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Sinistra. Ma le migliori esperienze politiche, civiche e sociali ci guadagnano poi qualcosa dall’essere “costrette” nella camicia di forza di una scheda o di un simbolo improvvisato?

 

Vorrei iniziare da un singolare paradosso, a proposito della discussione sul “piccolo mondo antico” della sinistra aperta dal manifesto: molte forze che attribuiscono la massima importanza alle pratiche del conflitto sociale, ai movimenti di lotta, alla creazione e allo sviluppo di forme di auto-organizzazione, solidaristiche e mutualistiche, ebbene, molto spesso queste stesse forze sembrano preda di una sorta di sindrome elettoralistica, prigioniere di un appiattimento politicistico. La domanda da porsi è: ma le migliori esperienze di vitalità politica, civica e sociale, che pure ci sono nel nostro paese, ci guadagnano poi qualcosa dall’essere “costrette” dentro la camicia di forza di una scheda elettorale o di un simbolo più o meno improvvisato? O addirittura, stando poi ai modesti risultati spesso ottenuti, non si rivela la corsa elettorale una scelta persino controproducente, che provoca contraccolpi di delusione e frustrazione?

Il presupposto di questa vorticosa ricerca di un “posto al sole” su una scheda elettorale è facile da individuare: in fondo, si pensa che per esistere politicamente bisogna essere “visibili” e che, soprattutto, la propria identità (o meglio, “micro-identità”) non abbia altro modo di farsi valere, se non appunto quello di apparire e misurarsi in una gara elettorale, “rispecchiandosi” in un simbolo presente sulla scheda, con una sorta di deriva narcisistica.

Tutto ciò si lega alla questione annosa del “voto utile”. Puntualmente, alla vigilia delle elezioni c’è sempre qualcuno che con tono indignato protesta contro “il ricatto del voto utile”. Ma scusate, non vi sembra un puro alibi? Conoscete voi un elettore a cui non importi l’effetto che può produrre il proprio voto? O che non consideri la possibile efficacia (o inefficacia) di questo suo voto? Va anche detto – senza troppi giri di parole – che gli elettori-abitatori del nostro “piccolo mondo antico”, quelli a cui interessa solo l’espressione della propria identità, questi elettori sono oramai una infima minoranza, e lo saranno sempre più.

Nel lontano 1977 Gianfranco Pasquino e Arturo Parisi inventarono una fortunata classificazione delle tipologie di voto (voto di appartenenza, di scambio, di opinione), ampiamente utilizzata per molti decenni. Allora aveva senso parlare del voto anche come espressione di un’appartenenza ideologica. Era un fatto reale, di massa: si “era” e ci si “sentiva” comunisti, socialisti, democristiani, ecc.. Con il passare dei decenni, le logiche di identificazione si sono fatte sempre più labili, fino a sparire del tutto, quanto meno come canale primario di orientamento della scelta di voto.

A questo punto, è evidente che anche l’elettore di sinistra più radicale nelle sue convinzioni tenderà sempre più a non affidare al momento del “voto” l’espressione esclusiva della propria identità. Si vota piuttosto per ragioni molto più pragmatiche: ad esempio, certo, anche per evitare il “peggio”: e vi pare poco? Tra l’altro è chiaro che la frammentazione dell’offerta a sinistra finisce solo per favorire il voto al Pd: almeno si sa cosa ci si può aspettare.

Come se ne esce, in vista delle elezioni politiche del 2023? Al di là dello sconfortante florilegio di falci e martelli, deve far riflettere anche l’esito mediocre di tante liste, pur nate dalle migliori intenzioni, che sperano di esprimere un fermento civico, che viene percepito ma che non riesce a darsi una vera traduzione politica. Ci sono, è vero, molte esperienze positive di liste di sinistra, o civiche-ecologiste, che hanno ottenuto dei buoni risultati: ma questo accade sopratutto alle elezioni comunali (e in qualche caso, regionali), quando la logica delle coalizioni permette a queste esperienze di stare dentro comunque una possibile azione di governo, dentro il famigerato “campo” del centrosinistra. Pura subalternità? O piuttosto la voglia di stare dentro una partita e, quando se ne hanno la capacità e le forze, di farle pesare (il che, ovviamente, non sempre accade)?

Se ne dovrà riparlare, qualora cambiasse la legge elettorale; ma, nel caso restasse quella attuale, è bene essere molto netti: al di fuori di un’ampia coalizione democratica, non c’è spazio o speranza di successo, neanche per l’ennesima lista-cartello della sinistra che, ancora una volta, si cercherà metter su alla viglia delle elezioni. E a coloro che proprio pensano di non potere avere proprio nulla a che fare con il Pd, si può solo rispondere in modo disincantato: evitiamo di attribuire a queste coalizioni un valore identitario, che non hanno e non possono avere.

Ma allora a che servono? Possono servire a molte cose, ma ad una in particolare: marcare una presenza istituzionale che può aiutare lo sviluppo dei movimenti e di nuove esperienze “dal basso”. A questo proposito, una piccola notazione finale. Nel suo intervento, Giuliano Granato, di Potere al Popolo, rivendica con orgoglio tutto il lavoro svolto da PaP, citando anche un’iniziativa legislativa condotta insieme al “nostro senatore Mantero”. Pap, alle politiche del 2018, con l’1,13% dei voti, non elesse alcun parlamentare: come si può parlare allora di un “nostro” senatore? Semplicemente, perché Matteo Mantero, eletto con il M5S, ha poi aderito a Pap. Nulla di inconsueto, ovviamente: però questa dinamica può suggerire qualcosa, ossia la distinzione tra una rappresentanza istituzionale che passi solo dal voto e la costruzione di relazioni di rappresentanza politica che possono anche prescindere dalla competizione elettorale.

Non sarebbe, ad esempio, possibile concepire in modo pragmatico quelli che potremmo chiamare “patti di rappresentanza”, cioè forme di accordo tra mondi sociali, associazioni, o anche piccole formazioni politiche, da un lato, e le formazioni politiche più consistenti, che sono in grado di eleggere alcuni loro esponenti (sicuramente il Pd, il M5S, ma anche una lista-cartello di sinistra in grado di prendere almeno il 3%), con l’obiettivo di costruire, nella reciproca autonomia, relazioni stabili di rappresentanza politica con i propri mondi sociali si riferimento? Non si eviterebbe da un lato la dispersione di voti e dall’altro l’afasia politica di esperienze che meritano una sponda e un riconoscimento istituzionale?

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La Camera dei deputati

La Camera dei deputati © LaPresse

Il voto sul Ddl Zan – ha scritto su queste pagine Norma Rangeri – ha mostrato tutta l’arretratezza del nostro Parlamento rispetto alle spinte innovatrici provenienti dalla società. Penso sia vero, ma non ritengo ci si possa fermare a questo crudo giudizio. Almeno un altro paio di corollari disegnano il quadro.

In primo luogo, la società non può interpretarsi in termini unitari, assistiamo anzi alla sua progressiva divisione. Alle straordinarie manifestazioni in difesa dell’ambiente, dei diritti civili, del lavoro, si affiancano manifestazioni assai meno apprezzabili, in difesa degli interessi più retrivi. L’estendersi degli atti di violenza contro le persone fragili, la perdita del senso di solidarietà, il riapparire di ideologie votate all’odio non devono essere sottovalutate. La lotta per affermare entro la comunità, dentro le coscienze collettive e dei singoli, i valori di civiltà e di progresso è ancora lunga e ci impedisce di affidarci solo alla “nostra” parte di società.

In secondo luogo, l’osservazione della distanza ormai abissale tra il Parlamento e i bisogni che attraversano la società non può che essere intesa come un drammatico problema cui farsi carico. Purtroppo non possiamo fare a meno della rappresentanza politica ed istituzionale, poiché l’alternativa al parlamentarismo è l’autocrazia, che oggi è ben visibile.

Per questo la constatazione, vera ma drammatica, della pericolosa distanza tra il Palazzo e la Piazza ci impone di interrogarci su come salvare il Parlamento. Riavvicinare la società alle istituzioni democratiche sembra essere un compito che non può essere eluso, tanto meno dai più critici. Le lotte sociali se non trovano sbocco entro le istituzioni democratiche finiscono per esaurirsi, generare frustrazione, ribellione, sdegno, e – infine – regressione.

Dobbiamo allora essere strabici, attrezzarci per una doppia battaglia: dentro la società per dare coscienza alle persone, dentro le istituzioni per riuscire a tradurre i “fatti” (sociali) in “norme” (politiche). Una prospettiva che deve superare alcune pur legittime ritrosie, ma che deve essere perseguita nella consapevolezza che non esistono scorciatoie. Non è facile convincere la società civile – neppure la migliore e più impegnata – che non si può abbandonare il campo istituzionale, nonostante i suoi ripetuti tradimenti (il Ddl Zan è solo uno dei tanti casi di aspettative disattese). Non è facile neppure convincere chi opera nelle istituzioni – neppure i migliori e più impegnati – che non si ha legittimazione a governare se non si dà ascolto alla nazione che si rappresenta.

Questo reciproco disconoscimento non è il frutto di semplice incomprensione, trova la sua ragione nell’indebolirsi dell’idea fondante il nostro Stato democratico dell’esercizio della sovranità popolare nelle forme e nei limiti della Costituzione. Una Costituzione che afferma la centralità del parlamento e il diritto di tutti i cittadini di associarsi per concorrere a determinare la politica nazionale.

Sono ben note le cause di tale progressivo scostamento: quelle sociali legate all’imporsi del neoliberismo come unica forma di sviluppo, che sottrae alle persone la possibilità di essere padrone del proprio futuro; quelle istituzionali legate all’imporsi della disintermediazione che non tanto ha fatto venir meno le forme politiche (i partiti anzi hanno aumentato il proprio potere entro le istituzioni), quanto ha inaridito i canali della rappresentanza (i partiti non riescono più a dirigere e organizzare gli interessi e i soggetti sociali). È così che la società è rimasta senza voce, privata della possibilità di farsi valere entro le istituzioni.

Al popolo, rappresentato nelle sue divisioni, si è sostituito il populismo, con la sua finta omogeneità. In fondo, la stessa svolta tecnocratica (il governo dei saggi) non rappresenta altro che una variante di questo processo di progressiva sterilizzazione della società.

Avremmo bisogno di ridare voce alla società, ai cittadini, alle persone concrete, ma dovremmo riuscire anche a far maturare entro il diviso corpo sociale una coscienza civile improntata ai valori della costituzione repubblicana. Ma per far questo avremmo bisogno di forze politiche ed intellettuali organizzate. Dove sono?

 

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Il dibattito. La forza d’attrazione del Pd e il richiamo del voto utile, non salvano l’anima ai dirigenti delle varie sinistre, incapaci di esprimere un disegno di crescita unitaria

Tra i banchi del Senato

L’intervento su questo giornale di Nicola Fratoanni ( 26/10 ) e di Loris Caruso (28/10) per opposti motivi vincono il senso di frustrazione a tornare sulla condizione e il destino della sinistra italiana, a seguito della discussione generosamente avviata da Norma Rangeri (qui e qui).

Il segretario di Sinistra Italiana non vede davanti a sé, e alla sinistra tutta, nessun’altra prospettiva se non il campo del centro-sinistra.

Tanta ampiezza di visione francamente sconforta dopo il misero risultato del 2,5%, raccolto dalla lista “Sinistra civica ed ecologista” alle elezioni comunali di Roma.

Intendiamoci, la scelta di sostenere la candidatura di Gualtieri era obbligata, occorreva sbarrare la strada a una destra plebea e culturalmente fascista, dare alla città almeno una figura di sindaco progressista e autorevole. Ma queste sono scelte tattiche, che può fare un partito con una sua fisionomia autonoma, decidendo di allearsi con il Partito democratico quando la situazione lo rende utile, quale variabile all’interno di una strategia più generale.

Nella visione di Fratoianni SI appare una rassegnata appendice del Pd che persegue una originale forma di minoritarismo, non settario, ma subalterno. Come se il fine di quel partito non fosse la trasformazione della realtà attraverso l’organizzazione e la direzione del conflitto, ma l’affermazione elettorale, la presenza in Parlamento. E quindi come se bastasse esprimere una posizione politica di sinistra per avere quel risultato.

Così passano gli anni e non si assiste mai alla nascita di una idea, una iniziativa, almeno a un dibattito nazionale, con studiosi e cittadini, sui grandi temi italiani, dal lavoro al Mezzogiorno. Silenzio.

Caruso svolge una lucida analisi della collocazione e del senso di direzione del Pd nello scenario politico italiano di oggi. Io vorrei aggiungere qualche considerazione in prospettiva storica, e. non posso non ricordare che il Pd è, nelle sue fondamenta, un errore strategico. Non solo perché, “un amalgama mal riuscito”, ma soprattutto una camicia di forza imposta alle varie culture politiche nazionali, uniformandole in una politica centrista nella fase di scatenamento del capitalismo su scala mondiale.

Non a caso quella camicia si è subito strappata, mentre l’imposizione di un sistema elettorale maggioritario ha contribuito all’emarginazione delle forze politiche minori.

Il bipartitismo anglo-americano che si è voluto importare in Italia come un prodotto di Hollywood, da noi è arrivato quando nei paesi d’origine era già logoro. Chi si ricorda dei programmi elettorali più o meno identici dei Laburisti e dei Conservatori inglesi, dopo gli anni della Thatcher, rilevati nientemeno che dal Financial Times, entrambi sostenuti da un robusto impianto neoliberista? E non è stato così per decenni anche negli Usa con i Democratici che si erano resi indistinguibili dai Repubblicani? E da dove è uscito Trump se non dal vasto impoverimento della middle class, che il biparitismo non rappresentava più da almeno un ventennio? Tutto il populismo europeo non è solo figlio della globalizzazione e della crisi del 2008, delle politiche austere dell’Ue, ma del fatto che a milioni di cittadini, i quali vedevano peggiorare la loro vita di anno in anno, non è stato neppure offerta una interpretazione classista e politicamente avanzata di quel che stava loro accadendo.

Quali sono oggi i risultati che il Pd può vantare dopo la lunga presenza, a vario titolo, nei governi nazionali? Qualcuno è in grado di indicare un ambito della vita sociale dell’Italia la cui condizione è migliorata? Nell’assetto e nella qualità del lavoro? Nella condizione femminile? Nella scuola e nell’università? Nella sanità? Nel sistema fiscale? Nello stato delle nostre città? Negli assetti dell’ambiente e del territorio? Nella condizione giovanile e del Mezzogiorno? 15 anni di generale regresso.

Da quando è nato nel 2006 il Pd, con il suo moderatismo, ha obiettivamente costituito una forza di conservazione negli equilibri sociali del Paese. Ma è stato anche un fattore di immobilismo disordinato del sistema politico. E

E’ il suo peso uno degli ostacoli che impedisce la nascita di una formazione alla sua sinistra, a causa della forza di attrazione che ancora esercita grazie alla presenza al suo interno di dirigenti stimabili, per il ruolo che vi hanno ancora amministratori locali onesti e capaci, per la sua struttura organizzativa nei territori, per la forza inerziale di una tradizione sopravvissuta nella mente di tanti vecchi militanti ed elettori del Pci.

Questa evidente verità, tuttavia, non salva l’anima ai dirigenti delle varie sinistre, che nulla fanno per sfuggire alla forza calamitante di questa nuova Democrazia Cristiana. Quello che Rifondazione Comunista e Potere al Popolo dimenticano, quando rivendicano la loro presenza nei luoghi dei conflitti, o la coerenza classista delle proprie posizioni, è che questi sforzi contano poco se non si configurano in un più ampio disegno di crescita politica unitaria.

Le parole d’ordine più avanzate si perdono nell’aria, insieme alla pubblicità, se non si comunica l’idea di avere la forza per poterle perseguire. Non si deve dimenticare che le loro percentuali di consenso esprimono una valutazione di natura elettorale, non di merito. I cittadini tengono cioè conto del loro reale potere d’azione. Il voto della minoranza che oggi va alle urne è un “voto utile”.

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Riforme. La via proposta da Giorgetti è la più rischiosa tra le tante che nell'ultimo quarto di secolo hanno spinto sulla verticalizzazione del potere. Una storia di tentazioni a rischio all'inizio della quale c'è un'altra provocazione della Lega

 

Mario Draghi  © LaPresse

 Tra Lega e semipresidenzialismo c’è un rapporto deleterio da quasi un quarto di secolo. Da quel giorno del giugno 1997 in cui i rappresentanti leghisti nella bicamerale per le riforme lo votarono come forma di governo preferita, cambiando idea all’ultimo minuto e facendo saltare il piano di D’Alema (e più tardi tutta la commissione). Fu un gesto a metà tra incoscienza e provocazione, sigillato nel ricordo dal sorrisetto di Roberto Maroni (recentemente recuperato in servizio dal governo Draghi). Giancarlo Giorgetti, all’epoca, era un oscuro deputato. Oggi che da ministro in carica propone di spostare Mario Draghi al Quirinale come via breve al semipresidenzialismo «de facto» recupera un po’ di quello spirito da guastatori. Dice in pubblico quello che i tifosi della verticalizzazione del potere sognano in privato.

Il semipresidenzialismo come soluzione semi autoritaria ai problemi di governabilità del paese è un mantra della cosiddetta seconda repubblica, senza troppe distinzioni di schieramento. Anche in questa legislatura ci sono agli atti proposte di riforma semipresidenziale che vanno dal Pd a Fratelli d’Italia. Un fiume carsico venuto alla luce in mille forme, le più assurde: dal blitz su un emendamento che dieci anni fa doveva farne l’approdo della transizione italiana alla proposta di referendum di indirizzo, poi regredita a questionario sul sito del dipartimento per le riforme, per incoronarlo come il sistema preferito dagli italiani. La via breve vaticinata da Giorgetti a Bruno Vespa è, potenzialmente, la più pericolosa.

Del suo modello più noto, il semipresidenzialismo francese, quello «de facto» non ha quasi niente. Gli mancano soprattutto l’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica (con legge elettorale a doppio turno) e il sistema costituzionale di bilanciamento dei poteri. L’idea di Giorgetti è un vuoto, un buco con Draghi al centro. Brutalmente onesta, perché è difficile negare che l’attuale presidente del Consiglio anche in caso di trasloco al Quirinale resterebbe il protagonista principale dell’azione politica. Cioè proprio quello che al nostro presidente della Repubblica è impedito dalla Costituzione (che lo ha voluto politicamente irresponsabile). Protagonista per tante ragioni, non solo perché ha scritto il Piano dalla cui attuazione dipenderanno i governi a venire. Ma anche, per esempio, perché toccherebbe a lui, dal Colle, conferire l’incarico al nuovo presidente del Consiglio. Scegliersi il successore.

La ricorrente metafora del potere a fisarmonica del Capo dello stato, alla quale ricorre anche Giorgetti, in questo caso non è corretta: Draghi presidente non si allargherebbe per compensare una debolezza del governo, al contrario comprimerebbe in partenza lo spazio dell’esecutivo con la sua presenza ingombrante. Qui c’è tutto il rischio di una soluzione «de facto», fuori cioè da regole e poteri definiti. Il rischio, in due parole, di un catastrofico scontro istituzionale tra le prime cariche dello stato.

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In una breve intervista rilasciata il 28 ottobre all’ Huffington Post, il deputato di Italia Viva Davide Faraone usa i termini riformismo/riformista ben 11 volte. Naturalmente definisce come i più coerenti riformisti i militanti dell’Italia Viva di Renzi, ma considera riformisti anche Carfagna, Lupi e tutti i moderati di Forza Italia a cominciare da Micciché, ed in fondo anche Giorgetti e i moderati della Lega. Quelli del Pd, invece, «il riformismo non sanno dove sta di casa». Soprattutto, per Faraone, è fondamentale «lo sforzo riformista per l’Italia» del governo Draghi, che deve essere inteso come riformismo permanente non «solo figlio dell’emergenza».
Sempre in questi giorni (24 ottobre) l’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro, osserva che il riformismo lo abbiamo «sotto gli occhi» ed è rappresentato da quelle forze che per Faraone «non sanno dove sta di casa»: cioè dal Pd «con in pancia» (espressione del 2013 di Scalfari: «il Pd con in pancia Vendola) i cespugli del centrosinistra.
Per Faraone l’essenza del riformismo è il «cambiamento»; per Mauro la «tensione (…) portare a termine l’imperfezione».
Numerosi altri significati si possono trovare nell’uso di una parola la cui forza sta solo nella mancanza di determinazioni in grado di dare razionalmente conto del rapporto tra il nome e la cosa. In questo modo diventa riformista tutto ciò che promuove la modernità, ovviamente una modernità anch’essa priva di determinazioni.
Dal punto di vista dell’analisi storica il riformismo indeterminato si configura come esercizio sul nulla. Solo le determinazioni del riformismo hanno concretezza storica. Solo tali determinazioni sono necessarie per l’analisi politica. Il riformismo indeterminato, la modernità indeterminata sono luoghi favorevoli per qualsiasi scorreria a sfondo politicistico/affaristico, cioè per quelle pratiche abituali in tanta parte del nostro ceto politico.
Il giornalismo colto, quello che Mauro intende rappresentare, non dovrebbe contribuire a rafforzare le logiche dell’indeterminatezza. Non dovrebbe usare il termine come se mantenesse una sorta di significato profondo che in qualche modo lega la concezione del riformismo di Turati a quella di Craxi, di Veltroni e poi, magari, anche di Renzi. La continuità profonda del riformismo, consisterebbe nella sua contrapposizione al rivoluzionarismo, declinato volta a volta come massimalismo, comunismo e poi a tutte le realtà che esercitano, come sottolinea Mauro, una «critica radicale».
I termini tramandati non esprimono la realtà dei processi storici. «I termini invariati – ha sostenuto Theodor Adorno – esprimono

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Stato e regioni. Così resta prioritaria nell’indirizzo di governo, sopravvivendo con quattro esecutivi: Gentiloni, Conte I, Conte II e ora Draghi. L’iniziativa sabato scorso, di Noad-Comitati contro

Opera

Opera © Luciano Fabro

L’autonomia differenziata sta ripartendo sotto copertura. Si colgono i segnali di trattative occulte tra il ministero delle autonomie e alcune regioni. Si leggono sulla stampa esternazioni della ministra Gelmini che annuncia a breve novità, per una legge-quadro erede di quella che fu già di Boccia, e per le intese con le regioni capofila (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna).

Ma tutto rimane segreto, come già ai tempi del Conte I e della ministra leghista Stefani. Mentre viene inserito tra i collegati alla legge di bilancio il disegno di legge attuativo dell’art. 116, comma 3, della Costituzione. Meglio, si inserisce l’annuncio, visto che il testo ancora non esiste.

In questo quadro si è tenuta il 30 ottobre in una sede messa a disposizione dalla Cgil l’assemblea nazionale di Noad Comitati contro qualunque autonomia differenziata. La blindatura della città per il G20 non ha impedito un’ampia partecipazione di realtà associative attente alla tutela di eguaglianza e diritti. Decine di interventi hanno richiamato i valori costituzionali in vista del comune obiettivo dell’unità della Repubblica. È stato tra l’altro chiesto lo stralcio del ddl dall’elenco dei collegati.

L’inserimento tra i collegati di un ddl non è di per sé conclusivo. Inoltre, si potrebbe arrivare a implementare il dettato dell’art. 116, comma 3, anche senza un ddl attuativo. E si può giungere ad autonomie diversificate persino senza formale ricorso all’art. 116, comma 3. Il servizio sanitario nazionale è stato già distrutto – come la pandemia ha dimostrato – dal regionalismo oggi vigente. Lo afferma l’Anaao-Assomed in un recente documento. E allora di che parliamo?

Il punto è che il collegamento al bilancio dimostra che l’autonomia differenziata è prioritaria nell’indirizzo di governo. Anzi, sopravvive con ben quattro governi (Gentiloni, Conte I, Conte II e ora Draghi). Quattro governi, e ancor più quattro stagioni molto diverse: centrosinistra, gialloverde, giallorossa, e ora dei tecnici. È prova che forze potenti spingono per realizzarla, e che una corrente profonda passa nella politica, nelle istituzioni, nell’economia, nella società civile.

Non ogni diversità territoriale va rigettata a prescindere. Ad esempio, si è avviato il 28 ottobre nell’Aula del Senato l’iter di un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare (AS 865) volto ad inserire nell’art. 119 della Costituzione il concetto di “insularità”. In sostanza, recupera in parte e attualizza il testo originario della Costituzione del 1948 – poi cancellato dalla riforma del 2001 – che richiamava il Mezzogiorno e le Isole. Quale che sia la sorte futura del ddl, persegue un obiettivo in principio apprezzabile di maggiore tutela di eguaglianza e diritti.

Vanno invece respinte le differenziazioni che assumono le diseguaglianze come elemento propulsivo e di competitività per questo o quel territorio, in quanto capace di mettere più e meglio a frutto le risorse: Nord vs Sud, aree urbane e metropolitane vs aree interne. È la filosofia sulla quale si fonda la strategia della “locomotiva del Nord”. Una strategia che le classifiche territoriali europee dimostrano fallimentare. E rispetto alla quale l’autonomia differenziata è servente.

Molti interventi nell’assemblea hanno descritto un paese insopportabilmente diviso, in specie per sanità e scuola, ma non solo. Sono stati segnalati dubbi sulla idoneità del Pnrr a perseguire un disegno di coesione sociale e territoriale. Sono state richiamate le ambiguità nelle organizzazioni della sinistra. Spiccano – e sono da apprezzare – le iniziative in Lombardia ed Emilia-Romagna di petizioni popolari per il ritiro dei progetti di autonomia differenziata. Ma vediamo anche da ultimo il neo-sindaco dem di Torino che chiama i sindaci del Nord a una santa alleanza contro le burocrazie romane. Un nuovo iscritto al club Bonaccini?

Per chi vuole un paese più unito, più eguale, più giusto il percorso è lungo e impervio. Va anzitutto chiesta visibilità e trasparenza sui processo decisionali in atto. Va sostenuta ogni iniziativa volta a una alfabetizzazione di massa su temi non facili, come è anche il programma delineato nella mozione conclusiva dell’assemblea. Tutti dobbiamo scendere in campo. Personalmente, lavoro a una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per una riforma mirata del titolo V. Dopo venti anni, è venuto il tempo di correggere gli errori fatti, rinsaldare la casa comune, ritrovare eguaglianza e pienezza di diritti.

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