – foto Getty Images
Mentre a Kiev e nelle altre regioni ucraine si contano ancora i morti e i danni causati dagli attacchi russi di ieri, Volodymyr Zelensky e i suoi funzionari si sono affrettati a chiedere nuovamente armi. Tante, a lungo raggio e subito. Ma l’enorme scandalo legato alla corruzione che ha letteralmente travolto il governo ucraino non si placa e dopo i legami con i vertici di Energoatom, la società statale dell’energia atomica, si allarga alla Difesa. Intanto il Kyiv Independent, a sorpresa, pubblica un’intervista che scoperchia una faida interna ai vertici dell’esecutivo e punta il dito contro lo stesso Zelensky.
VOLODMYR KUDRYTSKYI, ex amministratore delegato di Ukrenergo, la compagnia statale dell’energia elettrica, il 10 novembre – quindi il giorno della pubblicazione delle intercettazioni da parte dell’Ufficio nazionale anti-corruzione (Nabu) e della Procura speciale anti-corruzione (Sapo) – ha dichiarato: «L’ufficio del presidente sapeva che questa indagine era imminente» e, per questo, «volevano trovare rapidamente un capro espiatorio, nella speranza di evitare questa tempesta di merda». Infatti, nella logica di Kudrytskyi (che evidentemente è anche la sua strategia difensiva) il suo arresto di due settimane fa, con l’accusa di «non aver protetto le infrastrutture ucraine dagli attacchi russi» ha motivazioni «politiche». È il classico scaricabarile. La questione è tutt’altro che marginale perché le infrastrutture energetiche ucraine sono prese costantemente di mira dai russi e si stima che, in seguito agli ultimi attacchi, la capacità di produzione ucraina si è ridotta del 60% rispetto allo scorso anno (che era già il 2° di guerra). Centinaia di migliaia di ucraini sono stati o sono attualmente al buio, in un Paese dove d’inverno il termometro scende anche sotto i -20°. «Ma invece di assumersi la responsabilità, Zelensky ha cercato di proteggere i funzionari corrotti fedeli a lui, come Galushchenko» sostiene Kudrytskyi. Inoltre, il gruppo al comando del Paese «potrebbe perseguire chiunque non sia abbastanza silenzioso e leale», persino la Nabu, «arrestando investigatori o diffamandola come filo-russa» e potrebbe anche «perseguire i critici del governo».
LA VICENDA di Kudrytskyi rientrava già nelle decisioni criticate dal governo Zelensky in quanto il funzionario era stato allontanato da Ukrenergo nel 2024 per malversazione, ma si era difeso sostenendo che «individui corrotti avevano cercato di prendere il controllo dell’azienda» e la sua difesa era stata sostenuta dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo che aveva dichiarato: «Il suo licenziamento ha gettato un’ombra sulla reputazione dell’Ucraina in termini di governance aziendale».
QUANDO L’INDAGINE della Nabu è diventata di dominio pubblico, facendo rapidamente il giro del mondo e offrendo ai propagandisti russi e ai loro sodali una rara opportunità di biasimare l’Occidente per la sua miopia – «Vedete dove finiscono i vostri fondi per le armi e il sostegno all’Ucraina?» – Zelensky e i suoi si sono subito schierati con la Nabu chiedendo che «i colpevoli fossero puniti velocemente» e senza sconti. «Senza fare nomi però» sottolinea il quotidiano ucraino. Due giorni dopo, il 12 novembre, il ministro della Giustiza Herman Galuhchenko e la ministra dell’Energia Svitlana Grynchuk sono stati sospesi e si sono dimessi. Il 13 Zelensky ha sanzionato il suo ex-socio Timur Mindich, co-proprietario della società di produzione tv che l’aveva reso famoso (Kvartal 95), e Oleksandr Tsukerman, oligarca con le mani in pasta in diversi settori molto lucrativi.
IERI LA PREMIER Yulija Svrydenko, fedelissima del presidente e, secondo i critici del governo, messa al suo posto per volontà del Mazzarino di Kiev, Andriy Yermak, ha annunciato una
Leggi tutto: L’ex ceo di Ukrenergo accusa. Zelensky: «Protegge i suoi» - di Sabato Angieri
Commenta (0 Commenti)All’Europarlamento la maggioranza Ursula va in frantumi, i popolari votano con tutte le destre, anche le più estreme, per smantellare un altro tassello del Green deal. Non è la prima volta, ma non era mai successo per un atto legislativo. Socialisti sotto shock
Black deal Al Parlamento Ue i popolari votano con l’estrema destra e affossano la sostenibilità per le imprese
Il Partito popolare europeo vota con l’estrema destra, spaccando la maggioranza Ursula. I socialisti protestano ma non vanno alla rottura, mentre i popolari, a cose fatte, gettano acqua sul fuoco. L’intesa a destra si consuma sul passaggio parlamentare delle leggi sulla responsabilità e rendicontazione delle multinazionali (o due diligence): due direttive concepite per la tutela ambientale e dei diritti dei lavoratori che la Commissione ha proposto di semplificare attraverso il primo dei cosiddetti provvedimenti Omnibus. L’Eurocamera ha approvato con 382 voti a favore, 249 contrari e 13 astenuti. Ai voti del Ppe si è unito quello del gruppo Ecr, guidato da FdI, e dei Patrioti, di cui fanno parte gli eurodeputati della Lega oltre a quelli di Le Pen e Orbán, con il supporto anche del gruppo delle nazioni sovrane (Esn), costruito intorno alla tedesca Afd.
È la prima volta che un file legislativo viene approvato dal Parlamento con l’appoggio della coalizione alternativa sbilanciata a destra. Finora la cosiddetta «maggioranza Venezuela» si era materializzata per approvare mozioni, ovvero atti di indirizzo ma non vincolanti. Questa invece è tutta un’altra storia.
I REGOLAMENTI ambientali escono enormemente depotenziati dal passaggio in aula. Su vari punti l’asticella del controllo si è ulteriormente abbassata. La direttiva si applicherà ora solo alle aziende con oltre 5.000 dipendenti e con un fatturato netto superiore a 1,5 miliardi, via l’obbligo per le imprese di richiedere informazioni sulla sostenibilità della filiera alle aziende partner, via anche la richiesta alle imprese di preparare un piano di business compatibile con gli obiettivi climatici stabiliti dagli accordi di Parigi. Il leader Ppe Manfred Weber legge il risultato come «il giorno della fine della burocrazia europea» e con lui presidente Ecr Nicola Procaccini esulta per il «ritorno del buonsenso».
La due diligence era già stata oggetto di scontro politico in commissione parlamentare Ambiente. Il compromesso al ribasso, raggiunto un mese fa aveva portato alle dimissioni della relatrice S&D, la laburista olandese Lara Wolters, segnale del costante disagio dei progressisti, tenuti sotto scacco dalla minaccia Ppe di formare una maggioranza alternativa con l’estrema destra. Quel compromesso così tormentato non ha però retto la prova dell’aula lo scorso 22 ottobre. Ma la bocciatura, salutata come un sussulto di onorabilità ecologista da parte degli eurodeputati di sinistra, ha aperto le porte al risultato di ieri, rivelandosi una vittoria di Pirro.
Non infierisce, anzi minimizza, l’eurodeputato svedese Joergen Warbom, responsabile per il Ppe del dossier semplificazione. Assicura di voler tornare a collaborare con gli altri partiti della cosiddetta piattaforma (composta, oltre ai popolari, da S&D e Renew). Poi relega l’accaduto a una mera necessità, notando che «se non è possibile raggiungere una maggioranza, in qualche modo dobbiamo trovarla».
È VERO CHE su un altro voto chiave di ieri, quello sulla Legge clima e i target di riduzione delle emissioni del 90% al 2040, ha retto l’accordo sulla
Leggi tutto: La maggioranza Ursula vede nero, il verde passa di moda - di Andrea Valdambrini
Commenta (0 Commenti)Vietati alle medie, anzi no. Ma serve il permesso dei genitori. Sulle ore dedicate alla sessualità la destra va in tilt e il ministro Valditara bersagliato alla camera dalle critiche perde le staffe: «Vergogna, sfruttate i femminicidi» e va via. Le opposizioni: «Si scusi o blocchiamo l’aula»
La mala educazione Le opposizioni bloccano il provvedimento: «Frattura tra parlamento e governo»
Il ministro Valditara alla Camera durante il question time
Un uomo entra nella Camera dei deputati, urla, insulta i parlamentari e se ne va. Sarebbero intervenuti i questori di Montecitorio e probabilmente le forze dell’ordine se si fosse trattato di una persona qualunque. Ma era un ministro della Repubblica e non è stato allontanato dall’Aula.
LA GIORNATA DI IERI del leghista Giuseppe Valditara si è rivelata un assurdo per le istituzioni. Il ministro dell’Istruzione (e merito) chiamato a riferire sulla legge sull’educazione sessuoaffettiva, dopo la parziale retromarcia del suo partito, è arrivato in ritardo e senza sentire gli interventi precedenti, ha preso la parola urlando: «È stato detto che con questo disegno di legge impediremmo l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole, di informare i nostri giovani sui rischi delle malattia sessualmente trasmesse: è falso». «Sono indignato che abbiate detto che questa legge impedisca la lotta contro i femminicidi», ha continuato, per poi gridare all’indirizzo delle opposizioni: «Vergognatevi!». Poi ha lasciato la Camera per recarsi in Puglia per la campagna elettorale.
IN AULA È SCOPPIATA la bagarre anche perché le frasi incriminate non erano state pronunciate negli interventi precedenti. «Chiedo formalmente di richiamare il ministro», l’invito inascoltato del deputato Marco Grimaldi (Avs). «Quel vergognatevi deve essere ritirato, sono parole indegne e non rispettose dell’opposizione in parlamento», l’intimazione del Pd. Ma Valditara stava già per lasciare Roma, salvo rientrare improvvisando delle scuse dopo che il capogruppo di Forza Italia, Paolo Barelli, accompagnato da altri deputati, lo ha invitato a dare un «contributo per svelenire il clima, riportando la discussione ai toni giusti». «Mi dispiace se qualcuno si è sentito offeso – ha detto Valditara -. Contestualizziamo le mie affermazioni che non erano rivolte a nessuno di voi in particolare». Un tentativo senza successo.
«MI SONO SENTITO OFFESO – ha detto il dem Bruno Tabacci -. Sono nostalgico del linguaggio parlamentare che ho studiato da Moro, Berlinguer e Almirante: c’è una retrocessione». Parla di «totale mancanza rispetto per il parlamento e «di modo rabbioso di rivolgersi alle opposizioni» il segretario di Più Europa, Riccardo Magi. «Quello che è successo è grave – ha spiegato la dem Simona Bonafé -. Si è creata una frattura tra parlamento e governo che non ci permette di andare avanti a votare questo provvedimento. Chiediamo la convocazione di una capigruppo per riorganizzare i lavori». Richiesta inizialmente non accolta, comportando una specie di ostruzionismo da parte del centro sinistra che, non avendo ottenuto né la sospensione dell’esame del ddl, né il suo ritorno in commissione, ha iniziato a intervenire in massa. Solo in serata è stata accordata la riunione richiesta, mentre la discussione dovrebbe continuare oggi. Ma «faremo in modo che il ddl slitti nelle settimane successive», la promessa del M5s.
LE LEGGE PROPOSTA dal ministro prevede l’obbligo di consenso scritto dei genitori per ogni attività scolastica, curriculare o extracurriculare, inerente tematiche sulla sessualità e
Leggi tutto: Educazione affettiva: lo show in aula di Valditara con insulti - di Luciana Cimino
Commenta (0 Commenti)Non regge il minimo Respinto un ricorso legale da parte di Svezia e Danimarca contro un’«ingerenza» di Bruxelles. La sentenza penalizza gli sforzi per salari equi. Sul lavoro povero l’Italia è senza strumenti
Leggi ancheSalario minimo, cala il sipario. La rivolta delle opposizioni
Flash mob al Senato per il salario minimo – foto La Presse
In una sentenza con importanti implicazioni per i salari in tutto il continente, la Corte di giustizia europea ha mantenuto ieri una parte significativa della direttiva europea sul salario minimo, respingendo un ricorso legale da parte di Svezia e Danimarca, che sostenevano un’eccessiva ingerenza da parte dell’Unione Europea. Pur avendo ritenuto che la direttiva fosse sostanzialmente conforme ai Trattati Ue e avesse mantenuto la maggior parte delle tutele della contrattazione collettiva, la Corte ha annullato la disposizione che elencava i criteri di cui gli Stati membri con salari minimi legali devono tenere conto nella definizione e nell’aggiornamento di tali salari, nonché la norma che impedisce la riduzione di tali salari in caso di indicizzazione automatica. L’annullamento di queste misure non è utile per i futuri sforzi volti a tutelare salari equi.
QUEST’ULTIMA osservazione è stata avanzata dal gruppo «The Left» al parlamento europeo e traduce una doppia preoccupazione. La Corte Ue ha indebolito la già incerta capacità della legislazione europea di portare i governi nazionali ad adottare un salario minimo, oltre che di aggiornarlo. In secondo luogo la Corte Ue ha escluso che i salari minimi recuperino l’inflazione lì dove sono in vigore. Di solito sono i governi a prendere simili decisioni, teoricamente consultando le «parti sociali». Tuttavia, un simile indebolimento della direttiva Ue non aiuterebbe chi sostiene l’indicizzazione dei salari, per di più in un momento della loro più forte compressione, mentre i profitti non tassati manifestano una grande esuberanza in Europa, e ovunque.
LA DECISIONE della Corte di giustizia «rafforza il modello sociale europeo, basato su salari equi e adeguati e su una solida contrattazione collettiva – ha detto la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen – Perché porta sia equità sociale che benefici economici. Questa è una buona notizia per i lavoratori, soprattutto per quelli con salari bassi, e per i datori di lavoro in tutta Europa che pagano salari equi. Una pietra miliare». Dichiarazione, quella di von der Leyen che suona più che altro formale, e non risponde alla realtà. In tutta Europa, i salari hanno perso potere di acquisto a causa dell’inflazione da profitti e la contrattazione soffre di una pesante crisi. Per non parlare dell’Italia dove un salario minimo non esiste nemmeno, i salari sono bloccati da trent’anni e la contrattazione non riesce a recuperare l’inflazione accumulata nel 2022 e 2023. In questa situazione rispolverare le antiche vestigia del «pilastro sociale», come ha fatto von der Leyen, è uno sberleffo. Il «pilastro», che conterrebbe tra l’altro un reddito minimo europeo, oggi giace sepolto sotto le macerie di un Europa avviata verso l’economia di guerra.
IL PRONUNCIAMENTO della Corte Ue è stato recepito con soddisfazione dai partiti dell’opposizione e dai sindacati come Cgil e Uil. Tutti hanno
Leggi tutto: Corte Ue: il salario minimo è valido, Meloni è immobile - di Roberto Ciccarelli
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