Palestina Almeno durante il funerale di Papa Francesco: tacciano le armi, cessi il fuoco, si fermi l’industria bellica, non si pronuncino parole di odio!
Fedeli in piazza San Pietro con uno striscione raffigurante la bandiera della pace – Ap
«Noi sindaci e vescovi di alcune città italiane che sono state tappe dell’instancabile pellegrinaggio di pace di papa Francesco, ci rivolgiamo ai Capi di Stato e di governo, e alle delegazioni diplomatiche, che da tutto il mondo saranno presenti ai funerali del vescovo di Roma affinché sabato 26 Aprile sia per tutto il mondo un giorno di silenzio e di pace: tacciano le armi, cessi il fuoco, si fermi l’industria bellica, non si pronuncino parole d’odio».
Inizia così l’appello lanciato dai primi cittadini e dai vescovi di Verona, Firenze, Assisi e Lampedusa – e sottoscritto dal Movimento Nonviolento – per chiedere una tregua di 24 ore in tutti i contesti bellici nel giorno dell’ultimo saluto a Bergoglio.
«Un giorno di pace, un segnale di tregua, è la manifestazione più vera del cordoglio e del saluto ad un uomo di Pace. Abbiamo fiducia che questa grazia si avveri, confidando nella volontà di chi può farlo. Chiediamo a tutte le donne e a tutti gli uomini di buona volontà, alle istituzioni, alle associazioni, di sostenere questa richiesta».
L’appello è stato lanciato dal sindaco Damiano Tommasi e dal Vescovo Domenico Pompili (Verona), dalla sindaca Sara Funaro e dall’Arcivescovo Gherardo Gambelli (Firenze), dal sindaco Valter Stoppini e dal vescovo Domenico Sorrentino (Assisi), dal sindaco Filippo Mannino e dall’arcivescovo Alessandro Damiano (Lampedusa).
A Verona il Papa ha partecipato all’Arena di Pace del 18 maggio 2024, immergendosi e mettendosi in dialogo con i movimenti popolari e per la pace, sotto il segno del Salmo “Giustizia e pace si baceranno”. Firenze è stata la città del Sindaco santo Giorgio La Pira, che voleva fare la pace una città alla volta, e dove il 20 giugno 2017 Papa Francesco ha pregato sulla tomba di don Lorenzo Milani, il prete che difese l’obiezione di coscienza con il suo “L’obbedienza non è più una virtù”. Ad Assisi, il Papa andò il 4 ottobre 2013, ed è lo spirito del Santo Francesco d’Assisi che ha ispirato il senso profondo delle due Encicliche “Laudato si’” e “Fratelli tutti”. Infine, Lampedusa dove il Papa fece il suo primo viaggio per depositare una corona di fiori nel Mare Mediterraneo, un cimitero d’acqua, dove trova la morte chi fugge da povertà, fame, guerra.
A Roma, il giorno del funerale, convergeranno i Capi di Stato e di Governo e le delegazioni diplomatiche di tutto il mondo.
Tra loro i responsabili dei conflitti in corso, che hanno il potere – se lo vogliono – di fermare almeno un giorno il fragore delle armi, delle bombe, dei missili. Ma anche ogni altro Capo di governo ha il potere di fermare, almeno un giorno, l’industria bellica, che quelle armi costruisce. E ogni singola persona, quel giorno, ha il potere di fermare le parole di odio, e di aprirsi al cammino della nonviolenza, personale e politica.
Il funerale di Papa Francesco, come quello di Gandhi e quello di Martin Luther King, sarà tra i più grandi del mondo, perché in questi Maestri i popoli, che hanno fame e sete di pace e di giustizia, si sono riconosciuti. Ognuno può partecipare, personalmente o in gruppo, con associazioni, movimenti, reti, aderendo alla richiesta di “Un giorno di tregua”; così come auspichiamo che altri Sindaci, altri Vescovi, altre città si aggiungano all’elenco.
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Cortei vietati, concerti silenziati, cerimonie annullate: la raccomandazione del governo, assai interessata, a ridimensionare il 25 aprile fa proseliti nelle amministrazioni, anche di centrosinistra. Ma oggi in tante città, a cominciare da Milano, le piazze antifasciste festeggiano con maggior convinzione e senza alcuna sobrietà la Liberazione che dispiace alla destra
25 aprile, ieri e oggi Milano, manifestazione del 25 aprile 2008, anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo – Andrea Pagliarulo
Milano, manifestazione del 25 aprile 2008, anniversario della Liberazione dell'Italia dal nazifascismo – Andrea Pagliarulo
Se la destra che ha sempre considerato il 25 aprile una giornata triste perché «divisiva», se Giorgia Meloni che negli anni ha proposto di spostare la festa nazionale in una serie di date strampalate – tipo la fondazione del Regno d’Italia nel 1861 o l’entrata in guerra nel 1915, non stiamo scherzando -, se Ignazio La Russa che il 25 aprile lo ricorda per l’attacchinaggio dei manifesti a lutto, se tutti gli avanzi del fascismo e del neofascismo italiano oggi approfittano della morte di papa Francesco per imporre una cappa di moderazione, una specie di castigatezza di Stato nella celebrazione e nel racconto della Liberazione, perché dovremmo sorprenderci? E soprattutto, perché dovremmo accontentarli?
Opportunismo, conformismo e il mal inteso omaggio a un papa che cauto non lo è stato mai hanno portato alla cancellazione di diverse feste in giro per l’Italia. La squallida cerimonia minima in un parlamento già vuoto ha imposto il tono, dimesso, che la destra tanto ricercava. Proprio nell’anno in cui, invece, più importante è festeggiare a dovere. Non solo per l’anniversario tondo, ottant’anni, ma per quello che intorno a questo 25 aprile accade.
La destra gioca le sue carte con sempre maggiore spudoratezza, deragliando dal sentiero costituzionale senza alcuno scrupolo.
Felice di poter abbinare la parola «lutto» alla parola «Liberazione» sui suoi giornali e nel Palazzo dopo gli anni in cui potevano solo scriverlo sui muri nottetempo e poi scappare. Ma a noi tocca allora celebrare la Liberazione con il doppio dell’impegno e dell’intenzione. Senza perdere tempo a voler richiamare lo stato maggiore ex missino a una compostezza repubblicana: del resto il fatto stesso che insistano con il considerarla una festa «divisiva» spiega quanto ancora sentano loro le ragioni della parte sconfitta ottant’anni fa, i fascisti.
È questo il senso del continuo richiamo della destra a «tutti i morti» della guerra civile, tutti uguali come se fossero tutti morti per un improvviso cataclisma. Se la pietà ovviamente accomuna ogni vittima, la pietà non esclude il giudizio sulle scelte e il passare del tempo non può mai scolorarlo. C’è bisogno di una resistenza anche all’oblio, al quale evidentemente puntano gli inviti alla calma e alla moderazione di quest’anno. Al contrario, se c’è un lascito attualissimo della Resistenza è proprio l’insegnamento a tirarsi fuori dalle secche del tutto uguale ed essere capaci di scegliere.
Niente più di quello che abbiamo quotidianamente davanti ai nostri occhi dimostra come non ci siano
Leggi tutto: Bisogna saper scegliere - di Andrea Fabozzi
Commenta (0 Commenti)Vaticano Le sue parole e i suoi atti erano di segno opposto rispetto alla visione militante di una chiesa occidentalista di cui alcuni auspicano il ritorno in Vaticano
Papa Francesco in Messico – AP
Nel 1995 sul trono di Pietro sedeva Giovanni Paolo II, un pontefice di cui tanti sentono oggi la mancanza. La sua era una chiesa trionfante, che veniva celebrata dagli ammiratori (non necessariamente credenti).
Convinti, questi ammiratori, che la chiesa di Wojtyla si fosse liberata dalle secche del dubbio e dell’incertezza degli anni Sessanta e Settanta, per proiettarsi nel futuro trascinata dall’onda della storia. Un papa cold warrior, che aveva dato un contributo non secondario al crollo del socialismo reale, e custodiva il proprio successo politico come il segno della realizzazione di un disegno divino.
In quello stesso anno, viene pubblicato un testo peculiare. Rileggendolo a distanza di decenni, e all’indomani della scomparsa di un papa molto diverso da Giovanni Paolo II, come è stato Francesco, colpisce questo passo: «… bisogna avere il coraggio di riconoscere che in tempi recenti la verità cristiana non è stata più annunciata nella sua integrità, ma via via ne sono stati accentuati sempre più marcatamente i risvolti e le implicazioni compatibili con la sensibilità degli uomini formatisi nell’orizzonte della cultura e del costume moderni. Il cristianesimo si è praticamente ridotto così, agli occhi dei più, a una forma di umanesimo».
Sono parole tratte da una della due encicliche scritte da un personaggio frutto dell’immaginazione di Sergio Quinzio. Si tratta dell’ultimo papa, Pietro II, che nella finzione di quel teologo irregolare le avrebbe pubblicate prima di compiere un gesto estremo con cui pone fine alla millenaria storia della Chiesa romana. L’osservazione sul cristianesimo che si riduce a una forma di umanesimo sono nella prima delle due encicliche, nella quale Pietro II ribadisce che la resurrezione dei morti fa parte delle verità riconosciute dalla chiesa. Questa affermazione viene derisa o ignorata, e questo spinge il papa immaginato da Quinzio a diffondere un nuovo, più radicale, messaggio, prima di togliersi la vita lasciando i fedeli faccia a faccia con dio (o con la sua assenza).
Perché rileggere e rievocare questa singolare (qualcuno potrebbe persino dire blasfema) opera di Quinzio proprio oggi? Credo che Mysterium iniquitatis (Adelphi, 1995) sia una lettura preziosa per quelli di noi che, non essendo credenti, corrono il rischio di dimenticare che c’è una specificità del cristianesimo che non si lascia ridurre a un messaggio politico, a un partito, a un progetto sociale o economico.
Se è vero che la chiesa come istituzione storica si misura da sempre, volente o nolente, con il mondo umano, è anche vero che prendere sul serio i cristiani, secondo un principio di carità interpretativa che dovremmo applicare a ogni interlocutore, vuol dire ammettere che si proiettano su una dimensione che non è esclusivamente mondana. Possiamo pensare che questa dimensione sia soltanto un’illusione, ma non possiamo proiettare il nostro dubbio su chi professa la fede. Possiamo discutere e litigare con loro, compiacerci quando difendono ciò che anche per noi è giusto, e dolerci quando le nostre convinzioni non coincidono, ma senza mai dimenticare che c’è un’eccedenza di senso nel loro discorso che sfugge alla nostra capacità di comprensione.
Per questo il cristianesimo, specie quando si esprime, come spesso faceva nelle parole e nei gesti di Francesco, con una teologia della croce e non del trionfo, disturba così tanto in una società sempre più vicina alla piena identificazione tra il prezzo e il valore di qualsiasi cosa.
Nell’insegnamento del pontefice scomparso le dimensioni cristiane della carità, dell’accoglienza e del perdono erano centrali, e prevalevano rispetto alla visione militante di una chiesa occidentalista di cui alcuni auspicano il ritorno in Vaticano. Quelle parole e quegli atti spiazzano perché non sono semplicemente un altro umanesimo, ma la testimonianza di qualcosa che ci spinge a farci domande che nella nostra società vengono considerate sconvenienti.
Piangiamo la morte di un uomo, ma non perché abbiamo perso un compagno di battaglie politiche, o la guida di un movimento, ma perché è scomparso un testimone. Qualcuno che sapeva trasmettere fiducia nella possibilità di un modo di stare al mondo che non si esaurisce in quello che hai, ma coltiva la speranza che sarai rispettato per quello che sei.
Commenta (0 Commenti)Ri-Mediamo La rubrica su media e società. A cura di Vincenzo Vita
Si avvicina la scadenza del voto sui referendum: quattro sul lavoro e uno sulla cittadinanza. Silenzio pressoché totale dei media.
Lasciamo stare, ovviamente, queste giornate, dedicate (non sempre bene e spesso con elogi di maniera da parte di chi non l’ha mai sopportato) alla scomparsa di Papa Francesco. Servirebbero approfondimenti rigorosi e lontani dalle retoriche farisaiche, che fanno di Bergoglio un santino e non una figura indigesta per guerrafondai e affaristi, dentro il tempio e pure fuori.
Torniamo ai referendum. Si tratta di una scadenza fondamentale, perché tocca alcuni meccanismi determinanti della deriva neoliberista -licenziamenti illegittimi, tutele per i lavoratori delle piccole imprese, precariato, sicurezza sul lavoro- e dello spirito vessatorio contro i migranti.
Se è vero che la commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai (2 aprile, in vigore dal 6) e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (8 aprile, in vigore dal 9) hanno emanato i rispettivi regolamenti che disciplinano le diverse forme di comunicazione, è altrettanto vero che la disciplina classica della par condicio poco si adatta alle caratteristiche dei referendum.
In tale consultazione chi va a votare in gran parte si esprime per l’abrogazione di leggi e commi in questione, mentre è il raggiungimento del quorum richiesto ad essere il vero problema. Parliamo dei referendum abrogativi, mentre differente sarebbe il caso di quelli confermativi. Non a caso il segretario di +Europa Riccardo Magi ha immaginato un ricorso alla giustizia amministrativa contro le scelte regolamentari, proprio per sottolineare la necessità di privilegiare l’informazione sui quesiti rispetto alla mera conta cronometrica del Si e del No.
Insomma, ben vengano le tribune elettorali, ma a poco servono se sono collocate in orari non centrali e se non vi è soprattutto una adeguata spiegazione di testi e contesti.
Se, ad esempio, si riproducesse l’affluenza nelle cabine delle ultime consultazioni per il parlamento europeo, i referendum fallirebbero.
Giustamente, il segretario della Cgil Maurizio Landini ha insistito e insiste proprio su tale nodo, l’altra faccia della posta in gioco generale.
Del resto, i dati che si possono leggere sul sito della Rai raccolti dall’Osservatorio di Pavia sottolineano che il vulnus risiede nella carenza di attenzione e di racconto mediatico. Briciole di secondi dedicati ad argomenti concreti legati alla vita reale delle persone.
Non va. Una correzione immediata diviene indispensabile, per non rendere l’apparato pubblico e privato complice di una violazione della Costituzione, che fa dei referendum un vero potere statuale.
Non solo. La stessa routine dei talk andrebbe rivista, inserendo la scadenza dell’8 e 9 giugno tra le priorità dell’agenda e delle scalette.
Naturalmente, le maglie strette della par condicio scatteranno nel cosiddetto periodo protetto, che di prassi è l’ultimo mese. A maggior ragione, quindi, nello spazio che precede e accompagna tribune e messaggi autogestiti (12 maggio) è cruciale che se ne parli.
Bene o male non importa, ma che se ne discuta.
Altrimenti non solo si perderà un’occasione di tale rilievo per l’universo del lavoro e per i migranti che vivono in Italia (il tempo per l’acquisizione della cittadinanza si dimezzerebbe da 10 a 5 anni), ma si darà un colpo letale allo stesso istituto referendario. E sembra che in simile direzione si orientino il governo e la maggioranza di destra, assai sensibili verso quello che getta sabbia nei motori dell’involuzione in corso. Quest’ultima scarta gli strumenti della rappresentanza e del voto consapevole, per dare spazio al premierato populista.
Non casualmente, gli stessi partiti contrari hanno tardato a chiarire alla commissione di vigilanza i propri orientamenti, la cui assenza impedisce l’organizzazione dei confronti radiotelevisivi. Nella tendenza verso i lidi della cosiddetta democratura, attenzione a non sottovalutare la manomissione dell’istituto del referendum abrogativo con il boicottaggio del quorum.
La partita si gioca subito, non nello scadenzario tradizionale della legge 28.
Commenta (0 Commenti)Viaggio a Roma La torsione autoritaria di cui sono propugnatori il presidente americano e il suo vice Vance è abbracciata da correnti di cattolicesimo postliberale americano
Donald Trump atteso a Roma, mentre per la prima volta Putin apre ad un negoziato diretto con «il regime di Kiev». Già il vicepresidente Vance, a cui sono affidate le provocatorie azioni di comunicazione, aveva portato la sfida nel cuore della Capitale; Giorgia Meloni lo ha accolto con grande favore. Convertitosi a 35 anni nel segno di un «Gesù maestoso» che non è il Gesù degli ultimi, Vance si era già scontrato con la dottrina del Papa in tema di umanitario e deportazioni.
Nelle sue ultime ore fra i fedeli Francesco non si risparmiava, con richiami di stretta rilevanza per l’agenda politica internazionale, condannando il disprezzo verso i migranti e ricordando che non c’è pace senza disarmo. Stemperando l’idea di uno scontro frontale fra Washington e Santa Sede, Francesco ha poi concesso a Vance un breve incontro fotografabile, omaggiandone i figli con due uova di cioccolato da supermercato.
Il problema è che la pace, più volte annunciata dai Maga come pratica da sbrigare in fretta, non è arrivata né Ucraina, né a Gaza, né in nessun altro scenario di guerra. Il giorno di venerdi Santo, il segretario di stato Usa Rubio aveva descritto la Casa bianca pronta a staccare la spina e abbandonare gli sforzi di mediazione. Incontrando a Parigi i leader europei, ed incassando l’accordo ucraino sulle famose terre rare, Rubio aveva ribadito che il presidente Trump è ancora – bontà sua – interessato alla pace, ma ha molte altre priorità, ed è dunque pronto a passare ad altre occupazioni.
Nelle sue ultime ore, Francesco ha ripetuto i suoi richiami di stretta rilevanza per l’agenda politica internazionale, ricordando che non c’è pace senza disarmo
Questa tattica che non può sorprendere. Per quanto gli Usa abbiano ripreso tutti i talking point della propaganda russa – inventandosi persino un «cessate il fuoco parziale» sulle sole infrastrutture energetiche – il tavolo delle trattative non si è avvicinato. Allo stesso tempo, come ha chiarito Zelensky, le forniture militari Usa sono ormai praticamente a zero. Se la linea difensiva ucraina regge, nonostante le difficoltà a mobilitare uomini, è perché gli ucraini hanno ancora dotazioni militari che consentono di arginare l’offensiva. Ma nelle ultime settimane e nelle ultime ore l’intensità della guerra non è diminuita. Il massacro di civili della domenica delle Palme, con i missili russi lanciati in double tap sui civili a Sumy, ci ricorda che Putin, grazie alla compiacenza di Washington, può alzare in ogni momento il prezzo del tavolo negoziale.
Il Cremlino, per parte sua, aspetta che la produzione militare ucraina e le forniture europee non saranno sufficienti a compensare il venir meno delle armi americane. Questione di settimane, qualche mese al massimo. Mosca ha dunque l’interesse a tenere la fase negoziale in stallo, mascherando risultati a dir poco elusivi con compiacenza di ritorno verso la Casa bianca, comunque in sintonia ideologica.
Il punto è che, centinaia di migliaia di morti dopo, Washington ha sposato la narrazione di Mosca, ma Mosca non ha rinunciato a nessuno degli obiettivi enunciati all’inizio dell’invasione. Non solo: Putin ci ha tenuto a ricordare che la guerra non potrà finire «finché non ne verranno risolte le cause profonde». Una formula che rimanda alle architetture di sicurezza europee, ancorate all’alleanza atlantica. Nulla può corrispondere meglio agli obiettivi perseguiti da Putin che un’America che si ritira da presidi che non ritiene più strategici (ad esempio l’Africa, secondo le indiscrezioni riportate dalla stampa americana), e di un’Europa che finisce priva di garanzie sul piano della deterrenza nucleare.
Detto più chiaramente, l’obiettivo strategico del Cremlino, in un ordine internazionale da riconfigurare sulla base di intesa ideologica, è negoziare l’Europa direttamente con Washington, con la voce degli europei all’angolo, priva di credibilità, e gli ucraini come residuo ormai invisibile. Trump è visto come null’altro che l’acceleratore di una dinamica di fondo già in atto: lo spostamento del baricentro degli interessi strategici americani verso la regione indo-pacifica (la Cina, ma non solo), con conseguente alleggerimento della propria presenza nel Mediterraneo e in Europa.
Trump e accoliti vedono la Nato, fondata sulla preservazione dello status quo geopolitico, come un sistema che abusa della fiducia americana. In questo quadro vanno letti gli attacchi di Vance ai valori della liberaldemocrazia europea, l’endorsement dato alle forze di estrema destra, e – più in profondità – l’appoggio ad operazioni di influenza a più lungo termine, incluse quelle che passano per le organizzazioni cattoliche più conservatrici. Le stesse impegnate, anche in vista del Conclave, a cancellare l’azione di Francesco, il papa che ha visto nella guerra in Ucraina, come in ogni guerra, una guerra civile. Che denunciato il terrorismo contro i palestinesi di Gaza. Che ha incontrato i signori della guerra nel Sud Sudan, gettandosi ai loro piedi perché fermassero i massacri.
L’Occidente che conoscevamo, qualunque cosa esso fosse, non esiste più davanti alla sfida del resto del mondo che cresce, e al tentativo di militarizzarne gli esiti. Gli stessi leader europei ce lo ricordano, quando disegnano un futuro di nazioni armate, guerre per l’egemonia e paci imperiali.
La torsione illiberale e autoritaria di cui è propugnatore Vance è predicata su una teologia della guerra che è abbracciata da correnti di cattolicesimo postliberale nordamericano, ben oltre i temi del tradizionalismo reazionario: un’umanità precipitata in una battaglia esistenziale, dove il popolo che crede in una «divinità maestosa» accetta la violenza come necessaria. L’Italia di Meloni sembra candidarsi a fungere da apriporta. La teologia della pace di Francesco ci lascia molto su cui riflettere.
Commenta (0 Commenti)Fratello solo Intervista a monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes: «I governi non l’hanno mai ascoltato, e a volte lo hanno criticato apertamente»
La visita nel 2013 di Papa Francesco a Lampedusa foto Alessandra Tarantino – Ap
Monsignor Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara e presidente della Fondazione Migrantes della Cei. Dal primo viaggio a Lampedusa fino agli ultimi giorni di Pontificato. Quanto ha pesato nel magistero di Papa Francesco il tema dei migranti?
È stato uno dei temi che ha costituito una sorta di leit motiv che ha attraversato tutto il pontificato, fino all’ultimo messaggio urbi et orbi del giorno di Pasqua. Contro una cultura politica che esaltava i muri, i respingimenti, in forme che disprezzano anche la dignità umana, Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium del 2013, quasi un programma che ha consegnato alla Chiesa italiana nel Convegno ecclesiale di Firenze del 2015, ha ricordato che «Ogni straniero che bussa alla nostra porta è un’occasione per un incontro con Gesù Cristo» e nell’enciclica Fratelli tutti del 2020 ha parlato dei migranti come una «benedizione». Ha avuto anche il coraggio nel suo discorso al Parlamento europeo nel 2014 di affermare che «non si può tollerare che il Mediterraneo diventi un grande cimitero», come purtroppo è stato in questi dieci anni con oltre 20.000 morti che interpellano la coscienza di tutti.
Qual è l’eredità su questo tema da cui la Chiesa non potrà più prescindere?
Anzitutto il richiamo al passaggio del discorso della Montagna di Gesù: «Ero forestiero e mi avete ospitato», da cui nacque l’appello di Papa Francesco a tutte le parrocchie e istituti religiosi e monasteri ad accogliere almeno una famiglia di migranti o rifugiati. Le sue parole a Lampedusa nel primo viaggio apostolico del 2013, in cui ha ripetuto, con le parole di Dio a Caino «Dov’è tuo fratello?», la domanda a ciascuno di noi di accogliere il migrante come un fratello. I due viaggi a Lesbo nel 2016 prima e nel 2021 poi, dove di fronte a quei volti sofferenti, a quelle persone in fuga trattenute nei centri ha parlato di «naufragio di civiltà». E poi quattro parole, quattro verbi ripetuti più volte che mettono in crisi il nostro stile e modello di accoglienza: accogliere, proteggere, promuovere, includere. Un percorso chiaramente indicato dall’accoglienza alla cittadinanza ancora da costruire.
Come il suo messaggio ha influenzato l’opinione pubblica italiana e mondiale?
Certamente ha scosso le coscienze rette, ha provocato governi, politiche economiche e sociali. Penso ai dieci punti della lettera ai vescovi statunitensi, dopo i tagli alle risorse del governo Trump all’accoglienza dei rifugiati, del febbraio scorso, dove Papa Francesco richiamava che «uno Stato di diritto autentico si dimostra proprio nel trattamento dignitoso che tutte le persone meritano, specialmente quelle più povere ed emarginate». Purtroppo, l’opinione pubblica è divisa ancora a metà, anche in Italia, tra chi vorrebbe chiudere e chi aprire ai migranti, forse influenzata anche da una narrazione falsa sul fenomeno migratorio. Occorre continuare a ripetere il magistero di Papa Francesco sui migranti, che ha saputo leggere con verità, profezia e realismo il fenomeno migratorio. Il Giubileo che viviamo è un tempo per rilanciare e non disperdere questo messaggio.
C’è stata l’attenzione dovuta da parte dei governanti? Oppure questo messaggio è stato ignorato o contrastato?
Se guardiamo agli atti dei diversi governi, dagli Stati Uniti all’Europa all’Australia, vediamo che le politiche sono andate nella direzione opposta alle parole del Pontefice, con critiche manifeste nei suoi confronti o silenzi indifferenti. Ma ci sono parole che seminano in profondità e i frutti si vedono nel tempo.
Tra chi ha criticato gli appelli del Papa all’accoglienza c’è chi ha utilizzato il tema del rischio di de-cristianizzazione dell’Europa se arriveranno molti immigrati di religione islamica. Cosa ne pensa?
Una strumentalizzazione della religione, da parte di chi spesso non pratica la fede, che non corrisponde alla realtà dei fatti. Altri sono i fattori di de-cristianizzazione dell’Europa. Anzi, l’incontro tra l’esperienza religiosa cristiana e quella islamica ha prodotto sotto il Pontificato di Papa Francesco un nuovo dialogo con l’islam, di cui la dichiarazione di Abu Dabi è solo un segno, e un lavoro comune anche nelle Chiese locali su temi come la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato, la promozione della donna.
Che tipo di cattolico è quello che invita ad alzare muri verso chi fugge da guerra e fame?
Lo ha ripetuto più volte il Papa: deve rivedere la sua fede alla luce del Vangelo e fare un salto di umanità nelle sue scelte morali.