Cinque «Sì» potranno essere scritti sulle schede dei quattro referendum sul lavoro e di quello sulla cittadinanza oggi dalle 7 alle 23 e domani dalle 7 alle 15 nelle urne di tutta Italia. Il comitato promotore dei Referendum sul lavoro è guidato dalla Cgil, che ha raccolto oltre 4 milioni di firme e ottenuto l’appoggio di Partito Democratico, Cinque Stelle e Alleanza Verdi Sinistra. Quello sulla cittadinanza è promosso da +Europa, Radicali, Psi, Rifondazione Comunista, Possibile e diverse associazioni civiche, con oltre 637 mila firme raccolte.
I CINQUE QUESITI sono stati dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale il 20 gennaio 2025. Perché il risultato sia valido, è necessario raggiungere il quorum del 50% più uno degli aventi diritto al voto. Ed è questa la sfida politica, non scontata, che si giocherà anche dopo la chiusura delle urne.
IL «SÌ» AL PRIMO QUESITO abroga il «Contratto di lavoro a tutele crescenti», istituito dal jobs act e dalla riforma dell’articolo 18. Tutti gli assunti dal maggio 2015 sono interessati da una «riforma» che ha creato lavoratori di serie A e di serie B, cioè gli assunti dopo il 2015. Reintrodurre la possibilità della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo serve a riequilibrare, perlomeno, un rapporto di forza con l’impresa.
IL «SÌ» AL SECONDO QUESITO permetterebbe ai lavoratori di ottenere un risarcimento superiore ai 6 mesi in caso di licenziamento ingiustificato. Sarebbe però il caso, in un paese di piccole imprese, di agganciare il calcolo del risarcimento alla capacità economica dell’impresa e non al numero dei dipendenti.
IL «SÌ» AL TERZO QUESITO annulla le norme del Jobs act che permettono di assumere fino a dodici mesi senza specificare la ragione per cui ad un contratto a tempo indeterminato si preferisce uno a termine. è una delle chiavi politiche del referendum: dopo dieci anni si inizia a ridimensionare l’uso fraudolento dei contratti a termine e a imporre una maggiore stabilità di occupazione, e dunque di salario.
IL «SÌ» AL QUARTO QUESITO permetterebbe di rendere più palpabile l’impegno a contrastare gli infortuni e prevenire le morti del lavoro. La ditta principale sarà sempre responsabile dell’accaduto e, tra l’altro, sarebbe garantito ai lavoratori colpiti, e alle loro famiglie, il giusto risarcimento.
IL «SÌ» AL QUINTO QUESITO, quello sulla cittadinanza, ridurrebbe da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dei cittadini stranieri che chiedono la cittadinanza italiana. Non è collegato agli altri quattro, ma è evidente che avrà un impatto sulla condizione lavorativa, oltre che su quella sociale. Il «Sì» permetterebbe di regolarizzare un gran numero di lavoratrici e lavoratori migranti, sottraendoli alla violenza salariale che, nel loro caso, è peggiore di quella normalmente esercitata contro i cittadini italiani. Si può incrinare uno degli architravi del mercato del lavoro, e della società tutta, che esclude milioni di persone invisibilizzate, cioè vivono, lavorano e non votano. Una condizione sancita sin dalla Legge Turco-Napolitano e strutturata dalla Bossi-Fini che favoriscono il lavoro sommerso. la procedura per l’ottenimento della cittadinanza resta lunga: i tempi superano i tre anni. Ma con un «Sì» si accorcia la fase iniziale del percorso.
DA UN LATO, è chiaro che un voto non basta per ribaltare un progetto politico basato su bassi salari e alta precarietà senza tutele perseguito, al di là delle maggioranze, da più di 30 anni. Dall’altro lato, dovrebbe essere altrettanto chiaro che una vittoria del referendum darebbe un segnale non trascurabile sia nell’immediato, contro il governo che si astiene o va a votare per finta come Meloni, sia nel lungo periodo all’establishment, al “centro-sinistra” in qualsiasi formato, ai sindacati che non si torna indietro. E che l’attuale situazione è intollerabile e i diritti non vanno solo «tutelati», ma anche estesi e concatenati al di là delle origini, dei lavori e delle classi.
LA BATTAGLIA PER IL QUORUM è difficile, la vetta del 50% più uno può essere lontana. Ma dietro, attorno e avanti abbiamo una realtà. Quella che ha reso l’Italia è l’unico europeo in cui il salario medio annuale è diminuito anziché aumentare. Tra il 1990 e il 2020 c’è stato un calo del 2,9%. In Francia e Germania ci sono stati aumenti del 33,7% e del 31,1%. Quasi 700 incidenti mortali, sugli oltre mille del 2024 sono avvenuti nella catena degli appalti nell’edilizia, nei campi, nella logistica, nelle fabbriche, lungo le strade: si muore per scarsa formazione, per l’uso di macchinari obsoleti, attrezzature logore, per una sbagliata organizzazione del lavoro.
NON C’È SOLO IL JOBS ACT, in parte neutralizzato dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione. La riforma Treu del 1997, la riforma Biagi, il «collegato lavoro» del 2010, la cosiddetta «riforma Fornero» del 2012, oltre alle già citate leggi sull’immigrazione. Non di sole norme è fatto un sistema. Ma se questa fosse l’ouverture di un’altra stagione sarebbe già una notizia.
Il presidio Già per l’opposizione dei portuali della Cgt di Fos sur mer (Marsiglia) non erano stati caricati i tre container contenenti parti di mitragliatrici e di cannoni prodotti in Francia e destinati all’industria militare di Tel Aviv. Anche a Genova non è stato imbarcato alcun carico militare
La Contship Era al porto di Genova
Ha avuto successo il presidio di lavoratori e cittadini convocato di prima mattina al varco del Genoa Port Terminal del gruppo Spinelli-Hapag Lloyd da parte del Collettivo Autonomo Lavoratori del Porto (Calp), da anni protagonista di iniziative di lotta contro il trasporto di armi, e dalla sezione sindacale Porti di Usb.
Si è avuta infatti conferma che a bordo della Contship Era, la nave noleggiata dalla compagnia israeliana Zim arrivata a Genova nella notte, su cui già per l’opposizione dei portuali della Cgt di Fos sur mer (Marsiglia) non erano stati caricati tre container contenenti parti di mitragliatrici e di cannoni prodotti in Francia e destinati all’industria militare di Tel Aviv, anche a Genova non è stato imbarcato alcun carico di natura militare.
A testimonianza di questa nuova forma di embargo pacifista, il presidio, dopo avere bloccato per alcune ore l’accesso di Ponte Etiopia, si è mosso in corteo attraversando il porto sino al varco Albertazzi: un fatto di assoluto rilievo, una manifestazione di protesta di cittadini guidati dai portuali dentro lo scalo.
Unico precedente, nel febbraio 2023, organizzato dal Calp stesso per la prima mobilitazione internazionale contro il transito di armi verso zone di guerra con lo slogan «abbassate le armi, alzate i salari».
Dal 2019 infatti, quando fu impedito il trasporto di cannoni francesi verso l’Arabia Saudita che bombardava la popolazione in Yemen e a Genova fu bloccato un carico con la stessa destinazione ricevendo l’approvazione del Papa che fece scalpore, grazie a questi esempi si è costituito un coordinamento internazionale dei portuali.
Il giorno prima in conferenza stampa i rappresentanti di Calp e Usb avevano spiegato l’obiettivo della manifestazione, oltre a esprimere solidarietà al popolo palestinese con azioni concrete volte a interrompere, anche se parzialmente, la fornitura di armi che li uccide.
È stato detto che sono i poteri economici internazionali che traggono i maggiori vantaggi dalle guerre, come testimonia la logistica, che nasce come scienza militare per rifornire gli eserciti e la loro inesauribile domanda di armi, viveri e mezzi soggetti a consumo, per procurare potere ai vincitori e profitti ai fabbricanti.
Per questo è dai lavoratori dei porti in quanto snodi nevralgici delle catene logistiche, attraverso le cui mani transitano gli strumenti di guerra, che nasce questa forma di opposizione. Ma i lavoratori da soli non possono andare al di là della coraggiosa testimonianza (quella parresia che aveva così felicemente sorpreso papa Francesco), sempre più a rischio viste le nuove leggi liberticide.
Occorre che tutte i soggetti della logistica scendano in campo per un embargo pacifista nei confronti di Israele e di ogni altro stato responsabile di analoghi delitti contro l’umanità: dalle autorità pubbliche che autorizzano i carichi in transito, agli operatori privati che si stracciano le vesti nei loro Codici etici e Rapporti di sostenibilità ad uso degli azionisti e del marketing, ma in realtà tollerano e ancora peggio profittano delle politiche militari aggressive.
I porti sono considerati strategici dagli stati e i loro operatori gravati di responsabilità speciali nei confronti dell’interesse pubblico. I portuali genovesi oggi chiedono alla politica di inserire anche la pace e il rifiuto della guerra nell’interesse generale della società, ma non di essere lasciati soli a farsene carico concretamente.
Oggi la nave andrà a Salerno. Anche qui i portuali sono pronti alla mobilitazione.
Commenta (0 Commenti)
La piazza era pronta: dopo venti mesi di genocidio le opposizioni abbandonano le timidezze e scoprono una grande mobilitazione per Gaza. «Siamo trecentomila», gridano Pd, 5S e Avs dal palco di Roma. Prove di unità: «Governo complice, riconosca lo Stato di Palestina»
La manifestazione Se le opposizioni di questo paese avessero chiamato una manifestazione nazionale sei mesi fa, un anno fa, è molto probabile che avrebbero ricevuto una risposta identica
La manifestazione a Roma – LaPresse
La grande piazza romana di ieri, la massa di centinaia di migliaia di persone di diverse età, provenienze, classi sociali, dice due cose che dovrebbero apparire banali a chi fa politica di mestiere e a chi la vive come impegno quotidiano: che il coraggio paga e che le “basi” sono sempre un passo avanti, e un livello di radicalità oltre, le dirigenze.
Se le opposizioni di questo paese avessero chiamato una manifestazione nazionale sei mesi fa, un anno fa, è molto probabile che avrebbero ricevuto una risposta identica. Le persone vedono cosa accade in Palestina, l’hanno compreso da tanto tempo e sono pronte a reagire per camminare insieme e per condividere il senso di impotenza e la vergogna, quel dolore lancinante che per tante e tanti ormai occupa i pensieri perché ha scavato un buco, dentro.
Erano pronte a farsi massa umana, lo hanno dimostrato nel corso di venti mesi e di innumerevoli iniziative, ognuna e ognuno con i propri mezzi e nei propri spazi sociali, di lavoro, di strada.
La sinistra partitica ha faticato a cogliere e intercettare la mobilitazione dal basso, nelle varie forme che ha assunto, tende di protesta, cortei, raccolte firme, sit-in, presentazione di libri, proiezioni di film. Una “fatica” che ha permesso al governo e a un pezzo importante di stampa compiacente di procedere spediti nella criminalizzazione del dissenso, nell’oscuramento mediatico (di Gaza in primis, delle piazze poi) e nelle accuse strumentali e insensate di antisemitismo. La criminalizzazione della protesta ha avuto effetti concreti: colleghi si sono autocensurati, giovani studenti sono stati manganellati, persone hanno visto messo in pericolo il posto di lavoro e l’Italia è stato uno dei pochi paesi occidentali in cui non si è riusciti a costruire una mobilitazione il più possibile larga, capace di portare in strada così tanta gente.
Ieri quella piazza, nel suo melting pot di colori e di appartenenze, ha apertamente contestato i ritardi dei partiti di opposizione, le mezze parole, i tentennamenti di questi mesi infiniti e la paura di dare un nome alle cose. Però c’era. Nonostante i ritardi, le mezze parole e la paura delle dirigenze, la piazza c’era insieme al senso di urgenza perché
Leggi tutto: Il popolo di sinistra è già pronto, e non fa sconti - di Chiara Cruciati
Commenta (0 Commenti)Ultime ore per convincere ad andare a votare per i cinque referendum di domani e lunedì. Primo obiettivo spezzare il silenzio e spingere la partecipazione per raggiungere il quorum. È ancora possibile. Landini: Meloni si nasconde perché non vuole cambiare nulla
Sì spera Landini fino all’ultimo sì «Il traguardo è alla portata»
«Quando le cose sono difficili c’è bisogno dell’intelligenza collettiva, se trovate qualcuno che dice che da solo risolve tutto non vi fidate». Alla fine di questa campagna elettorale, mentre schioccano gli ultimi colpi per il referendum ed è difficile fare previsioni sull’esito che le urne consegneranno lunedì pomeriggio, un risultato è raggiunto. È che Maurizio Landini ha incontrato un popolo in giro per il paese, dopo decine di iniziative, che gli ha fatto cambiare stile. La verve rimane sempre quella, ma bisogna ricorrere a certe caratterizzazioni del cinema popolare del secolo scorso per capire il passaggio di fase. Se il leader sindacale ricordava, per impeto e irruenza, il cittadino che arriva al villaggio per dare l’allarme sullo sbarco alieno e si agita allarmato perché non gli credono, adesso quella passione si traduce in forma più nitida nell’invocazione alla partecipazione e al cammino comune, come un predicatore d’altri tempi.
A PIAZZA TESTACCIO, prima del suo comizio il segretario generale Cgil si intrattiene coi giornalisti e fa un bilancio di queste settimane di comizi, incontri, assemblee e anche riunioni in parrocchia (è successo l’altra settimana a Cosenza, dove anche il vescovo ha invitato a votare 5 sì anticipando l’uscita della Cei a favore della partecipazione alle urne). «Abbiamo intercettato l’attenzione dei giovani – afferma il segretario generale della Cgil – Siamo riusciti a costruire consenso attorno ai temi del diritto del lavoro. E tutto ciò ci fa pensare che questa battaglia è solo all’inizio e che questa la strada giusta che va percorsa anche in futuro. Quando abbiamo iniziato questa campagna elettorale in pochi conoscevano i temi del referendum, oggi ne parlano tutti il che fa ben sperare. Adesso noi concludiamo la campagna referendaria ma nei prossimi giorni, fin quando l’arbitro non fischia la fine della partita, tutti dobbiamo impegnarci per convincere più persone possibili».
CI SONO LE VOCI di lavoratori e lavoratrici. Tra questi Aurora Iacob, giovanissima nata in Italia ma senza cittadinanza, «straniera nella sua nazione» come diceva la canzone dei
Leggi tutto: Landini fino all’ultimo sì: «Il traguardo è alla portata» - di Giuliano Santoro
Commenta (0 Commenti)E la guerra va Dopo gli attacchi alle basi dell’aeronautica russa e il sabotaggio del ponte di Crimea i negoziati sono su un binario morto
Il presidente russo Vladimir Putin nella sua residenza di Novo-Ogaryovo
Quando l’escalation diventa inevitabile il fallimento è collettivo. La Russia risponderà agli attacchi ucraini degli ultimi giorni in modo deciso e le speculazioni su quanta forza metterà in campo il Cremlino si sprecano. Tutto ormai ruota intorno a questa rappresaglia e il coinvolgimento degli Stati uniti e del Papa provano che Vladimir Putin è tutt’altro che pazzo, come in molti si ostinano a definirlo. Criminale sì, ma lucido, calcolatore e pronto a sfruttare ogni occasione. I raid di droni ucraini che hanno distrutto diversi (41, secondo Kiev) aerei da guerra di Mosca, tra i quali bombardieri strategici capaci di trasportare testate nucleari, si presentano come il primo elemento di un sillogismo. La tesi è che l’attacco dell’intelligence di Kiev non può restare impunito; l’antitesi che la Russia non dovrebbe superare l’ultima linea rossa rimasta, l’uso delle armi atomiche; la sintesi è che la guerra in Europa dell’est è già precipitata in un buco nero nel quale sta progressivamente attraendo tutto l’occidente.
NON SERVE A NULLA la telefonata di Donald Trump di ieri, tardiva ed egotica. Un’ora e un quarto di conversazione del quale il presidente Usa offre una sintesi sul suo social network, Truth: «È stata una conversazione positiva, ma non tale da portare a una pace immediata. Il presidente Putin ha affermato con grande fermezza che dovrà rispondere al recente attacco agli aeroporti». Che il tycoon abbia tentato di portare l’omologo russo a più miti consigli è plausibile, ma che il leader del Cremlino lo ascolterà molto meno. «Abbiamo discusso dell’attacco sferrato dall’Ucraina contro gli aerei russi ormeggiati e anche di vari altri attacchi che hanno avuto luogo da entrambe le parti», fine delle comunicazioni sul tema. Il resto del post tratta dell’Iran e del possibile supporto di Putin a una risoluzione delle tensioni a proposito del programma nucleare di Teheran.
Mesi di proclami, annunci e insulti urbi et orbi per arrivare a quattro righe che annunciano come ineluttabile la risposta del gigante eurasiatico. Chissà cosa ne pensa Salvini che a febbraio dichiarava che «Trump merita il premio Nobel per la pace», riconoscimento del quale il tycoon si era praticamente già insignito senza aver concluso nulla. Il consigliere presidenziale russo Ushakov al termine della telefonata tra i due presidenti ha definito il colloquio «positivo e produttivo», aggiungendo che i due leader hanno concordato di «continuare i contatti sull’Ucraina ai massimi livelli e attraverso altri canali».
Ushakov ha anche sottolineato che Trump ha assicurato a Putin di non «essere stato informato dei piani di Kiev di attaccare domenica le basi aeree russe dove sono di stanza bombardieri strategici che fanno parte del sistema di deterrenza nucleare di Mosca». La ripresa dei rapporti bilaterali tra la Casa bianca e il Cremlino è salva. E si scongiura in un sol colpo anche una remota, ma non impossibile, escalation tra le due principali potenze nucleari del pianeta.
Putin ha anche avuto una conversazione non annunciata con Leone XIV, per la prima volta da quando il nuovo pontefice si è insediato, e ha ribadito che «la Russia ha interesse a raggiungere la pace attraverso mezzi politici e diplomatici» ma «ha richiamato l’attenzione sul fatto che il regime di Kiev sta scommettendo sull’escalation del conflitto, sabotando infrastrutture civili».
ERA STATO ANCORA più perentorio nel pomeriggio, durante una sessione videotrasmessa del Consiglio di sicurezza nazionale: «non molto tempo fa le autorità ucraine e i loro alleati sognavano una sconfitta strategica della Russia sul campo di battaglia. Oggi tra perdite enormi e in ritirata su tutta la linea del fronte, in un tentativo disperato di intimidire la Russia, la leadership di Kiev ha iniziato a organizzare attacchi terroristici. Contemporaneamente chiedono di sospendere le ostilità per 30 o addirittura 60 giorni. Chiedono un vertice ai più alti livelli. Ma chi potrebbe negoziare con questi terroristi? E perché dovrebbero essere ricompensati con una pausa nelle ostilità che loro userebbero soltanto per riarmare il regime con le armi occidentali, per continuare la mobilitazione coatta e a preparare ulteriori attacchi terroristici come quelli che hanno portato avanti a Bryansk e nel Kursk?».
INTANTO I SATELLITI Planet Labs Pbc e Maxxar pubblicavano le prime immagini satellitari dei velivoli distrutti nelle basi russe. Di sicuro 3 bombardieri Tu-95 e 4 Tu-22M, nella base di Belaya in Siberia e altri a Olenya, nell’oblast di Murmansk. Kiev ha stimato i danni inflitti al nemico in 7 miliardi di dollari, Mosca l’ha definita una cifra «esagerata». Ma il danno è enorme. Come se non bastasse due giorni dopo è stato colpito il ponte di Crimea. Due simboli dell’imperialismo putiniano in nemmeno 72 ore. Zelensky ieri ha provato a fare pressioni a Ramstein affinché gli alleati costringano Putin alla pace, sottolineando che non vede il senso di proseguire i colloqui con la Russia con le delegazioni attuali ma che servirebbero colloqui diretti fra lui e Putin. Ma la risposta del Cremlino la conosciamo. In ogni caso nel fine settimana i due belligeranti dovrebbero scambiarsi 500 prigionieri per parte, anche se per Kiev si tratta solo di un modo che la Russia usa «per temporeggiare ed eludere le sanzioni».
E L’EUROPA COSA FA? Continua a parlare della minaccia russa per la sicurezza continentale – ieri l’Alta rappresentante per gli Esteri Kallas è tornata a parlare della Moldavia come «obiettivo della guerra ibrida di Mosca» – e si riarma. Al vertice del gruppo di contatto per l’Ucraina a Ramstein dichiara in pompa magna che bisogna essere «pronti a rispondere». Magari spera che la reazione russa non sia devastante. Ma come diceva Tolstoj le argomentazioni della guerra sono fallaci in partenza, bisogna rifiutare questa sintesi che non ci contempla, «inevitabile» sarà solo quando non ci sarà più nessuno a opporsi.
Commenta (0 Commenti)
Una pioggia di reati e di nemici affidati al codice penale: chi protesta, chi è povero o ai margini, chi fa resistenza passiva. Approvato a colpi di fiducia e a tempo di record il decreto sicurezza. Alle polizie mano libera e una seconda arma da portare a casa. Nuovi particolari sulla morte del trentenne colpito dal taser a Pescara: era inerme. Il padre: perché gli hanno sparato?
Diritti «Denunciateci tutti»: le opposizioni inscenano una protesta in Aula. Ma il pacchetto viene approvato con la fiducia e 109 voti a favore
Risultato del voto per. la conversione in legge del DL sicurezza
I Uno spritz in mano al ministro Nordio che in diretta a «Un Giorno da Pecora» brinda al via libera definitivo del decreto Sicurezza, convertito in legge praticamente senza il parlamento. E i senatori dell’opposizione seduti a terra nell’emiciclo di Palazzo Madama che protestano, con le spalle alla presidenza e le mani alzate in una sorta di resistenza passiva alla violenza del provvedimento, innalzando cartelli con su scritto «Denunciateci tutti». Mentre in tribuna assiste, con un certo stupore, una delegazione del Senato spagnolo.
SONO SOLO DUE FERMI immagine di ieri, una giornata che conclude un percorso legislativo a suo modo inedito cominciato il 17 novembre 2023 con il via libera del Consiglio dei ministri all’omonimo disegno di legge poi tramutato in decreto il 4 aprile 2025. Un pacchetto di norme penali da allora in vigore che, con il doppio voto di fiducia imposto dal governo Meloni prima alla Camera (dove è stato licenziato il 29 maggio scorso) e poi al Senato, ieri è stato convertito definitivamente in legge con 109 voti favorevoli, 69 contrari e un’astensione.
Il passaggio lampo nella seconda camera del parlamento ha stabilito un tempo record, ad esclusivo beneficio dei calcoli politici dell’esecutivo. Martedì, in un solo giorno, il testo è passato dalle commissioni all’Aula. E ieri le opposizioni si sono fatte sentire, a tal punto che i presidenti di turno (prima La Russa, poi la dem Rossomando) sono dovuti intervenire più volte per sedare gli animi, richiamare all’ordine le minoranze e sanzionare le offese più sconclusionate di alcuni senatori delle destre.
Come nel caso del presidente della commissione Affari costituzionali, Alberto Balboni, che ha attaccato il centrosinistra con il teorema preso in prestito dal fratello di partito Donzelli (nella famosa sparata del 2023) «Le rivolte nelle carceri sono manovrate dalla mafia che vuole l’abrogazione del 41bis. Se tra destra e sinistra c’è una differenza è questa: mentre voi andavate a trovare i terroristi e mafiosi per il 41bis, noi eravamo in quest’aula a difenderlo», ha detto il senatore meloniano che alla fine, dopo due censure della presidente Rossomando, si è dovuto scusare.
L’affermazione però ha scatenato la bagarre in Aula e ha convinto il capogruppo del M5S, Patuanelli, a non partecipare al voto: «Quando la mia città ha visto un gruppo no vax e no green pass bloccare il porto e le forze dell’ordine sono intervenute, voi con chi stavate? Il ministro Salvini con chi
Commenta (0 Commenti)