Guerra ucraina Il più pesante attacco russo da settimane arriva poche ore dopo il messaggio del tycoon contro Zelensky. Poi bacchetta Mosca. Bloomberg: gli Stati uniti pronti a rivedere i punti del loro piano di pace. Ma i presupposti sono sempre più deboli
Feriti nell'attacco russo contro la città di Kiev – Ap/Evgeniy Maloletka
Mentre gli Stati uniti schiaffeggiano l’Ucraina a parole, la Russia si inserisce con droni e missili. Dopo il furioso messaggio pubblicato martedì da Donald Trump, in cui accusava Zelensky di aver fatto fallire gli sforzi di pace, nella nottata di ieri il Cremlino ha sferrato un massiccio attacco nei cieli di Kiev. Al momento, si contano 13 morti civili (tra cui sei minori) e oltre 60 feriti.
Numerosi gli edifici colpiti, con persone sotterrate dalle macerie. In realtà, è stata tutta l’area centro-orientale del paese a essere presa di mira (soprattutto le grandi città, tra Kharkiv, Dnipro, Cherson e Zaporizhzhia) ma un’offensiva così sanguinosa nella capitale non si vedeva dalla scorsa estate.
LA TEMPISTICA punta in una direzione piuttosto chiara. Il presidente ucraino, che nel frattempo si era recato in Sudafrica per un incontro con il suo omologo Cyril Ramaphosa (visita che è stata ridotta per via delle stragi in patria), ha commentato in maniera amaramente sarcastica: «Abbiamo assistito a uno degli attacchi più complessi e sfacciati da parte di Mosca. A cosa sarà mai collegato? Di certo non ai miei impegni diplomatici qui in Sudafrica».
Dure condanne anche da parte europea, a partire dall’alta rappresentante Kaja Kallas. A quel punto pure la Casa bianca – che, per quanto accondiscendente col Cremlino e ruvida verso Kiev, cerca comunque di presentarsi come “mediatore” – si vede costretta a fare marcia indietro.
Le dichiarazioni di Trump, a dire il vero, suonano quasi come un belato rivolto al leader russo: «Non sono contento del bombardamento di stanotte – ha scritto su Truth Social – Non necessario, e in un brutto momento. Vladimir, smettila!». A cascata, però, arrivano alcune indiscrezioni di Bloomberg secondo cui gli Stati uniti rivedranno i punti del loro piano di pace.
Mosca dovrebbe accettare che Kiev mantenga e strutturi le proprie forze di difesa (richiesta che va contro le pretese di «smilitarizzazione» qua e là avanzate dal Cremlino) e ci sarà una maggiore insistenza sul ritiro delle truppe di Putin da alcune piccole aree di territorio occupato nonché sulla cessione del controllo della centrale nucleare di Zaporizhzhia (che probabilmente Washington punta ad amministrare).
A MENO DI ULTERIORI colpi di scena, l’inviato speciale Usa Steve Witkoff è atteso nei prossimi giorni in Russia per discutere di queste proposte. Ma il caos che si è prodotto nelle ultime ore potrebbe aver gettato sui negoziati un’ombra destinata a durare a lungo e inficiare qualsiasi altro tentativo.
O meglio, tra bombardamenti continui e comportamenti ondivaghi dei diversi attori in campo la “pace” immaginata da Trump rivela tutta la debolezza dei suoi presupposti: il Cremlino è ben disposto a concedere aperture retoriche e magari anche ad accaparrarsi qualche accordo che lo avvantaggi (come l’allentamento delle sanzioni), salvo poi mettere in chiaro sul campo di battaglia che le proprie intenzioni restano sanguinose; la Casa bianca, pur giocando una partita di ristrutturazione delle proprie alleanze e dell’ordine globale, non sembra forse pronta per sterzate così brusche e clamorose quale sarebbe l’abbandono completo dell’Ucraina (forse anche per resistenze negli apparati interni); Kiev fa quel che può, impegnandosi in controffensive di persuasione diplomatica (come la già citata visita a Ramaphosa, la prima di Zelensky in un paese africano) e siglando memorandum di intesa economica con Washington, ma mantenendo ferme le «linee rosse» dell’integrità territoriale (da cui il rifiuto categorico di cedere la Crimea).
In questo “stallo”, che comunque costa continue morti e distruzione, l’Europa mostra fermezza promettendo sanzioni contro la Russia fino alla fine del conflitto. Ma il progetto della «coalizione dei volenterosi» per inviare forze militari di peacekeeping o di supporto in Ucraina, unica “carta” concreta in mano a Bruxelles che potrebbe potenzialmente deviare le sorti della guerra (non per forza per il meglio, dati i rischi), è poco più che un’opzione teorica. A scanso di equivoci, arrivano le minacce del generale russo Sergej Shoigu: «Pronti a usare l’atomica, se aggrediti dall’occidente».
Commenta (0 Commenti)Fratello solo Continua l'arrivo dei cardinali a Roma. Attese oltre 170 delegazioni da tutto il mondo. I primi posti riservati a Italia e Argentina. Con 133 votanti, sarà l’elezione più affollata della storia della Chiesa
Cardinali in Piazza San Pietro – foto Ap
È già stata realizzata la tomba di Papa Francesco, una struttura in marmo con solamente l’iscrizione “FRANCISCUS” e la riproduzione della sua croce pettorale, allestita nel loculo della navata laterale tra la Cappella Paolina e la Cappella Sforza della Basilica di Santa Maria Maggiore, dove papa Bergoglio aveva esplicitamente chiesto di essere sepolto. Mentre a San Pietro, anche ieri, decine di migliaia di persone, cattolici ma anche molti laici, si sono messe in fila per rendere omaggio alla salma del papa.
Un serpentone diretto nella basilica fino ai piedi dell’altare della Confessione, dove si trova il papa, posto su una pedana leggermente sopraelevata e adagiata su un tappeto.
Aumentano intanto i cardinali già arrivati a Roma. Che si sono riuniti ieri per la terza seduta la Congregazione generale, che ha il compito di guidare questa fase di “sede vacante” e che ha discusso dei rapporti tra la Chiesa e il mondo.
Sono riunioni in cui i cardinali si confrontano, comprendono i diversi orientamenti esistenti e cominciano a tessere relazioni e alleanze. Fino a sabato, giorno dei funerali, non si conoscerà però la data esatta in cui avrà inizio il conclave (prevedibilmente tra il 5 e il 10 maggio). Alle esequie sono attese oltre 170 delegazioni da ogni parte del mondo. Il protocollo prevede che i primi posti siano assegnati ai presidenti di Italia e Argentina (il Paese natale del Papa); poi i sovrani cattolici regnanti, il gran maestro dell’Ordine di Malta e poi i sovrani regnanti non cattolici. Infine i capi di Stato in ordine alfabetico francese, la lingua della diplomazia. Le autorità civili verranno fatte sedere sulla parte destra del sagrato guardando la basilica. I cardinali saranno tutti schierati davanti all’ingresso.
Se alle Congregazioni partecipano sia i cardinali elettori (sotto gli 80 anni), che i non elettori, al conclave prenderanno invece parte solo i 133 elettori, due in meno dei 135 aventi diritto. Ci sono state infatti due defezioni per motivi di salute: il cardinale Antonio Canizares Llovera, 79 anni, arcivescovo emerito di Valencia, e il cardinale Vinko Puljic, anche lui 79enne, arcivescovo emerito di Sarajevo.
Quello del 2025 sarà comunque il conclave più affollato della storia della Chiesa: agli ultimi due (2005 e 2013) avevano partecipato infatti “solo” in 115. 109 dei cardinali elettori sono stati creati da Francesco. Tra loro in teoria c’è anche Angelo Becciu, già prefetto del dicastero delle Cause dei Santi. Lui però, in seguito allo scandalo finanziario che lo ha travolto, nel 2020 fu rimosso dal papa dalla carica e gli furono revocati i «diritti connessi» al cardinalato. Una formula vaga, che pareva indicare che non avrebbe potuto partecipare ai concistori (la riunione tra il papa e i cardinali) e al conclave. Solo che nel 2022 Becciu, su esplicita richiesta del papa, venne invitato al concistoro convocato per la creazione di venti nuovi cardinali e alle riunioni sulla riforma della Curia romana.
Lui allora disse di essere stato «reintegrato» dal papa, ma non venne pubblicata alcuna nota ufficiale vaticana a confermarlo. Anzi, sul sito del Vaticano il nome di Angelo Becciu compare tra i cardinali «non elettori».
«Non esiste alcun impedimento formale o giuridico alla mia presenza tra gli elettori del nuovo pontefice», ha detto però Becciu subito dopo la morte di papa Francesco, annunciando la sua partenza dalla Sardegna per Roma. L’ultima parola spetterà, probabilmente, alla Congregazione Generale.
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Bruxelles Von der Leyen ha voluto accelerare l’iter di approvazione, che dovrà passare soltanto al vaglio dei rappresentanti dei governi in sede di Consiglio Ue, ma non all’Eurocamera.
Sessione del Parlamento Europeo – AP
Il Parlamento europeo censura la Commissione sul piano di riarmo. Non ne respinge il contenuto, che ha già di fatto abbracciato a maggioranza attraverso l’approvazione di mozioni di supporto alla presidente von der Leyen, ma boccia la scelta dall’esecutivo Ue di optare per una procedura d’urgenza che bypassa la stessa assemblea parlamentare.
Il piano von der Leyen da 800 miliardi complessivi, infatti è stato avviato su un binario rapido, attraverso il ricorso all’articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell’Ue. Con questo escamotage, von der Leyen ha voluto accelerare l’iter di approvazione, che dovrà passare soltanto al vaglio dei rappresentanti dei governi in sede di Consiglio Ue, ma non all’Eurocamera. In questo modo, il piano mira a evitare gli emendamenti, e dunque il confronto politico, che accompagnano il normale percorso di una legge europea.
Ieri la Commissione giuridica del Parlamento (Juri) ha approvato in una seduta a porte chiuse la relazione del servizio giuridico della stessa assemblea, che giudicava illegittima la scelta della procedura d’urgenza. Ambienti dell’Eurocamera riferiscono di un voto espresso all’unanimità dagli europarlamentari membri della commissione, a dimostrazione del fatto che la scelta di von der Leyen non è andata giù neppure al suo partito di appartenenza, ovvero il Ppe. All’indomani della presentazione di ReArm, il leader popolare Manfred Weber era intervenuto in Aula a Strasburgo. «Il Parlamento deve essere pienamente coinvolto, bypassarlo con l’articolo 122 è un errore», aveva detto.
Bisogna precisare che il voto di Juri non è vincolante per l’esecutivo europeo. Ora la presidente del Parlamento Roberta Metsola dovrà comunicare il pronunciamento a von der Leyen e quest’ultima avrà due possibilità: andare avanti con la procedura d’urgenza, oppure trasformare il provvedimento in un normale regolamento, da sottoporre all’iter parlamentare standard. Se la leader tedesca scartasse la seconda possibilità, all’Eurocamera non resterebbe che tentare il ricorso alla Corte di Giustizia Ue, chiedendo alla istituzione giudiziaria con sede in Lussemburgo di esprimersi riguardo alla conformità ai Trattati. «Metsola ottiene un sostegno formale per farsi sentire», commenta una fonte parlamentare. «Il conflitto di attribuzione è tutto da vedere. Però ci sono dei precedenti».
La bocciatura della procedura scatena le reazioni da diverse parti politiche anche nel merito del provvedimento. A nome del gruppo Left, il 5S Furore parla di «voto storico» con cui viene «dichiarato illegale» il riarmo Ue. «La sua arroganza è stata sconfitta», si legge ancora in una nota della delegazione Ue dei pentastellati, che insistono sul «sussulto di dignità del Parlamento europeo». Mentre sia il leader pentastellato Giuseppe Conte che Nicola Fratoianni per Avs invitano al ritiro dell’iniziativa della Commissione, anche la Lega (gruppo Patrioti) esulta per la sconfitta politica di von der Leyen: «Bisogna fermare questa follia». Da Washington, dove ha tenuto un discorso all’Atlantic Council, risponde indirettamente il commissario al Commercio Valdis Dombrovskis. Che rilancia: «Il piano consente l’aumento delle spese per la difesa dal 2 al 3% del Pil. Però se serve, faremo ancora di più».
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Giro di vite La Corte di appello di Bari non convalida il nuovo trattenimento nel Cpr pugliese. I centri in Albania diventano una via di fuga. Intanto l’esecutivo trova un giudice di pace, ma il via libera alla detenzione è effimero
Un gruppo di migranti entra nel centro di Shengjin, in Albania – Valeria Ferraro/Sopa Images
Chi chiede asilo in Albania non solo torna in Italia: torna libero. Ieri la Corte di appello di Bari ha negato la convalida del secondo trattenimento di H. A., il cittadino marocchino che con la sua domanda di protezione internazionale ha mandato in tilt la seconda fase del protocollo con Tirana. Convalida richiesta dal questore del capoluogo pugliese.
La vicenda ha dei tratti kafkiani che sono il risultato di un fatto ben preciso: il governo Meloni continua ad arrampicarsi sugli specchi, giocando sul filo delle normative nazionali ed europee, pur di riempire i centri d’oltre Adriatico. Il migrante era stato portato a Gjader dal Cpr di Palazzo San Gervasio l’11 aprile con altre 39 persone, nel giorno che ha inaugurato le deportazioni di “irregolari” dall’Italia. La settimana seguente il cittadino marocchino ha fatto domanda d’asilo, per la prima volta da quando nel 2021 era arrivato in Europa. Il suo status giuridico è cambiato: è diventato un richiedente protezione internazionale.
COMPETENTE sul suo caso è così diventata la Corte d’appello di Roma che ha cassato la detenzione perché a quel punto l’uomo non poteva essere sottoposto né alle procedure di rimpatrio, per i cittadini stranieri che non hanno titolo di soggiorno, né a quelle di frontiera, ovvero l’iter accelerato per l’esame della domanda d’asilo riservato solo a chi non è mai entrato nel territorio nazionale. Sono le uniche due possibili nell’intesa Meloni-Rama.
Così domenica H. A. è stato riportato indietro e trasferito a Bari. Ma non è stato liberato, ha ricevuto un secondo provvedimento che ne ordinava la detenzione. Lo hanno firmato le locali autorità di polizia. Come prevede la Costituzione, entro 48 ore si è espresso il giudice competente: la Corte d’appello di Bari. Che ieri ha detto no alla convalida del nuovo trattenimento.
LE RAGIONI sono molto tecniche e riguardano i commi dell’articolo sesto della legge che recepisce nel diritto italiano la «direttiva accoglienza» dell’Ue. Il magistrato ha ritenuto legittima la richiesta del questore, nel senso che non violava i termini imposti dalla Costituzione, ma l’ha respinta per vizi di forma. L’inghippo si nasconde nei dettagli. Nei commi, più che altro. Quello citato dal questore di Bari, il secondo, fa riferimento a cittadini in libertà che chiedono asilo. Ma H.A. era sottoposto a regime di detenzione. Il suo caso rientra nelle circostanze previste dal terzo comma, che riguarda appunto le persone trattenute. Ma persino così la sua detenzione sarebbe stata nulla. L’intervento del giudice sarebbe arrivato oltre i termini imposti dalla Costituzione: 48 ore.
A questo punto della storia l’unico comma che viene in mente è il 22: quello che prende il nome dal celebre romanzo di Joseph Heller e indica una situazione paradossale, senza via d’uscita. Ma, paradosso nel paradosso, qui l’unica cosa chiara è che una via d’uscita c’è: i centri in Albania sono il viatico per la libertà dalla detenzione amministrativa. A meno di colpi di scena e casi ancora più contorti chiunque chiederà asilo a Gjader, provenendo da un Cpr italiano, tornerà a piede libero. Un bel boomerang con cui il governo a un certo punto dovrà fare i conti: i funerali di papa Francesco non catalizzeranno l’attenzione pubblica in eterno.
DAL CANTO SUO anche l’esecutivo potrebbe vantare una effimera vittoria: sempre ieri ha finalmente trovato un giudice che ha convalidato i trattenimenti in Albania. Si tratta, ça va sans dire, di un giudice di pace. Quello che per gli italiani tratta solo questioni di poco conto ma per gli stranieri, grazie a una legge berlusconiana, ha potere su un diritto fondamentale come la privazione della libertà personale. Ieri a Roma un giudice di pace ha detto un doppio sì alla proroga della detenzione a Gjader per degli “irregolari”.
Ma durante l’udienza uno dei due, un cittadino del Bangladesh, ha chiesto asilo. Finirà dunque davanti alla stessa Corte di appello che ha stabilito come l’analogo caso di H. A. non rientrasse nel protocollo. Non solo: c’è un terzo migrante che tra le mura del Cpr albanese ha chiesto asilo nei giorni scorsi e oggi avrà l’udienza con il giudice di secondo grado della capitale. In base a quello sappiamo finora tutto lascia credere che dovrà essere riportato in Italia e, già nei prossimi giorni, tornerà in libertà.
A PARZIALE FAVORE del giochino del governo potrebbe deporre una sentenza della Cassazione arrivata sempre ieri. In sostanza stabilisce che nel caso del passaggio di status giuridico da migrante “irregolare” a richiedente asilo le 48 ore per la richiesta di convalida del trattenimento non sono perentorie. L’autorità di polizia può sforare, anche se non in modo eccessivo e ingiustificato. Tutto quello che è avvenuto per H. A., insomma, si riproporrebbe uguale. Forse a un ritmo più lento.
Il governo ha comunque un grosso problema e dovrà inventarsi qualcosa. La voce di come funziona il meccanismo si diffonderà presto tra gli altri migranti rinchiusi nel Cpr di Gjader.
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Territori occupati Si è aperta ieri, tra le polemiche, la sessione del Consiglio centrale dell'Olp. Hussein Sheikh potrebbe diventare vicepresidente
Ramallah. Abu Mazen apre i lavori del Consiglio centrale dell'Olp – AP/Nasser Nasser
«La descrivevano come una riunione destinata a ricreare le condizioni per l’unità palestinese; al contrario, questo incontro ha allargato le fratture interne e dimostrato la mancanza di democrazia che ormai regna nelle istituzioni palestinesi». Lo diceva ieri al manifesto Mustafa Barghouti, leader del partito Iniziativa nazionale, a proposito dei lavori del Consiglio centrale dell’Olp, convocati dal presidente Abu Mazen a Ramallah e che si concluderanno questa sera. «Ho boicottato questa riunione organizzata senza aver consultato tutte le forze politiche. Sono un membro eletto del Consiglio centrale e capo di un partito, eppure non sono stato invitato alle fasi preparatorie», ha aggiunto Barghouti. Le sue previsioni negative hanno buone probabilità di avverarsi. La riunione del Consiglio centrale – espressione ridotta del Consiglio nazionale palestinese (il parlamento dell’Olp) – segna una nuova rottura, forse irrecuperabile, tra Abu Mazen e Hamas nel momento più difficile per Gaza e i palestinesi.
Aprendo i lavori, Abu Mazen ha inveito contro il movimento islamico, arrivando a definire i suoi leader «figli di cani». «Perché non consegnate gli ostaggi americani?… Non date pretesti a Israele. Liberate coloro che trattenete e ponete fine a questa storia. Fatela finita», ha urlato. Poi ha ordinato ad Hamas di cedere il controllo di Gaza e deporre le armi (come chiede Israele). «Hamas deve affidare all’Anp le responsabilità sulla Striscia, rinunciare alle armi e trasformarsi in un partito politico». La reazione di Hamas è stata immediata. «Abu Mazen ha descritto in termini volgari una parte ampia e autentica del suo stesso popolo», ha replicato Basem Naim, dell’ufficio politico di Hamas. «Continua ostinatamente ad attribuire al nostro popolo la responsabilità per i crimini e l’aggressione di Israele», ha aggiunto. A tanti palestinesi, almeno a giudicare dai post sui social, non è piaciuto l’attacco frontale ad Hamas, inclusi simpatizzanti e militanti di Fatah, il partito del presidente. «Offendere in quel modo altri palestinesi è un grave errore e una vergogna mentre Israele ci bombarda», commentava ieri sera Anwar B., un anziano militante di Fatah. «Vogliamo l’unità nazionale, tutti dobbiamo aiutare i fratelli di Gaza, gettati nella catastrofe dall’offensiva di Israele».
Alcuni hanno visto un legame tra l’attacco di Abu Mazen ad Hamas e la decisione annunciata nelle stesse ore dalla Giordania di mettere fuori legge, per «attività terroristiche», i Fratelli musulmani, da cui ha avuto origine anche il movimento islamico palestinese. Un passo che di fatto accresce la pressione nella regione nei confronti di Hamas, preso di mira anche da alcuni religiosi sauditi. Da notare anche la decisione presa dal nuovo regime siriano, peraltro islamista, di ordinare l’arresto due dirigenti del Jihad islamico palestinese.
Il titolo della sessione del Consiglio centrale sembrava indicare l’intenzione di delineare un’agenda politica in risposta all’escalation militare di Israele: «No allo sfollamento e no all’annessione. Salvare il nostro popolo a Gaza e fermare la guerra. Proteggere Gerusalemme e la Cisgiordania. Sì alla completa unità nazionale palestinese». Ma le finalità del Consiglio centrale sono altre, come hanno sottolineato alcune formazioni palestinesi, tra cui il Fronte Popolare (Fplp, sinistra). Ponendo un’ombra sulla legittimità della sessione, il Fplp ha parlato di «un passo parziale» privo dei presupposti richiesti dal dialogo.
Il punto più importante tra i dieci in agenda, infatti, è la modifica dello Statuto dell’Olp allo scopo di istituire la figura del vicepresidente del Comitato esecutivo. Un emendamento che non implica una nomina immediata, ma apre formalmente alla possibilità che il Comitato esecutivo dell’Olp elegga una figura di transizione o affiancamento ad Abu Mazen. Secondo l’analista Raed Badawiya, la mossa risponderebbe a pressioni «vecchie e nuove», provenienti da Usa, Israele e dal mondo arabo, preoccupati che l’era post-Abbas veda poi alla presidenza dell’Olp e dell’Anp un esponente palestinese «non gradito». Anche Iniziativa nazionale parla di «pressioni esterne» alla base della convocazione, esprimendo dubbi sull’effettiva volontà di costruire un consenso reale.
Il nome sulla bocca di tutti per la carica di vicepresidente è quello di Hussein Sheikh, già segretario del Comitato esecutivo dell’Olp, molto vicino ad Abu Mazen e gradito agli Usa e all’Europa. E anche alle autorità israeliane, con cui Sheikh ha avuto rapporti quotidiani per aver svolto, per anni, l’incarico di responsabile dell’Anp per gli affari civili. Se Abu Mazen dovesse uscire di scena all’improvviso, Sheikh lo sostituirebbe immediatamente, rafforzando nel periodo di transizione la sua posizione ai vertici.
In ogni caso, il nodo più difficile resta la mancata riconciliazione nazionale. Senza di essa, e senza il ritorno a un processo elettorale e rappresentativo, qualsiasi riforma sarà percepita nelle strade dei Territori occupati come una concessione al contesto internazionale e non una risposta alle esigenze del popolo palestinese.
Commenta (0 Commenti)Fino a sette ore di fila per salutare in San Pietro papa Francesco. Mentre si prepara il funerale di sabato, l’omaggio di credenti e non credenti è già diventato una manifestazione di popolo. In piena sintonia con il messaggio di Bergoglio e niente affatto «sobria»
La santa massa Decine di migliaia in Vaticano, le porte restano aperte per la notte. L’omelia di Zuppi: «Francesco ci ha fatto ascoltare il grido dei poveri»
La salma di papa Francesco trasferita a San Pietro per l'ostensione – Ansa
«La morte fa un po’ paura, ma attraversata la porta c’è la festa»: varcato il portico che conduce a piazza San Pietro, quelli della Gioventù ardente mariana provano a farsi coraggio diffondendo un messaggio estrapolato da una delle promesse che il papa aveva rivolto al suo popolo. La prospettiva di Francesco, espressa con linguaggio popolare più che da speculazione teologica, strappa un timido sorriso. Appena oltre le transenne dalle quali comincia il serpentone che si infila nella basilica ci si accorge che la sobrietà, tanto invocata in questi giorni di piazze diverse e contemporanee, non è la condizione di questo popolo che spesso ricerca anche la profondità tutt’altro che moderata del messaggio di Bergoglio.
ATTORNO ALLA GENTE in attesa, si vanno disponendo le attrezzature per il grande evento del funerale di sabato. Sono comparsi i maxischermi, i carabinieri a cavallo presidiano l’afflusso, gli spazi per la stampa si sono moltiplicati assieme ai varchi con metal detector. Guardandosi attorno si riconosce uno dei fenomeni di questi giorni di mobilitazione ecclesiastica generale, segno dei tempi: preti che spediscono ai fedeli delle parrocchie via social la loro corrispondenza video. Così i follower che li seguono da casa possono osservare proprio lui, il loro parroco, al centro della cristianità e nel mezzo della fase calda.
VERSO LE 19 la sala stampa fa sapere che si sono contati già ventimila passaggi davanti al corpo del papa. Fuori, il paesaggio è inevitabilmente in bilico, tra ordine e caos: le file disciplinate di chi attende e lo sciame confuso della gente che si aggira tra il colonnato Vaticano e Castel Sant’Angelo. Si stimano dalle quattro alle sette ore per fare un passaggio davanti alla salma. Nel pomeriggio viene celebrata una messa in suffragio del papa. C’è il cardinale, considerato tra i papabili, Matteo Zuppi. Descrive lo scenario in cui era arrivato Bergoglio, parla di un «popolo immerso in una casa comune segnata da tante divisioni, incapace di pensarsi insieme, di ascoltare il grido dei poveri, che costruisce altre lance e distrugge le falci e dove, pericolosamente, ci si lascia persuadere dalla logica della forza e non da quella del dialogo, dal pensarsi senza o sopra gli altri e non dal faticoso ma indispensabile pensarsi insieme».
INVECE, PROSEGUE il presidente della Conferenza episcopale italiana, «ringraziamo per
Leggi tutto: Folla a San Pietro, stazione intermedia del lungo addio - di Giuliano Santoro ROMA
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