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Viminale. Si dimette il capo dipartimento libertà civili e immigrazione. Era stato prefetto a Reggio Calabria dal 2017 al 2019. L’ex sindaco del borgo calabrese: «Quando arrivò in prefettura per noi cambiò tutto»

L'ex sindaco di Riace Mimmo Lucano

L'ex sindaco di Riace Mimmo Lucano

«Umanamente mi dispiace per la moglie (Rosalba Bisceglia ndr) perché è una storia di sofferenza che io rispetto anche e soprattutto alla luce del principio di innocenza, che sulla carta dovrebbe valere per tutti», dice Mimmo Lucano dopo le dimissioni del capo dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale Michele Di Bari. L’ex sindaco di Riace lo conosce bene perché dal 2017 al 2019 è stato prefetto a Reggio Calabria e ha gestito il caso Riace. «Le mie critiche sono state sempre di natura politica e le sue dimissioni la dimostrazione che la luce si fa strada da sola».

Lucano, lei non è mai stato tenero con Di Bari. Come giudica le sue dimissioni di ieri?

L’inchiesta che vede coinvolta la moglie è indubbio che abbia creato in lui un qualche imbarazzo da cui pensa di sottrarsi rassegnando le dimissioni. Ma il problema è di natura politica. Troppi misteri si sono annidati nella prefettura di Reggio quando a guidarla era Di Bari. Prima che lui arrivasse, Riace aveva avuto sempre rapporti molto stretti con la prefettura perché era sempre disponibile ad accogliere a tutte le ore i migranti. Un filo diretto tra istituzione e seconda accoglienza che funzionava. Poi, con il cambio al vertice, tutto è iniziato a mutare. La prefettura è diventato luogo ostile, era impossibile comunicare con i funzionari. In quel tempo la notorietà acquisita da Riace era alta e aveva attirato l’attenzione mondiale. Sono iniziate le ispezioni della Guardia di Finanza, dei funzionari prefettizi. Quattro relazioni in poco tempo, due a favore e due contrarie. Una di queste, quella più favorevole dove si descrive il modello di accoglienza di Riace, così come lo raccontava il mondo intero, è sparita. Abbiamo aspettato un anno con incessanti richieste formali dei miei legali prima di poterla leggere per intero. Un giorno mi presentai con padre Zanotelli in prefettura e Di Bari si rifiutò di incontrarci. Mentre fu molto solerte e puntuale nel firmare l’autorizzazione a una manifestazione neofascista a Riace. Portarono le bandiere nere fin sotto al Comune. Una vergogna.

Matteo Salvini ha attaccato duramente la ministra degli Interni. Parla di «disastro Lamorgese» e ne chiede le dimissioni immediate. Che ne pensa?

Penso che è capace di tutto, anche di smentire se stesso. Ma se è stato lui a nominare Di Bari capo dipartimento del Viminale, cosa vuole ancora? Era stato lo stesso prefetto a firmare l’ordine di demolizione della baraccopoli di San Ferdinando. Quando Salvini si presentò con le ruspe c’era al suo fianco proprio Di Bari. È uno scandalo che Di Bari sia stato confermato al vertice del dipartimento Immigrazione anche dai governi Conte e Draghi. Le piaghe del caporalato, del neoschiavismo, delle baraccopoli come Rosarno e Foggia sono i frutti marci di una politica delle migrazioni fallimentare. Io continuo a girare per l’Italia per raccontare Riace. Per parlare degli sfruttati, rievocare Becky Moses, Soumaila Sacko e gli altri martiri della Piana. Perché, malgrado la procura di Locri, il prefetto Di Bari e gli altri personaggi che l’hanno affossata, Riace è per sempre.

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L'appello. L'Alleanza contro le povertà ai politici che discuteranno il reddito di cittadinanza e nella legge di bilancio introdurranno nuovi limiti e condizioni contro i poveri. La proposta di otto modifiche. Il rischio di trasformare la misura in una dura politica di Workfare già pensata in questi termini dai Cinque Stelle e dalla Lega tre anni fa. E Landini polemizza con Bonomi di Confindustria che vuole abolire il "reddito"

Una manifestazione per l'estensione del

Una manifestazione per l'estensione del "reddito di cittadinanza" verso il "reddito di base"

«Mentre l’attenzione mediatica si focalizza su furbetti e truffatori, la politica pensa soltanto a mettere qualche risorsa in più e ad annunciare controlli sul reddito di cittadinanza . Perché? Perché è più facile! Perché il tornaconto elettorale si misura meglio con bonus immediati, non importa se ingiusti, che con una riforma». La politica sociale al tempo del «governo dei migliori» in Italia, un paese chiamato Draghistan, è stata riassunta da Gianmario Gazzi, presidente dell’Ordine Assistenti Sociali Consiglio Nazionale (Cnoas) durante una conferenza stampa dell’Alleanza contro la povertà alla stampa estera. «Il “governo dei migliori” è riuscito a scontentare tutti: persone, professionisti, terzo settore, mondo del lavoro, volontariato. Noi che siamo quotidianamente con i più vulnerabili diciamo chiaro che i poveri sono usati e non aiutati».

«Il reddito di cittadinanza ha dimostrato di avere un ruolo decisivo per contrastare le povertà – ha detto Domenico Proietti, segretario confederale Uil – Metterlo in discussione sarebbe una tragedia per milioni di persone e per la tenuta sociale del paese. Solo chi è in profondissima malafede può disconoscere questi risultati, proponendone l’abolizione». Ancora ieri, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi si è unito al coro degli «abolizionisti». Maurizio Landini, presente all’incontro dell’Alleanza contro la povertà di cui anche la Cgil fa parte, lo ha criticato. »Bonomi ha trovato il modo di unirsi al coro di chi vuole cancellare il reddito di cittadinanza e che credo sia inaccettabile: la povertà non è una colpa ma è frutto di un modello sociale ingiusto da cambiare».

«Basta con le narrazioni tossiche», «la povertà non è un crimine». Questo è l’appello dell’Alleanza contro la povertà, una rete composta da 38 associazioni, che ieri si è rivolta alla maxi-maggioranza del governo Draghi che, nella legge di bilancio, introdurrà nuovi paletti, limiti e penalità contro i beneficiari del «reddito». «Noi riteniamo che questa misura così sia insufficiente – ha detto Roberto Rossini, il portavoce della rete – è erogata a poco più di 3,5 milioni di persone mentre per l’Istat i poveri assoluti sono 5,5 milioni. Il dibattito sulla povertà non può essere ridotto a un difetto della legge, in particolare al tema dei “furbetti”. Torniamo al contenuto delle questioni». Le proposte dell’Alleanza mirano a rimuovere il vincolo che esclude gli stranieri extracomunitari residente in Italia da meno di 10 anni. «Non esiste in nessun paese» ha detto Antonio Russo (Acli). Si chiede ai politici di cambiare la scala di equivalenza del reddito Isee che penalizza le famiglie numerose, allentare il vincolo aggiuntivo sul patrimonio mobiliare che esclude dall’accesso e rendere volontari, e non obbligatori, i Progetti utili alla collettività (Puc) che possono trasformarsi in lavori servili.

Stando a quanto prevede la legge, il cosiddetto «reddito di cittadinanza» è in realtà una dura politica di Workfare che può trasformarsi in lavoro servile,

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Quirinale. Nel caso di un premier dimissionario, a gestire la crisi dovrebbe essere Mattarella prima della fine del mandato e dell’insediamento del nuovo presidente

 

Il capo dello Stato viene eletto dal Parlamento in seduta comune integrato dai delegati delle Regioni. Quest’organo deve individuare la persona che ritiene sia in grado di svolgere il ruolo di garante politico della Costituzione per il lungo periodo di sette anni. Questo dice la nostra Carta e da qui dovremmo partire se volessimo – come dovremmo – ragionare per principi e non per immediate convenienze.

La discussione, invece, è dominata dalla ricerca di un candidato che sia in grado di garantire, nel breve periodo, gli attuali assetti di potere, assicurando una continuità di indirizzo politico e la regolare conclusione della legislatura. Visioni miopi che rischiano di piegare le logiche della Costituzione a quelle dalla politica.
Così è solo per la personale sensibilità costituzionale del presidente Mattarella che è venuta meno un’ipotesi disinvoltamente perseguita che avrebbe sì garantito lo status quo, ma a scapito della tenuta futura del sistema costituzionale. Infatti, la rielezione dell’attuale titolare della carica presidenziale, dopo il precedente di Napolitano, avrebbe finito per scardinare il sistema che la nostra costituzione ha stabilito per assicurarne l’indipendenza e l’autonomia.

Pur se non si è esplicitamente prevista la non rieleggibilità (ed è stato un male), il semestre bianco e la nomina a senatore di diritto e a vita alla scadenza del mandato indicano una chiara direzione di rotta e segnano la volontà di assicurare un fisiologico ricambio al vertice dello Stato. Con la rielezione come ipotesi ordinaria (due eccezioni fanno regola) il presidente della Repubblica diventerebbe titolare di un potere senza un termine certo, la cui possibile conferma finirebbe per rappresentare solo una variabile dipendente dalle esigenze tattiche del momento. Bene ha fatto Mattarella a respingere questo scenario.

Diversa, ma non troppo, l’ipotesi ora accarezzata dai più: il trasloco di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. In questo caso, in termini di stretto diritto costituzionale, la perplessità deriva dalla motivazione espressa a sostegno di tale elezione. L’attuale presidente del Consiglio – si afferma – sarebbe il miglior garante della continuità, tanto più visto che condizione essenziale per l’elezione al Colle è rappresentata da un necessario contestuale accordo circa il suo successore al Governo. Non vi è dubbio che in assenza di una preventiva intesa sugli assetti del nuovo governo l’elezione di Draghi sarebbe compromessa, non potendo immaginare di aprire una crisi di governo al buio, che dovrebbe poi essere governata e risolta da chi tale crisi ha causato, lasciando nel frattempo il governo dimissionario allo sbando.

Di questo mi sembra vi sia diffusa consapevolezza, tant’è che sono già state immaginate diverse modalità per assicurare una rapida risoluzione della crisi di governo. Nel caso ci sarebbe solo da auspicare che si evitino improprie sovrapposizioni tra i ruoli di “capo” del governo dimissionario e il nuovo capo dello Stato. Per questo sarebbe opportuno che a gestire la crisi fosse il presidente uscente nel breve periodo che intercorrerebbe tra l’elezione da effettuarsi prima della scadenza del mandato di Mattarella e l’insediamento del nuovo presidente.

Ma proprio queste considerazioni fanno emergere la questione di fondo. Non può porsi una continuità tra il ruolo svolto dal responsabile della politica generale del governo e quello del custode della nostra Costituzione. Al capo dello Stato spetta vigilare sui governi (e sugli altri poteri), non sostituirsi ad essi. Draghi al Quirinale, in ragione della sua nuova funzione, non potrebbe proseguire le politiche di cui è stato responsabile sino ad ora, dovrebbe cambiare pelle e farsi guardiano. Garantire e non governare.

È questo il presupposto necessario. Lo impone la nostra Costituzione che assegna al capo dello Stato il ruolo di rappresentante dell’unità nazionale ed esclude che possa essere titolare dell’indirizzo politico maggioritario. Entro questa prospettiva, costituzionalmente orientata, cadono molte delle ragioni contingenti che oggi si propongono a sostegno di una soluzione Draghi.

Rimarrebbero in piedi solo due motivi. Il primo è quello espresso da alcuni esponenti politici, i quali espressamente dichiarano di voler torcere in senso presidenziale la nostra forma di governo. Si giocherebbe con il fuoco e sarebbe questa in realtà una ragione per contrastare questa deriva. L’altro motivo, ben più solido, richiama l’autorevolezza e il prestigio acquisiti nel Paese ed in Europa dall’attuale titolare della presidenza del Consiglio, che rappresentano certamente requisiti necessari per poter svolgere il ruolo di rappresentante dell’unità nazionale.

Oltre a questi però sarebbe opportuno considerare almeno un’altra caratteristica che deve possedere il garante politico della Costituzione non solo nell’immediato, ma nel più lungo periodo. La capacità di assicurare che i poteri governanti operino nel rispetto della superiore legalità costituzionale, senza le forzature cui spesso assistiamo e che deve avere nel Presidente il suo severo guardiano. Un giuramento di fedeltà alla Costituzione vigente che valga non solo sino alla fine dell’attuale legislatura, ma anche dopo. Soprattutto dopo.

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Avanti sciopero. L’Authority: «Spostare la data». Mentre il governo trova un miliardo in più per le bollette. Cgil e Uil: «Rispetteremo le norme». E ribadiscono le richieste sul fisco

Pierpaolo Bombardieri e Maurizio Landini

Pierpaolo Bombardieri e Maurizio Landini © laPresse

Divieto di sciopero. Almeno per il 16 dicembre, data nella quale Cgil e Uil hanno proclamato la sospensione generale del lavoro. Almeno secondo l’Authority per gli scioperi, il cui presidente garante Giuseppe Santoro Passarelli ha spedito una missiva alle segreterie delle due confederazioni intimando di «riprogrammare» lo sciopero generale, con tempestiva comunicazione da inviarsi entro 5 giorni. Ma il 16 proprio non si può fare. Troppi scioperi si sono assiepati in quei giorni e viene così a essere violato il principio della «rarefazione oggettiva». E non basta. Non è rispettato neppure il «periodo di franchigia» per i servizi di igiene ambientale e per i servizi alla collettività, c’è persino una violazione del regolamento postale perché proprio in quei giorni va pagata la rata Imu. Questo sciopero non s’ha da fare.

CGIL E UIL NON SI PIEGANO. Scelgono di confermare lo sciopero escludendo però i servizi ambientali, che in base agli accordi nazionali non possono essere fermati dal 15 dicembre, e le poste, per rispettare la franchigia per l’Imu. Il mancato rispetto della «rarefazione oggettiva» invece non viene considerato, anche perché lo sciopero dei servizi ambientali del 13 è stato revocato. La replica congiunta alla lettera del garante è laconica. Cgil e Uil annunciano che «procederanno garantendo il pieno rispetto delle

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Energie. La Commissione europea, in stato confusionale, inserisce nella «strategia verde» le due fonti energetiche meno credibili per uscire dall’era fossile

Rinnovabili vs fossili: l'energia sporca non è più così conveniente -  Rinnovabili.it

La confusione non è una caratteristica della sostenibilità. I King Crimson nel lontano 1969 erano convinti che Confusion will be my epitaph, riferendosi all’opera distruttiva da parte dell’uomo nei confronti del proprio futuro, quello del XXI secolo. Oggi nel settore energetico assistiamo ad una confusione molto pericolosa.

COME SE NON BASTASSERO REGOLE contraddittorie (il Pniec ancora da aggiornare, semplificazioni che non semplificano, aree idonee e non idonee, recenti aperture sul gas del MiTe sulle posizioni di Confindustria Energia, attività di prospezione di idrocarburi, tanto per fare qualche esempio) ora assistiamo stupefatti alla ufficializzazione della decisione della Commissione Europea di inserire il nucleare ed il gas nella tassonomia verde, che decreta cosa può essere ritenuto idoneo e quindi finanziato con soldi pubblici nel percorso più critico verso la decarbonizzazione, quello dei prossimi dieci anni.

SI TRATTA DI UN FORTE elemento di incoerenza, visto che la stessa Banca Europea degli Investimenti ha deciso di non finanziare più i progetti legati al gas e che i Green Bond della Commissione Europea legati al Recovery Plan non prevedono investimenti nel gas. Inoltre l’ipotesi di nucleare viene fatta senza una trasparente evidenza dei costi e delle tecnologie realmente sostenibili a breve termine, soprattutto oggi in pieno dibattito sul costo dell’energia e sulle modifiche da apportare al mercato dell’energia.

LA CONSEGUENZA DI QUESTA CONFUSIONE è la perdita di credibilità dell’intero sistema degli investimenti verdi dell’Europa, con finanziamenti non finalizzati al FitFor55, in una fase in cui molti stati membri stanno accettando e rilanciando questi obiettivi (governo-semaforo della Germania in primis).

IL COSTO DELL’ENERGIA NON RIGUARDA solo le famiglie, ma anche le piccole e medie imprese, anche per loro appare importante l’individuazione di un meccanismo di sostegno che tenga conto del significativo aumento del costo delle materie prime. Le misure transitorie introdotte per la mitigazione di questi impatti hanno un carattere emergenziale che non risolve la questione, ed in alcuni casi non sono in linea con l’ordinamento europeo, perché riducono i costi per i clienti finali in maniera indistinta, senza considerare le reali esigenze delle diverse categorie dei clienti finali.

OCCORREREBBE AL RIGUARDO FARE SERIE riflessioni sulla necessità di valutazioni sul medio-lungo periodo, con ipotesi per la creazione di una piattaforma europea di acquisto gas in un contesto di ampi rapporti internazionali sul mercato del gas, con acquisti di quantità di energia a medio-lungo termine (dai due ai cinque anni), con una indicizzazione non trimestrale ma annuale dei prezzi e con una rivisitazione sostanziale del meccanismo di formulazione dei prezzi sul mercato elettrico.

IL PUN (PREZZO UNICO NAZIONALE) è il prezzo di riferimento all’ingrosso dell’energia elettrica che viene acquistata sul mercato della Borsa Elettrica Italiana; le sue oscillazioni sono determinanti per calcolare i costi finali dell’energia in bolletta. Ci ha ricordato recentemente Elemens di confrontare l’andamento del Pun con quello del costo del gas. Entrambi misurati in €/MWh, in poco più di dieci mesi (da gennaio a novembre 2021) hanno subito la stessa impennata, circa +420%, con lo stesso andamento nel tempo che ha fatto superare la soglia psicologica di 400 €/MWh, valore più alto mai raggiunto dal PUN in Italia.

CHE IL COSTO DELL’ENERGIA SIA determinato dal costo del gas in un mix energetico come quello italiano, è fuori di dubbio. Come fuori di dubbio sarebbe la sterilizzazione sull’aumento dei costi provocata da un minor prezzo medio dovuto all’incremento delle rinnovabili.

SE NON AVESSIMO AVUTO UNO STOP significativo negli ultimi cinque anni dello sviluppo delle rinnovabili fino a realizzare un plateau, l’incidenza delle commodity sul prezzo dell’energia sarebbe stato molto più basso. Anche il potenziamento degli strumenti per uno sviluppo accelerato dell’efficienza energetica va nella direzione giusta, perché oltre alla riduzione dell’esposizione dell’Europa alle fluttuazioni delle fonti energetiche, verrebbe ridotta automaticamente la dipendenza dell’unità di Pil dalla quantità di energia necessaria.

QUELLO DELL’EFFICIENZA ENERGETICA è un altro antidoto nei confronti del caro-energia: la potenzialità dell’efficienza energetica in questo ambito non è ancora consolidata, e questo anche da parte dell’industria, nonostante l’obbligatorietà dei bilanci di sostenibilità. Energy efficiency first ancora con il freno tirato.

IL DIBATTITO SULLE MODIFICHE del mercato dell’energia assume infine toni aspri. Punto focale del dibattito – e tema di ulteriore confusione – è il superamento o meno del sistema attuale basato sul prezzo marginale, dove i produttori di elettricità sono remunerati con il prezzo della offerta massima entrata nel pacchetto giornaliero di produzione, quest’ultima tipicamente riferita al gas, completamente slegata dalle più economiche fonti rinnovabili.

E’ UNA CONTRADDIZIONE IN TERMINI: un mercato dipendente nella sua espressione più rilevante, quella della formulazione del prezzo, dalle fonti fossili in una prospettiva di loro eliminazione. Occorre dire con chiarezza che il caro energia è causato dalla domanda straordinaria di gas su scala globale, ma anche dalla struttura del mercato elettrico europeo.

SVILUPPO DELLE RINNOVABILI SIGNIFICA anche elettrificazione, importante perché – oltre a incrementare l’uso delle rinnovabili in ogni ambito di consumo – contribuisce ad aumentare l’efficienza energetica nei confronti delle tecnologie tradizionali e riduce le spese energetiche dei consumatori che, come ha dimostrato Enel, può arrivare al 50% e oltre. Una famiglia che usa una pompa di calore per il riscaldamento e per la produzione di acqua calda sanitaria, l’induzione elettrica per la cottura dei cibi e un veicolo elettrico, arriva ad evitare più dell’80% delle emissioni di CO2.

SULLA ELETTRIFICAZIONE SI GIOCA la decisiva partita della riconversione delle nostre grandi aziende energetiche che dovrebbero chiarire al più presto il ruolo del gas nel nostro futuro immediato, relegandolo ad un elemento di transizione molto marginale.

FORSE POTREMMO SPERARE ANCORA di ribaltare la sentenza finale dei King Crimson: The fate of all mankind I see is in the hands of fools, but I fear tomorrow I’ll be crying. La confusione ha un suo costo (Stephen Stills, 1969).

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Riforme. Il leader M5S e l’esponente del Pd aprono sulla riforma elettorale. E l’ex premier dal palco di Atreju attacca Calenda e Renzi

Giuseppe Conte ad Atreju

Giuseppe Conte ad Atreju  © LaPresse

Dopo aver affermato che Silvio Berlusconi «ha fatto anche cose buone», il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte si presenta sul palco dell’edizione natalizia di Atreju, la festa di Fratelli d’Italia. In nome della «democrazia diretta» che starebbe alle radici della «forza antisistema» M5S gli viene chiesto se sosterrebbe la proposta presidenzialista di FdI. Lui dice che in questa fase non c’è spazio per una fase costituente. Propone piuttosto la sfiducia costruttiva, che «senza modificare il sistema di governo evita che si facciano ‘crisi al buio’», la fiducia a camere congiunte per evitare la possibilità che un ramo del parlamento pregiudichi l’azione del governo e la revoca dei singoli ministri.

POI SI ESPRIME sulla legge elettorale «Non esiste quella ideale – spiega – In questa fase ci sono differenti sensibilità in entrambi gli schieramenti. Io non le negherei, dunque sono per il proporzionale con soglia di sbarramento al 5%». In mattinata, Goffredo Bettini aveva espresso un’opzione analoga, peraltro riferendosi con gli scontri interni al campo largo che Enrico Letta vorrebbe in alternativa al centrodestra. «Sulla legge elettorale dico: proporzionale, proporzionale e ancora proporzionale», afferma Bettini. Che sottolinea «la difficoltà di costituire una realtà dei cosiddetti riformisti per svolgere un ruolo positivo, mentre oggi svolgono soprattutto un ruolo di incursione negativa nei confronti del Pd e degli altri partiti». Dunque, «ognuno deve riconquistare un suo profilo e le alleanze si faranno dopo la campagna elettorale, quando ognuno misurerà la sua forza».

PARLANDO ALLA FESTA del partito di Giorgia Meloni, Conte rigetta l’ipotesi che questa legislatura prosegue per inerzia e per procrastinare il taglio dei parlamentari: «Non bisogna dire che gli attuali parlamentari sono abbarbicati alla poltrona. Ve lo dice uno che ha rifiutato di candidarsi, ed è la terza volta». Poi, a proposito del collegio Roma I e della sfida di Calenda, cita un tweet col quale il leader di Azione dichiara la sua missione di tenere il M5S fuori dal governo. «La nostra democrazia cresce se ci sono interlocutori che non scrivono queste cose – commenta Conte – Non sono io ad avere problemi con Renzi e Calenda, sono loro ad averli con me».

SUL QUIRINALE, Conte non esclude un profilo di centrodestra. «Più la discussione si amplia a tutte le forze politiche più avremo la garanzia che il livello sarà elevato anche sul piano morale». Che il «piano morale» sia quello decisivo, conferma successivamente, significa evitare discriminanti politiche. Si tiene vaghissimo sui riferimenti ideali del suo M5S: «Nel nostro Pantheon ci sono tutti gli italiani che hanno onorato la storia patria». Ma in fondo non è l’unico a barcamenarsi: è ospite di un evento che mescola certo immaginario fantasy di cui la destra postfascista si è appropriata con la difesa delle tradizioni minacciate dalla presunta cancel culture.

A QUESTO PUNTO gli viene chiesto quali sarebbero le «cosa buone» fatte da Berlusconi. Domanda scivolosissima, viste le origini del M5S. «Berlusconi a interpretato il sentimento generale e ha avuto un grande consenso – risponde Conte – Ha avuto la capacità di interpretare il desiderio di bipolarismo. Ha contribuito in questo modo a spingere partiti che erano più a destra verso l’area di governo». Poi il giudizio sul suo successore a Palazzo Chigi: «A Draghi riconosco il merito di aver continuato ad applicare politiche espansive. Io ho dovuto superare sette camice da presidente del consiglio per superare il dogma del rigorismo». Conte dice chiaramente di sentirsi parte di uno schieramento progressista ma non rinuncia a lanciare segnali al popolo della destra, come sul tema della giustizia: «L’ergastolo ostativo è fondamentale e su questo sono contento di essere d’accordo con Fratelli d’Italia, non dobbiamo cedere» dice strappando qualche applauso. Significa che firmerebbe i referendum sulla giustizia? «Li ho scorsi molto frettolosamente – risponde – Alcuni li potrei sottoscrivere, ma in generale mi pare ci sia una sorta di rivalsa del potere politico su quello giudiziario, sono d’accordo che quest’ultimo deve muoversi nella legalità e interpretare lo stretto diritto. Ma in quei referendum c’è una prospettiva in cui si rivendica il primato della politica e si pensa di dare qualche scappellotto alla magistratura».Riforma elettorale

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