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Alle presidenziali ha vinto il candidato più spregiudicato, un risultato che conferma soltanto quanti danni di lungo periodo può fare il populismo

Domenica 19 novembre, Javier Milei è stato eletto presidente argentino con una confortevole maggioranza.

Due conferme: la prima, la meno importante, è che i sondaggi pre-elettorali sbagliano ormai quasi sempre. 

La seconda, decisamente più importante, è che l’Argentina continua l’infernale ciclo in cui è immersa dagli anni 1930, quando cessò di essere la potenza emergente più dinamica del mondo per diventare un paese ormai incapace di risollevarsi, nonostante le sue condizioni naturali, le più propizie di tutto l’emisfero sud.

Tra il 1880 e il 1905, il prodotto argentino si era moltiplicato per sette volte e mezza, con una crescita media annua di circa l’8 per cento; in quel periodo, il prodotto pro capite era passato da un terzo di quello americano a circa l’80 per cento. 

   

Molti migranti europei (soprattutto italiani) preferirono quella destinazione, più calda e più latina, agli Stati Uniti, con la certezza di andare comunque verso una vita migliore, ma senza il freddo e l’ostilità anti-cattolica del grande paese del Nord.

Tra gli specialisti imperversa la discussione sul momento in cui quella dinamica di crescita si interruppe. 

Molti convergono sull’incapacità di far fronte alla crisi del 1929, e molti sull’incapacità, piuttosto, di uscire dal meccanismo keynesiano innescato dopo la crisi del 1929. 

All’Argentina va il triste primato dell’invenzione del populismo: diamo al popolo quello che il popolo reclama, senza preoccuparci se possiamo permettercelo o no.

Il «peronismo» (a cui, ancor oggi, il candidato sconfitto, Sergio Massa, si richiama, come la generazione Kirchner-Fernandez che lo aveva promosso ministro dell’Economia) è diventato sinonimo di quel populismo, generoso nel distribuire quel che non ha.

Il keynesismo come ricetta per uscire dalla crisi consiste essenzialmente nel deficit-spending, ovvero in una spesa pubblica a credito, con l’obiettivo di distribuire lavoro (cioè salari) anche senza un ritorno economico immediato (profitto), per rilanciare il consumo, cioè la produzione, cioè il profitto, cioè la produzione di ricchezza. 

Il keynesismo, in Argentina, ha però svuotato le casse dello Stato senza mai riuscire a riempirle di nuovo. 

   

Così, gli infernali cicli politici che si ripetono consistono essenzialmente in una tappa peronista di spesa pubblica senza ritorno economico (cioè senza produzione di ricchezza) che svuota le casse o produce inflazione (o entrambi), seguita da una tappa «liberista» che cerca di invertire il processo sospendendo prebende e promuovendo austerità, la quale genera il malcontento popolare sfruttato dai politici peronisti che si fanno eleggere di nuovo con la promessa di ripristinare prebende e servizi per i quali non hanno i mezzi e così via di seguito.

Dopo un mandato peronista (seguito al mandato «liberista» di Mauricio Macrì) l’Argentina è arrivata oggi alle elezioni con un’inflazione ufficiale del 142 per cento, una reale probabilmente tre volte più importante, le casse vuote e un debito di 44,5 miliardi con il Fondo monetario internazionale. 

   

Milei, l’ennesimo capocomico eletto alla testa di un paese disperato, ha promesso di risolvere tutti i problemi e di fare l’Argentina «great again». 

Non ci riuscirà, e non soltanto perché è un capocomico, ma perché nessun candidato che promette di risolvere tutti i problemi e di fare di nuovo grande il proprio paese ci è mai riuscito. 

I peronisti appartengono invece alla sparuta pattuglia dei populisti che mantengono le promesse e che, mantenendole, aggravano i danni: infatti essi non promettono di risolvere tutti i problemi, ma di dare al popolo quello che il popolo reclama, cioè soldi e servizi che lo Stato non ha. 

Senza neppure cercare di riavviare la produzione di ricchezza. E che finiscono quindi col far girare le rotative della zecca e chiedere prestiti al Fmi (senza rinunciare ad accusare il FmiI di essere una banda di sanguisughe).

Dopo la crisi del 2008, il peronismo ha fatto scuola: dappertutto si spendono spensieratamente risorse pubbliche che non ci sono per far contenti gli elettori.

Senza rendersi conto (forse) che, in fondo alla strada, c’è dappertutto un Milei pronto a far contenti gli elettori inevitabilmente delusi