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Il caso Sbilanciamoci. 102 proposte formulate dalla rete di 54 associazioni, movimenti e sindacati per una legge di bilancio alternativa a quella di Meloni & Co.

Patrimoni, armi, mega-opere: chi paga per un’altra manovra

Vale la pena di ridurre le entrate fiscali per quasi 18 miliardi di euro se questo comporta il taglio di un bel pezzo di spesa pubblica, welfare, servizi e trasporti locali? E vale la pena aumentare gli investimenti per le armi, ingrassando industrie militari a costo di definanziare la sanità, stendere per i prossimi dieci anni almeno l’università e la ricerca? Evidentemente no, ma è proprio quello che sta facendo il governo Meloni con la sua legge di bilancio fatta di tagli, austerità e investimenti «reaganiani» sulla guerra, sull’industria fossile e i grandi monopoli privati. Tutto questo mentre la crescita è dimezzata rispetto alle stime del governo, la produzione industriale è crollata e l’effetto del Pnrr sui conti pubblici è latitante.

Per capire cosa, davvero, sta facendo il governo guidato da Giorgia Meloni nella legge di bilancio bisogna leggere l’accurata analisi fatta dalla rete Sbilanciamoci, composta da 54 associazioni movimenti e sindacati. Ieri alla Camera ha presentato la sua «contromanovra» con 102 proposte alternative che compongono un’altra legge di bilancio di oltre 54 miliardi di euro a saldo zero e senza oneri per la spesa pubblica. Esattamente il contrario di quanto sta facendo il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti.

La manovra di Meloni e Giorgetti è un guscio vuoto, un documento contabile, poco trasparente e in diversi passaggi lacunoso e contraddittorio. Non contiene alcuna politica economica di rilancio e tanto meno di politica industriale. Tanto è vero che taglia 4,6 miliardi di euro al fondo per la transizione «green» dell’automotive. E mette una croce sui fondi per università e ricerca: ci sarà un taglio di 702 milioni in tre anni. A tale proposito Sbilanciamoci chiede l’investimento di 10 miliardi spalmati su istruzione e cultura.

Per capire la situazione bisogna leggere le tabelle sulla «spending review» ai ministeri. Non capita molto spesso, ma è proprio per questo che il governo può fare finta di nulla e procedere. Si tagliano 7,7 miliardi nei prossimi anni. E gli enti locali (regioni, comuni, province, ecc.) perderanno 5,6 miliardi complessivi. Non è una distopia, è la prospettiva scelta dal governo Meloni che ha firmato il nuovo patto di stabilità europeo, ben sapendo quali sarebbero stati gli effetti. Quest’ultimo dato, che è poi quello fondamentale, è ancora ben lungi dall’essere discusso, in Italia o altrove.

Sbilanciamoci propone una serie di passaggi decisi per invertire la tendenza. Propone “una misura che vale 24 miliardi” da finanziare tassando i patrimoni superiori al milione di euro. Tra le proposte c’è anche quella sulla progressività dell’Irpef sulle classi alte di reddito. Sbilanciamoci propone l’introduzione di tre nuovi scaglioni per i redditi che superabno almeno 5 volte il reddito medio dichiarato in sede Irpef: dal 45% tra i 100 e i 200 mila euro; del 50% tra i 200 e i 300 mila euro, del 55% sopra i 300 mila euro. Così si otterrebbero 2,8 miliardi in più senza ricorrere a condoni, sanatorie e regali agli evasori come sta facendo l’esecutivo delle destre. La progressività dell’Irpef è in generale l’opposto del disegno fiscale regressivo che stanno coltivando al ministero dell’economia.

Per le politiche industriali, chimera degli ultimi 40 anni, la «contromanovra» di Sbilanciamoci prevede l’istituzione di un’ «Agenzia nazionale per guidare i processi di transizione ecologica» con uno stanziamento di 6 miliardi. Anche in questo caso è un’idea opposta ai liberisti con i soldi pubblici che stanno al governo. Il loro progetto è dismettere ogni programmazione, a partire dalla transizione ecologica.

Sul lavoro, c’è la proposta di superare il Jobs Act, di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario, di fare il salario minimo e di creare una «misura strutturale di sostegno al reddito ispirata a un principio di universalità». Ma come si fa a finanziare tutto questo, a partire dai 9 miliardi chiesti per la Sanità? E qui si apre la partita politica: cancellare il Ponte sullo Stretto di Messina, annullare il Protocollo Italia-Albania e dei Cpr e basta spese militari, con un risparmio di 7,5 miliardi. Basta guerre, e tutelare una vita dignitosa, significa togliere l’acqua ai fabbricanti d’armi e agli speculatori. Alla presentazione della contromanovra ieri c’erano anche Schlein (Pd), Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli (Avs) oltre a parlamentari M5s. Le premesse per fare un programma ci sono, bisognerebbe approfondirle, per non affondare.

 

 

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Bruxelles Un doppio colpo alla strategia anti-Green deal dei cristiano-democratici europei, proprio nel giorno della prima riunione del «governo» von der Leyen II a Palazzo Berlaymont, mentre intorno allo smantellamento dell’ambizioso […]

Teresa Ribera - foto Philippe Buissin Teresa Ribera – foto Philippe Buissin

Un doppio colpo alla strategia anti-Green deal dei cristiano-democratici europei, proprio nel giorno della prima riunione del «governo» von der Leyen II a Palazzo Berlaymont, mentre intorno allo smantellamento dell’ambizioso programma ambientale europeo infuria la battaglia politica.

Protagonista, Teresa Ribera, commissaria alla «transizione pulita» indicata dal governo socialista di Madrid e fortemente avversata dalla componente spagnola del Ppe. Alla vigilia del primo collegio dei commissari, la vicepresidente esecutiva Ribera e numero 2 di fatto di Ursula von der Leyen aveva respinto con forza l’idea che esista un piano per ritardare il divieto di vendita di auto a diesel e benzina, previsto per il 2035. «Nessuno sta prendendo in considerazione la modifica delle scadenze», ha dichiarato recandosi in visita allo stabilimento Arcelor Mittal di Ghent, in Belgio.

Parole che stridono con quelle della presidente della Commissione. Dopo aver avocato a sé la gestione della crisi del settore, von der Leyen ha annunciato per l’inizio del 2025 l’avvio del «dialogo strategico», partendo proprio dall’ascolto dell’industria automotive. Il piano allo studio è quello di favorire i carburanti green e congelare già dal 2025 le sanzioni per le case automobilistiche che non si adeguano agli standard per raggiungere l’obiettivo delle emissioni zero.

Perfino questo compromesso suona come una smentita delle posizioni politiche più oltranziste. Quella del Ppe, la prima famiglia politica europea a cui la stessa von der Leyen appartiene, che l’11 dicembre presenterà un «position paper» per chiedere di revocare il divieto dei motori a combustione a partire dal 2035. La «balena bianca» europea fa da cassa di risonanza alle pressioni da parte della potente industria automobilistica europea, ma non è da meno il governo Meloni, che con il ministro Urso ha proposto in sede di Consiglio Ue un documento per anticipare la revisione della norma sui motori dal ‘26 al prossimo anno. Una iniziativa appoggiata da diversi paesi (Austria, Bulgaria, Repubblica Ceca, Polonia, Romania e Slovacchia) ma non dai big Spagna, Francia e Germania. E se da un lato la Commissione Ue ha aperto a carburanti alternativi come gli e-fuel, come suggerito da Berlino, non sembra intenzionata al momento a concedere quella «neutralità tecnologica» che tanto interessa a Roma e ai suoi alleati. Anche perché lo scopo evidente della strategia italiana è quello di indebolire la prospettiva dell’elettrico.

Sorte diversa per un altro pilastro del Green Deal, ovvero l’importante norma sulla Deforestazione, che sembra invece salvo, almeno al momento. Le tre istituzioni legislative europee (Commissione, Parlamento e Consiglio Ue) si sono riunite per stabilire che l’entrata in vigore del provvedimento slitterà sì di un anno, come già convenuto, però non sarà modificato nella sostanza. Quello di snaturarlo era l’intento di Ppe e destre, che poche settimane fa avevano votato insieme delle modifiche sostanziali al regolamento, che l’avrebbero reso di fatto inefficace. D’altronde, tra le leggi più avanzate di tutela ambientale approvate dall’Ue e non del tutto martoriate dai compromessi (come invece quella sugli imballaggi) ci sono la direttiva sull’Etica d’impresa per la sostenibilità o la cosiddetta direttiva Casa green. Difficile pensare che il Ppe e le destre europee, che già hanno votato insieme diverse volte, non le abbiano già messe nel mirino della loro prossima battaglia. Per provare a demolire il Green deal pezzo dopo pezzo.

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In Francia, dopo tre mesi, cade il governo Barnier. La prima «sfiducia» in 60 anni è il fallimento del presidente sovrano Macron. Che si è rifiutato di riconoscere il risultato delle elezioni anticipate, ha spalancato la strada a Le Pen e si ritrova senza bilancio in una crisi al buio

Francia Cade su una mozione presentata dalla sinistra e votata dal Rassemblement national. Obiettivo della “censura” il presidente Macron, che spera di nominare il prossimo premier in 24 ore

Michel Barnier ieri dopo il suo intervento all'Assemblea nazionale - foto Ansa Michel Barnier all’Assemblée Nationale – Ansa

Il governo Barnier cade dopo 3 mesi di vita con un voto di sfiducia votato da 331 deputati su 574. È stato il più corto della V Repubblica, il secondo a cadere sulla “censura”, 70 anni dopo Pompidou nel 1962. Travolto sul bilancio della Sécurité sociale, cade contemporaneamente anche la Finanziaria per il 2025, su una mozione presentata dal Nuovo Fronte Popolare e votata dal Rassemblement national, che pure ha presentato un secondo testo di censura, reso caduco dall’esito del primo voto.

Mentre l’Assemblée Nationale vota, il presidente Macron atterra di ritorno dal viaggio di stato in Arabia Saudita. La vigilia, il presidente ha respinto ogni ipotesi di dimissioni. I tempi sono stretti per designare un primo ministro e cercare di riportare la calma. Oggi c’è sciopero nella scuola. L’inquietudine cresce sull’economia, ci sono 160mila posti di lavoro a rischio per la chiusura di fabbriche. Ieri è stato un giorno storico per la politica, mentre si apre un altro momento storico per la Francia, le cerimonie per la riapertura di Notre Dame, 5 anni dopo l’incendio, alla presenza di numerosi capi di stato e di governo, Donald Trump compreso.

MICHEL BARNIER si è difeso, ma già rassegnato: sarà «tutto più grave e più difficile», la realtà sono 60 miliardi di costo dei tassi di interesse, «più del bilancio della Difesa, più di quello delle Università», è «sovranità» anche questa, ha affermato rivolgendosi a Marine Le Pen. Alla sinistra dice: la Finanziaria non è una scelta di «austerità», è realismo. Piccola consolazione: è passata ieri la legge di fine gestione del bilancio 2024, grazie a un accordo interpartitico.

Eric Coquerel della France Insoumise, presidente della commissione finanze dell’Assemblée Nationale, ha aperto la scena ieri pomeriggio, per difendere la prima mozione di censura, la sfiducia presentata dal Nuovo Fronte Popolare. Coquerel non pensa già più a Barnier ma parte all’attacco del presidente Macron, «vero responsabile» della «maledizione» che grava sul governo fin dall’origine, l’«illegittimità» di un primo ministro uscito dalla forza politica – i Républicains – che ha «fatto il peggior risultato» alle legislative anticipate e ha cercato compromessi «solo con l’estrema destra», mentre «una maggioranza di cittadini non è dietro il governo né dietro il presidente della Repubblica che l’ha nominata». Oggi, «suoniamo la campana a morte di un mandato, quello del presidente della Repubblica».

SEGUE MARINE LE PEN, che ha confermato che il Rassemblement National vota la sfiducia presentata dalla sinistra, certo «malvolentieri». Marine Le Pen spiega l’«illusione ottica» fatta di «intransigenza, settarismo, dogmatismo», con «milioni di francesi ignorati, cancellati» da un governo «privo di legalità democratica». L’estrema destra si scaglia contro un budget «recessivo, tecnocratico, una contabilità fredda, una routine spendacciona» – «dove vanno i soldi?» – mentre si vanta di difendere il potere d’acquisto e la sicurezza, contro un’«immigrazione» affiancata alla «criminalità». Marine Le Pen è più prudente nel prendere di mira direttamente Macron, ma la strategia dell’estrema destra è insidiosa, intende diffondere nell’opinione pubblica il «veleno lento della dimissioni».

Marine Le Pen nell'intervento all'Assemblea - Ap
Marine Le Pen nell’intervento all’Assemblea – Ap

Marine Le Pen ha però fretta, il 31 marzo prossimo è prevista la sentenza per la frode al parlamento europeo sull’impiego degli

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In Siria è «guerra mondiale». Raid russi su Idlib, centinaia di morti negli scontri, civili in fuga. E il conflitto si estende: anche le forze curde contro Damasco, supportate da jet Usa o israeliani. Mentre la Turchia attende che l’avanzata jihadista costringa Assad a fare concessioni

Siria Scontri tra le Sdf e l’esercito a Deir Ezzor. La Turchia attende che l’avanzata jihadista costringa il regime a fare concessioni. Bombardamenti aerei statunitensi sulle milizie sciite giunte dall’Iraq in soccorso della Siria

Siria, jihadisti nei pressi di Hama - AP Siria, combattenti nella città di Hama – foto di Ghaith Alsayed/Ap

Il campo di battaglia in Siria si fa sempre più affollato ad una settimana dall’attacco a sorpresa lanciato dai jihadisti filoturchi di Hay’at Tahrir al Sham (Hts) alla città di Aleppo. L’esercito siriano pare aver recuperato in parte la sua coesione, ma mentre cerca di opporsi, con l’appoggio dell’aviazione russa, all’avanzata di Hts e dei suoi alleati verso Hama, nella Siria centrale, i suoi reparti nella provincia orientale di Deir Ezzor, non lontano dalla frontiera con l’Iraq, si sono ritrovati sotto il fuoco delle Sdf curde. Contemporaneamente cacciabombardieri non identificati – statunitensi o israeliani, non ci sono dubbi – hanno preso di mira le milizie irachene sostenute dall’Iran che entrano in Siria, allo scopo di impedire rinforzi di uomini, armi e mezzi vitali per l’esercito siriano. Ieri, ad esempio, combattenti sciiti giunti dall’Iraq hanno fermato l’avanzata di Hts, lungo la strada che collega Aleppo a Khanaser.

IN QUESTO QUADRO il movimento sciita libanese Hezbollah ha dovuto ritirare i suoi combattenti dalla Siria e riportarli in Libano del sud mentre la tregua con Tel Aviv raggiunta nei giorni scorsi resta precaria. Israele, infatti, è tornato a colpire in Libano e ieri ha anche ucciso sulla strada per l’aeroporto di Damasco un ufficiale di Hezbollah, Salman Jamaa, che teneva i collegamenti con le forze armate siriane.

Gli scontri nella Siria orientale sono avvenuti intorno a un gruppo di sette villaggi – al Salhiya, Tabia, Hatla, Khesham, Marrat, Mazloum e Husseiniya – oltre il fiume Eufrate. Il Consiglio militare di Deir Ezzor, formato da arabi e divenuto un alleato delle Sdf curde dopo mesi di scontri con i curdi, ha attaccato le posizioni dell’esercito siriano affermando di voler riportare a casa le famiglie costrette a fuggire dai villaggi quando sono stati ripresi dell’esercito siriano. Le Sdf hanno aggiunto che è loro compito proteggere quei villaggi perché sono esposti alle scorribande di cellule dell’Isis (ancora operative in quella zona) che i comandi militari siriani non contrasterebbero.

La mossa curda a Deir Ezzor ha sorpreso non pochi. Sebbene le relazioni tra Damasco e i miliziani curdi siano fredde e tese – le autorità centrali siriane li considerano

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5 Stelle La mossa del fondatore a tre giorni dalla ripetizione del voto online che cancella la sua carica. Conte convoca per questa sera l’assemblea congiunta dei parlamentari

L'annuncio del comunicato fatto da Beppe grillo ieri - foto Ansa L'annuncio di Beppe Grillo

La settimana che culminerà con la partita di ritorno tra Giuseppe Conte e Beppe Grillo comincia con la contro-mossa del garante. O meglio, con l’annuncio di una rivelazione che arriverà questa mattina recapitato via social con tanto di fotografia che ritrae insieme i due fondatori del M5S: accanto a Grillo c’è Casaleggio. «Domani, martedì alle 11.03, collegatevi sul mio blog, sul mio canale Youtube e sulla mia pagina Facebook – dice il primo – Ho un delicato messaggio da annunciare».

Dalle parti di via Campo Marzio non hanno idea di cosa possa accadere. «Racconterà in un messaggio importante, scomode verità. Seguiamo cio’ che dirà senza preconcetti e pregiudizi» sostiene l’ex parlamentare del Movimento 5 Stelle e Italia dei valori, Elio Lannutti, espulso da M5S per non avere votato a favore della fiducia al governo Draghi contravvenendo alle indicazioni dell’epoca dello stesso Grillo.

Insomma, il messaggio potrebbe contenere alcune rivelazioni che evidentemente per tutti i dissidenti della svolta contiana, i quali ormai si trovano in gran parte già fuori dal M5S, potrebbero fare la differenza ed evitare che l’ex premier si affermi anche nella seconda votazione online, convocata da giovedì 5 a domenica 8 dicembre.

Alcuni ipotizzano anche che Grillo possa disconoscere e annunciare l’impugnazione dello statuto scritto quando Conte sì insediò, nel 2022, e che lui stesso accettò di firmare. In quella occasione gli venne ritagliato il ruolo a tempo indeterminato di garante (lo stesso che con le votazioni della scorsa settimana è stata cancellato con un tratto di penna). Da quel momento in poi gli si riconobbe l’emolumento di 300 mila euro all’anno in qualità di consulente alla comunicazione.

Qualche giorno fa, inoltre, è spuntata una scrittura privata con la quale Grillo rinuncerebbe a ogni diritto sul nome e sul simbolo del M5S. La questione è molto ingarbugliata perché il M5S è composto da regole e formule legali che si sono affastellate nel corso degli anni. Se dovesse prevalere la linea che riconosce la titolarità del simbolo all’associazione che venne costituita da Luigi Di Maio quando era leader e dal notaio di Grillo, il simbolo sarebbe appannaggio del presidente regolarmente eletto, cioè di Conte. Grillo ha provato a rivendicare il marchio in nome del soggetto che costituì alle origini insieme a Casaleggio. Da questo punto di vista, però, Conte ha una carta in più da giocare, perché per prassi si riconosce l’uso del simbolo alla forza politica che ha una rappresentanza parlamentare. L’anomalia ulteriore, peraltro, sarebbe costituita dal fatto che Grillo vorrebbe riappropriarsi del suo brand non per consegnarlo a qualcuno o rimetterlo a valore in chiave elettorale, ma per rottamarlo o, come ha detto il suo avvocato, «consegnarlo a un museo». Insomma, non vi sarebbe uno sbocco politico alla contesa, se dovesse prevalere il fondatore. Su questo puntano molto Conte e i suoi per prevalere di nuovo nelle urne virtuali di fronte alla campagna per l’astensione portata avanti da chi rivendica un ritorno alle origini.

Intanto, il leader ha convocato una assemblea congiunta dei parlamentari per questa sera. «Non mi aspetto nulla, aspettiamo che si rivoti – spiega – Grillo ha chiesto che si rivoti e voteremo, ha chiesto la riconferma di un bagno di democrazia e abbiamo risposto richiamando tutti gli iscritti a votare, questa è la democrazia». Dalla sua parte, questa volta, c’è anche Chiara Appendino, che in fase di dibattito pre-assemblea costituente aveva avanzato alcuni distinguo e pareva potersi porre in posizione mediana tra avvocato e fondatore. Adesso invita tutti a votare: «Penso sia giusto farlo, e il più velocemente possibile per fare ripartire il Movimento 5 Stelle. E francamente penso che invitare a non votare o fare ostruzionismo a un percorso che ha già deliberato sia la cosa più lontana che ci sia dai principi del M5S». Non pervenuta, ancora una volta, Virginia Raggi, unica big ancora dentro il partito data in rapporti con Grillo.

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Guerre Seminario a porte chiuse con D’Alema, Prodi e Schlein. Annunziata insiste su una soluzione diplomatica. Tarquinio: «Qualcosa si sta muovendo». L'ex leader Ds torna al Nazreno dopo 9 anni: bisogna archiviare il G7 e rafforzare il G20 per ricucire tra nord e sud del mondo, l'Occidente si rassegni al multipolarismo

Il Pd prova a togliersi l’elmetto: «Serve una road map Ue per la pace in Ucraina» Massimo D'Alema – LaPresse

Un timido venticello di pace soffia attorno alla sede Pd del Nazareno. Occasione: l’incontro di ieri pomeriggio a porte rigorosamente chiuse, organizzato dal responsabile esteri Peppe Provenzano su input di Elly Schlein. Il seminario, dal titolo «L’Europa nel mondo in fiamme», è stata l’occasione per due grandi ritorni al Nazareno, Romano Prodi e Massimo D’Alema («Non venivo da 9 anni», il commento dell’ex leader dei Ds).

Dopo aver votato con grandi sacrifici e molte divisioni, il 28 novembre, la risoluzione del Parlamento Ue che autorizza l’invio di missili all’Ucraina e la possibilità di colpire il territorio russo, i dem ieri si cono ritrovati per una sorta autocoscienza. Lucia Annunziata, eurodeputata che spesso tratta dentro i socialisti e con gli altri gruppi le risoluzioni sulle guerre, pur precisando di non essere pacifista, ha spronato i vertici Pd a non rassegnarsi all’ineluttabilità della Terza guerra mondiale e ha ricordato come sia venuto il tempo, per l’Ue, di proporre una seria road map per una soluzione politica della guerra in Ucraina. Basta missili, l’Europa deve battere un colpo, l’aiuto di cui Kiev oggi ha bisogno è come uscire da questo conflitto, ha detto l’ex direttrice di Huffpost.

Anche D’Alema ha insistito sulla necessità di più politica e diplomazia in uno scenario globale in cui il peso dell’occidente è sempre più minoritario di fronte all’affermarsi dei Brics. L’ex premier ha suggerito un approccio meno muscolare, sottolineando che un nuovo ordine multipolare non nascerà dai conflitti, ma da una presa d’atto dell’Occidente di dover convivere con altre potenze. E ha lanciato l’idea di abolire il G7, lasciando il G20, per ricomporre la frattura tra nord e sud del mondo. Una ricucitura che spetta, in primo luogo, alle forze progressiste europee e americane: considerando che i dem Usa hanno pagato un alto prezzo elettorale per le loro scelte in polita estera, a partire dalla Palestina.

Tanti gli interventi, interni esterni al partito: dall’ambasciatore Pietro Benassi all’economista Mariana Mazzuccato. E poi Graziano Delrio, Laura Boldrini, Marco Tarquinio: interventi che hanno puntato sulla necessità di soluzioni diplomatici. «Non ci sono stati strilli militaristi», assicura una fonte che ha seguito i lavori. Schlein, nelle conclusioni, non ha annunciato un cambio di linea, ma ha posto l’accento sulla necessità che l’Ue faccia di più sul terreno politico.

«Le cose dentro il Pd si stanno muovendo», ragiona Tarquinio. «Schlein, pur senza capovolgimenti, sta cercando di ridare cittadinanza alla parola “pace” dentro il gruppo socialista. E il voto di 5 giorni fa ha segnalato che questa consapevolezza sta aumentando». Anche Prodi ha invitato l’Ue a non farsi scavalcare da Trump sul terreno della diplomazia. A non restare come gli ultimi giapponesi a presidiare la necessità di un’escalation. +

L’ex premier ha insistito sulla difesa comune europea, ma non nella chiave di una corsa al riarmo, semmai di una razionalizzazione delle spese per la difesa. Durante l’incontro si è ragionato anche sui rischi derivanti dal fatto che i nuovi responsabili della politica estera e della difesa europee sono due baltici, Kaja Kallas e Andrius Kubilius: due figure decisamente poco inclini ad una trattativa con la Russia che si fa sempre più inevitabile

 

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