Anche l'Associazione Politico-culturale “L'Altra Faenza” aderisce alla marcia contro i rigassificatori, per il clima di domenica 11 settembre a Ravenna.
Contestiamo il nuovo progetto di rigassificatore a Ravenna (come altrove) non solo per gli enormi impatti ambientali (si veda la perforazione di 32 km che dalla spiaggia di Punta Marina entra nel territorio aggirando tutta la città di Ravenna) ma anche perché, a costi enormi, si avrebbero scarsi risultati solo fra qualche anno, e soprattutto, si manterrebbe per decenni il vecchio sistema energetico fossile.
Per affrontare l'emergenza sugli approvvigionamenti e sui costi dell'energia e del gas servono piani di risparmio ed efficientamento e un prezzo politico a livello europeo - o a livello nazionale (come hanno fatto Spagna e Portogallo) - colpendo la speculazione internazionale e recuperando il 100% degli extraprofitti delle grandi aziende dell'energia (incluso le multiutility locali) e poi investire sul serio sulla transizione energetica, per ridurre e quindi progressivamente fare a meno delle fonti fossili.
Fortunatamente, anche nelle nostre zone, stanno crescendo opposizioni, critiche, preoccupazioni e non solo dagli “ambientalisti più radicali”, obiezioni significative vengono anche da ARPAE, Istituto Superiore di Sanità, Parco Delta Po, Provincia, Autorità di Sistema Portuale, ecc. oltre a diverse associazioni sociali, dei bagnini, ecc.; a tutti vanno date risposte puntuali, che la procedura d'urgenza, gestita dal commissario Bonaccini, rischia di non dare, anche perché lui il rigassificatore lo vuole fare ad ogni costo.
Per compensare questa volontà, recentemente ha dichiarato: Dal prossimo Governo mi auguro che ci lasci fare il più grande parco eolico flottante più grande d’Italia e tra i più grandi d’Europa.
Senza aspettare il prossimo Governo, vi sono alcune scelte che possono essere fatte subito, anche da chi non necessariamente condivide completamente le nostre analisi, vale per la Regione – che ricordiamo si è data l'obiettivo del 100% di rinnovabili al 2035 - ma anche per gli amministratori locali, le associazioni economiche e produttive, le aziende, i sindacati, le associazioni sociali, dei consumatori, fino ad arrivare ai singoli cittadini.
Facciamo solo alcuni esempi:
- La Regione nel 2021 ha emanato Linee guida per favorire l’installazione di impianti fotovoltaici sulle aree di cava dove si è conclusa l’attività estrattiva, nelle zone industriali e commerciali, oltre che su discariche non più attive (o sperimentazioni di agrivoltaico) per impianti fino a 20 megawatt;
- Chi sta verificando le possibili applicazioni in ogni territorio, anche tenendo conto che in regione vi sono circa 70 discariche dismesse i cui gestori sono in parte i Comuni e in gran parte multiutility, a partire da quelle maggiori come Herambiente e Iren Ambiente, che potrebbero investire in impianti solari fotovoltaici, termici, di biogas, ecc.?
- L'avvio di Comunità Energetiche Rinnovabili, favorite anche dalla recente Legge regionale, che chiede ai Comuni di individuare “le superfici pubbliche da mettere a disposizione anche di terzi per la realizzazione di impianti...può dare una risposta per la produzione e la riduzione dei costi energetici in particolare rivolte a fasce più deboli della popolazione, che rischiano di vedere costi delle bollette insostenibili.
Certo, queste proposte non risolverebbero completamente la prossima emergenza energetica, ma avrebbero il pregio di andare nella direzione giusta, ed avere, già nel breve periodo, risultati ben maggiori di quanto non darebbe l'insensato progetto del rigassificatore.
Faenza, 9 settembre 2022 L'Altra Faenza
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Hai sempre lottato a testa alta a difesa del lavoro.
Di fronte alla proposta di ridurre il tempo di accensione della lampadine, il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani, sorride: «Saremo un paese più romantico». Un sorriso amaro, però, perché i contenuti del «Piano nazionale di contenimento dei consumi di gas naturale» rappresentano, a suo avviso, un grave errore da parte del governo.
Perché?
Questo è il secondo errore dell’esecutivo, che dopo aver fatto shopping di gas in tutto il mondo adesso spinge addirittura i proprietari delle centrali a carbone ad andare al massimo. Si tratta di due errori perché di fronte all’emergenza sono solo due soluzioni tampone che non vengono affiancate alla vera risposta alla dipendenza del nostro Paese dall’estero e dalle fonti fossili, ovvero riuscire a sfruttare più velocemente il potenziale delle energie rinnovabili. Posso comprendere queste misure in una logica d’emergenza, perché se la Russia chiude il gas verso l’Europa qualcosa dobbiamo fare, ma francamente continuiamo a non capire perché – per stare sulla costa dell’Emilia-Romagna – basteranno quattro mesi per autorizzare il rigassificatore galleggiante di Ravenna ma sono 4 anni che l’impianto eolico davanti alla costa romagnola è in attesa dell’autorizzazione. Un intervento su cui anche la Regione Emilia-Romagna s’era scatenata contro, prima che l’azienda rimodulasse il layout dell’impianto. Continuiamo a lavorare sulle fonti fossili molto più di quanto facciamo sulle rinnovabili.
Il «Piano» del governo punta molto sulle misure individuali: ha senso?
Le misure legate ai cittadini ci trovano più che d’accordo: 15 anni fa quando all’interno dell’associazione mi occupavo di energia erano le nostre proposte per uno stile di vita più consapevole. Leggendo il riferimento alle docce più corte o più fredde, ho avuto un déjà-vu. Però nel 2022 siamo in un altro momento storico e oggi dobbiamo decidere se semplicemente vogliamo usare il gas degli altri Paesi in maniera più parsimoniosa, oppure se vogliamo ridurre l’uso del gas, perché il ministero della Transizione ecologica avrebbe dovuto lavorare per tagliare con l’accetta i tempi di autorizzazione degli impianti da fonte rinnovabile, che non è avvenuto. Il governo avrebbe dovuto fare alcune cose negli ultimi dodici mesi, da quando cioè le bollette hanno preso a salire, a causa delle speculazioni dei produttori di gas.
Ha parlato di déjà-vu: arriviamo con 15 anni di ritardo?
Il governo non dovrebbe ricordarsi di incentivare comportamenti virtuosi solo perché Putin minaccia di chiudere un gasdotto: non le contesto, ma sono il minimo sindacale, sarebbe servita un’azione di comunicazione dai primi anni Duemila, non solo adesso. Del resto, però, sappiamo che la riduzione dei consumi rende poco felici i produttori di gas. Se la tecnica prevalente è quella della semplice diversificazione dei fornitori, significa solo lavorare per rendere felici altri signori del gas. In più, l’azione di governo che punta a risparmiare un po’ dipende da misure potenziali e volontarie, con indicazioni poco pressanti su controlli ed eventuali sanzioni. Ci dovremmo mettere in testa che se non tagliamo i consumi in modo strutturale, continuiamo a fare il gioco dei produttori di carbone e di quelli di gas. Le energie rinnovabili hanno un grande difetto: non dobbiamo comprarle da nessuno. Sole e vento sono gratis. Ecco perché il ritardo nella sburocratizzazione degli iter autorizzativi è inaccettabile.
Sulle rinnovabili il documento è evanescente. Che cosa dovrebbero fare i ministeri?
La prima questione strutturale riguarda il potenziamento della Commissione VIA VAS, in termini di mezzi e persone: si stanno cumulando i progetti e la commissione fa fatica a gestire. Invece il ministero della Cultura avrebbe dovuto e dovrebbe aggiornare le linee guida sull’installazione delle rinnovabili, che vale per i centri storici e l’eolico sui crinali. Questo anche per permettere gli impianti eolici e fotovoltaici integrati nel paesaggio, evitando i pareri arbitrari delle Soprintendenze, che nove volte su dieci sono contrarie a qualsiasi progetto. Vanno aggiornate anche le linee guida: nel 2010 non esisteva la tecnologia per l’eolico offshore e nemmeno l’agrivoltaico, che non consuma suolo e permette di coltivare. Il ministero della Mobilità sostenibile invece dovrebbe approvare il piano di gestione degli spazi marittimi. E poi manca un aggiornamento del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima e l’adozione del Piano d’adattamento alla crisi climatica, presentato nel 2018. È passata una legislatura, tre governi e due ministri, ma siamo ancora qui: alla bozza pubblicata da Galletti, nel giugno di quattro anni fa.
Il risultato del plebiscito referendario lascia al Paese la costituzione varata dalla dittatura golpista. La vittoria del fronte del rifiuto ha fermato un inedito processo di cambiamento politico iniziato nel 2018. Le prossime mosse del governo e del parlamento faranno capire se siamo di fronte a una nuova normalizzazione
Il risultato del plebiscito cileno ha riportato il Paese all’eredità della dittatura golpista dei militari guidati dal generale Pinochet. La vittoria del fronte del Rechazo (rifiuto) ha fermato il processo di cambiamento politico scoppiato con le rivolte studentesche del 2018. Si è così interrotto il processo di cambiamento spinto dal basso, dalla società civile contro l’establishment e i partiti tradizionali, che ha visto il protagonismo degli studenti, dei giovani, delle donne e dei sindacati, e la sua saldatura con le rivendicazioni delle popolazioni indigene.
L’estallido, l’esplosione della protesta popolare ha obbligato la destra e il governo di Piñera ad accettare il processo costituente, per poi dimettersi e consentire la vittoria della coalizione che ha saputo raccogliere il voto dei movimenti sociali, studenteschi, ambientalisti, dei diritti civili, che ha portato il giovane Gabriel Boric (ex-leader studentesco, militante comunista) a essere il nuovo presidente cileno. Con il voto di ieri il Cile deve invece ripartire dalla costituzione emanata dalla dittatura militare golpista del generale Pinochet nel 1980.
Circa dodici milioni di cileni hanno espresso il proprio voto rifiutando o approvando il nuovo testo costituzionale redatto dall’Assemblea costituente: il 72% lo ha rifiutato (rechazo), il 38% lo ha approvato (apruebo). Un risultato che spinge a chiedersi come sia stato possibile che nel plebiscito dell’ottobre del 2020 il 78% dei cileni avesse espresso un voto favorevole alla modifica della costituzione pinochetista mentre. a distanza di due anni, poco più di un terzo dei votanti ha confermato questa volontà, negando di fatto il lavoro dell’assemblea costituente e l'inedito protagonismo delle forze sociali.
Dalla stesura finale del testo approvato e oggetto del plebiscito, in effetti, le prime reazioni misero subito in evidenza il rischio di una forte divisione nel Paese, e non la possibilità di un nuovo patto di convivenza nazionale. Le proposte incluse nella proposta di nuova costituzione prevedevano, tra l'altro, il pieno riconoscimento delle rivendicazioni dei popoli indigeni. Questo avrebbe trasformato il Cile in una repubblica plurinazionale, come già avvenuto in Bolivia, dove i popoli indigeni sono quasi il 50% della popolazione. In Cile rappresentano poco più del 10%, ma nel Paese è ancora aperta la ferita tra il popolo mapuche e la nazione cilena. Un altro elemento rifiutato dai poteri consolidati è il decentramento o regionalizzazione dei poteri che prevedeva la sostituzione del Senato con una Camera delle regioni. In Cile, come in molti paesi latinoamericani, tutto si decide nella capitale e le regioni sono senza poteri, o con deleghe ma senza risorse.
La campagna mediatica contro il nuovo testo costituzionale ha usato ogni mezzo, comprese disinformazione e falsità, per spaventare l’elettorato. Ma i cileni sono anche andati al voto con la consapevolezza che, nel caso avesse vinto il rifiuto, l'accordo stretto tra governo e opposizione avrebbe permesso ai partiti presenti in parlamento di riprendersi il mandato politico per riformare la costituzione.
Così è avvenuto e così gli eletti si sono ripresi la scena, sperando che la piazza e la protesta popolare, e il governo di sinistra prodotto della precedente stagione, accettino la sconfitta. I prossimi giorni e le prossime mosse dell'esecutivo e del parlamento ci faranno capire se siamo di fronte a una nuova normalizzazione o se il Cile riprenderà a essere un laboratorio sociale e di novità degli ultimi anni. Nel frattempo, si riparte dall’eredità della dittatura.
Sergio Bassoli, Area politiche europee e internazionali Cgil
Solo Fratelli d'Italia vuole abolirlo, per tutti gli altri partiti va modificato o limitato, comunque reso più efficiente. Il provvedimento, introdotto nel marzo 2019, è un tema importante della campagna elettorale: vediamo cosa intendono farne i singoli schieramenti
Abolizione, sostituzione, revisione: sono queste le parole abbinate al reddito di cittadinanza. Il sostegno economico ai redditi familiari, introdotto nel marzo 2019, è uno dei temi principali della campagna elettorale. I giudizi delle forze politiche sul provvedimento sono ovviamente molto diversi, anche se va segnalata una sostanziale concordia sul fatto che la misura sia stata inefficiente riguardo la parte relativa al percorso di reinserimento lavorativo e sociale.
Il centrodestra propone una “sostituzione con misure più efficaci”, ma tra i singoli partiti si registrano differenze. Fratelli d’Italia parla esplicitamente di “abolizione” e di risorse da spostare dal reddito di cittadinanza “alle aziende per assumere i giovani”. Più sfumate le posizioni di Lega e Forza Italia: per Salvini va mantenuto (con qualche modifica) per i “percettori inidonei al lavoro” e trasformato in “un ammortizzatore sociale finalizzato all'occupazione” per chi può lavorare; per Berlusconi è necessaria una “rimodulazione”, con forti modifiche nei confronti dei giovani.
Più favorevole al reddito di cittadinanza è il centrosinistra. Per il Partito democratico la misura va “ricalibrata secondo le indicazioni elaborate dalla Commissione Saraceno, a partire dall’ingiustificata penalizzazione delle famiglie numerose e/o con minori”, nonché affiancata da una nuova “integrazione pubblica alla retribuzione (in-work benefit) in favore dei lavoratori e delle lavoratrici a basso reddito”. Anche l’alleanza tra Sinistra italiana e Verdi intende “rafforzare” il reddito di cittadinanza, con l’obiettivo strategico di arrivare a un “reddito universale di base”.
Per la conferma del provvedimento è ovviamente il Movimento 5 stelle, che però apre a modifiche “per rendere più efficiente il sistema delle politiche attive” e sul “monitoraggio delle misure antifrode”. Cambiamenti molto più incisivi chiede il Terzo polo, che intende toglierlo a chi rifiuta la prima offerta di lavoro congrua e introdurre “un limite temporale di due anni per trovare un’occupazione, dopodiché l’importo dell’assegno deve essere ridotto di almeno un terzo”. Per l’Unione popolare, infine, il reddito di cittadinanza va portato “da 780 a 1.000 euro al mese” e trasformato in “una misura individuale e non esclusivamente legata al nucleo familiare”.
Centrodestra
Alle forze di centrodestra, in generale, la misura introdotta dal primo Governo Conte piace poco. Il programma comune parla di una generica “sostituzione” del reddito di cittadinanza con “misure più efficaci d’inclusione sociale e di politiche attive di formazione e inserimento nel mondo del lavoro”. Entrando però nel merito dei singoli partiti, si scoprono differenze di posizioni.
Fratelli d’Italia intende “abolire” il reddito di cittadinanza e introdurre “un nuovo strumento che tuteli i soggetti privi di reddito, effettivamente fragili e impossibilitati a lavorare o difficilmente occupabili: disabili, over 60, nuclei familiari con minori a carico”. Le intenzioni della leader Giorgia Meloni sono quelle di adottare uno strumento di “assistenza verso chi non può lavorare”, dando invece le risorse del reddito di cittadinanza “alle aziende per assumere i giovani”.
La Lega intende mantenere il sostegno per i “percettori inidonei al lavoro, rivedendo i criteri di accesso e la scala di equivalenza, dando maggior peso al quoziente familiare e rimodulando gli importi in funzione delle differenti soglie di povertà assoluta”. Per gli idonei al lavoro, invece, la misura “viene trasformata in un vero e proprio ammortizzatore sociale finalizzato all'occupazione”, mediante “corsi di formazione, tirocini e contrattualizzazione dei percettori a fine percorso”.
Nel suo programma Forza Italia parla genericamente di “riforma del reddito di cittadinanza come politica di sostegno all’occupazione e trasformazione in una misura di sussistenza specifica”. Il presidente Berlusconi ha precisato che la “la decisione è di rimodulare il reddito di cittadinanza, non di eliminarlo. Deve restare alle persone che sono povere, cui ha dato la possibilità di vivere. Va invece modificato verso i giovani, cui dobbiamo offrire opportunità diverse”.
Centrosinistra
Più favorevoli al reddito di cittadinanza sono le forze politiche di centrosinistra. Nel suo programma il Partito democratico asserisce che la misura “andrà opportunamente ricalibrata secondo le indicazioni elaborate dalla Commissione Saraceno, a partire dall’ingiustificata penalizzazione delle famiglie numerose e/o con minori”. Si propone, inoltre, di ridurre il periodo minimo di residenza in Italia per accedere al reddito di cittadinanza, oggi fissato in dieci anni.
Per il Partito democratico è necessario “completare il sistema con un altro meccanismo: l’integrazione pubblica alla retribuzione (in-work benefit) in favore dei lavoratori e delle lavoratrici a basso reddito, come proposto dalla Commissione sul lavoro povero”. Questo tipo d'integrazione “introduce nel sistema opportuni incentivi di ricerca e permanenza di occupazione, permette l’emersione del lavoro nero e incentiva al lavoro. In questo quadro, appare utile favorire la cumulabilità tra sussidi e lavoro, senza disincentivare la partecipazione al mercato del lavoro”.
La lotta alla povertà e alle disuguaglianze è un pilastro fondante dell’alleanza tra Sinistra italiana e Verdi. “In questo contesto - si legge nel loro programma elettorale - intendiamo difendere e rafforzare il reddito di cittadinanza, secondo le previsioni del rapporto elaborato dalla Commissione presieduta da Chiara Saraceno, con l’obiettivo strategico di arrivare a un vero reddito universale di base”.
Movimento 5 stelle
Gli ideatori del reddito di cittadinanza puntano al “rafforzamento” del sussidio, mediante “misure per rendere più efficiente il sistema delle politiche attive” e il “monitoraggio delle misure antifrode”. Il leader Conte ha spiegato che il provvedimento è “oggi ancora più necessario vista la grave crisi economica che stiamo vivendo”. Riguardo la revisione, l’ex premier ha precisato di voler “rafforzare il reddito attraverso l'aggiornamento della scala di equivalenza per famiglie numerose e disabili, e la possibilità di renderlo compatibile con lo svolgimento di lavori stagionali fino a una certa soglia di reddito annuo”.
Terzo polo
“Il reddito di cittadinanza è uno strumento pensato male, che ha voluto raggiungere troppi obiettivi con un solo strumento e che ha ormai dimostrato tutti i suoi limiti”, si legge nel programma elettorale. Per Azione e Italia viva occorre “introdurre modifiche che incentivino maggiormente la ricerca di un impiego”. La proposta è di togliere il sussidio “dopo il primo rifiuto di un’offerta di lavoro congrua e che ci sia un limite temporale di due anni per trovare un’occupazione, dopodiché l’importo dell’assegno deve essere ridotto di almeno un terzo e il beneficiario deve essere preso in carico dai servizi sociali del Comune”.
Unione popolare
“Portare il reddito di cittadinanza da 780 a 1.000 euro al mese, innalzare la soglia di accesso Isee da 9.360 a 12 mila euro e renderlo una misura individuale e non esclusivamente legata al nucleo familiare”: così è scritto nel programma elettorale. Il leader De Magistris ha precisato che “il reddito di cittadinanza è un reddito di povertà, serve a sostenere chi si trova in difficoltà e non può essere ovviamente eliminato. Ma il percettore di reddito vuole anche essere aiutato dallo Stato per trovare lavoro e dignità”.
Parte la kermesse in laguna dal 31 agosto al 10 settembre. Un occhio puntato sull'oggi. C'è la sindacalista interpretata da Isabelle Huppert, insieme a molti temi sociali: dagli italiani agli internazionali, un'edizione ricca e attuale. In concorso il film sull'obesità. L'impegno della Biennale per i registi sotto attacco come Jafar Panahi
Sarà un grande occhio puntato sul contemporaneo, il Festival di Venezia numero 79, che si svolge dal 31 agosto al 10 settembre nella cornice della laguna. D'altronde è noto che il cinema ha il potere magico di anticipare la realtà: l'anno scorso vinse il Leone d'oro La scelta di Anne di Audrey Diwan, la storia di una ragazza e la sua difficoltà ad abortire, un titolo che oggi suona quasi profetico dopo la sentenza della Corte Costituzionale degli Stati Uniti e i nuovi anti-abortisti di casa nostra, espliciti o meno che siano, vedi alla voce Meloni. E anche quest'anno la Mostra internazionale d'arte cinematografica punta il faro sul presente: lavoro, diritti, donne, guerre saranno al centro di molti film selezionati.
A partire dal concorso ufficiale, che si apre con l'atteso White Noise di Noah Baumbach, ovvero l'adattamento del romanzo Rumore Bianco di Don De Lillo, uno che ne sa qualcosa della fine della civiltà. E che oggi, col rischio della nuova apocalisse (virale o bellica), torna subito d'attualità. A sfidarsi in competizione sono 21 lungometraggi in prima mondiale che corrono per il massimo premio, assegnato dalla giuria presieduta da Julianne Moore. Molti i temi importanti affrontati nelle pellicole, a partire dagli italiani: Gianni Amelio ne Il signore delle formiche inscena la vicenda di Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio), protagonista di un celebre processo negli anni Sessanta, condannato a nove anni per plagio di un giovane che fu sottoposto all'elettroshock per guarire dalla sua "influenza". Obiettivo fare luce su un angolo buio della nostra Storia, contro le discriminazioni di ieri e di oggi. In generale, sarà un festival pieno di film che parlano di discriminazione: non può essere un caso.
Se Luca Guadagnino si presenta con un progetto squisitamente di genere (Bones and All), c'è molta curiosità per il ritorno di Emanuele Crialese con L'immensità, su una coppia che finisce mentre intorno scorre l'Italia degli anni Settanta, col volto dominante di Penelope Cruz. Susanna Nicchiarelli con Chiara risarcisce l'omonima santa, Santa Chiara appunto, cresciuta nell'Assisi del 1200 all'ombra di San Francesco, il santo più famoso (anche perché maschio?): sarà una sorta di versione femminile della santità, riportando al centro della scena una donna forte e oscurata.
Il cinema internazionale si schiera con titoli pesanti. Uno dei più attesi è Blonde di Andrew Dominik, sulla vita di Marilyn Monroe col viso di Ana de Armas: è facile prevedere la riflessione sul meccanismo fagocitante della fama. Ma occhio ai temi sociali. C'è Saint Omer di Alice Diop, che attraverso il processo a una mamma accusata di aver ucciso la figlioletta vuole "sondare l'indicibile mistero di essere madre" (parole sue). C'è Tár di Todd Field, la storia di un'altra grande donna: Lydia Tár (Cate Blanchett), prima direttrice d'orchestra in un mondo di soli uomini. Troviamo poi Argentina, 1985 di Santiago Mitre, che rievoca uno dei momenti più sanguinosi della dittatura militare. Il grande documentarista Frederick Wiseman esordisce al film di finzione a 92 anni, portando Un couple sulla storia d'amore tra Tolstoj e la moglie Sonia.
Impossibile non segnalare il film su uno dei temi più difficili in assoluto da trattare sullo schermo: l'obesità. È The Whale di Darren Aronofsky, che nei panni del protagonista obeso vede Brendan Fraser autore di un incredibile ingrassamento per sostenere la parte. Questi i maggiori titoli che si giocano i Leone.
E poi, come sempre, c'è il lavoro. Uno dei nodi fondamentali del contemporaneo, che la Biennale di consueto tratta e mette al centro delle pellicole scelte. Tracce di occupazione sono ovunque, soprattutto nelle sezioni collaterali. Basti pensare al francese La Syndicaliste di Jean-Paul Salomé, con protagonista Isabelle Huppert nella parte proprio di un'esponente sindacale di oggi. La questione del lavoro si intreccia con quella dei migranti, non può essere altrimenti: una clandestina nigeriana è al centro di Princess di Roberto De Paolis, costretta a vendere il proprio corpo per sopravvivere. Andiamo nel foggiano con Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa, già autore del corto La giornata sulla morte per caporalato di Paola Clemente: qui attraverso una faida rappresenta quella terra troppo spesso segnata da violenza, criminalità, mancanza di speranza.
La Biennale quest'anno ospita due iniziative di solidarietà per i cineasti sotto attacco. Si tratta di momenti, spiega la mostra, dedicati ai "registi, cineasti, artisti arrestati o imprigionati nel mondo nell’ultimo anno, con lo scopo di sensibilizzare i media, i governi e le organizzazioni umanitarie mondiali sulla loro situazione". Un panel internazionale, intitolato Cineasti sotto attacco: fare il punto, agire / Filmmakers Under Attack: Taking stock, Taking Action, avrà luogo sabato 3 settembre alle ore 15.30 al Palazzo del Casinò (Lido di Venezia), in sala conferenze stampa.
L'altro è un flash-mob fissato per il 9 settembre: "I cineasti, gli artisti e altre personalità della comunità del cinema presenti il 9 settembre alla Mostra saranno invitate a partecipare, alle 16.30, al flash-mob sul red carpet del Palazzo del Cinema per attirare l’attenzione sulla situazione dei cineasti arrestati o imprigionati nel mondo, e in particolare del regista Jafar Panahi e degli altri registi iraniani perseguitati". Il flash-mob si terrà infatti prima dell’inizio della proiezione del film in concorso No Bears, diretto proprio da Panahi.
Foto: La Syndicaliste di Jean-Paul Salomé (copertina), Saint Omer di Alice Diop, The Whale di Darren Aronofsky, Princess di Roberto De Paolis, No Bears di Jafar Panahi