Il ministro della difesa Guido Crosetto ha sostenuto ieri che, nel campo militare, la capacità produttiva italiana e occidentale è di molto inferiore a quella del «lato oscuro della forza», ossia della Russia, dell’Iran, della Corea del Nord». E, per questa ragione, ha rinnovato la necessità di aumentare la spesa militare italiana che è «sotto il 2 per cento del Pil».

Abbiamo confrontato i dati di Crosetto con quelli pubblicati nell’e-book Economia a mano armata 2024 di Sbilanciamoci e Greenpeace consultabile sui siti delle associazioni. E abbiamo chiesto a Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci, se le affermazioni del ministro corrispondono alla realtà: «No – ha risposto Marcon – La spesa militare dell’Unione Europea è quasi 4 volte di quella russa, lo hanno confermato i dati del’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (Sipri) del 22 aprile scorso (il manifesto, 23 aprile, ndr.). E in questo calcolo non ci sono il Canada e gli Stati Uniti che, da soli, rappresentano il 37% della spesa mondiale in armamenti».

Se è cosi, chiediamo a Marcon perché Crosetto ha citato dati diversi: «Crosetto sostiene la necessità dell’aumento della spesa militare e il sostegno al comparto composto in Italia da 874 imprese con un fatturato complessivo da 15,2 miliardi annui, l’80% del quale coperto da Leonardo e Fincantieri – osserva Marcon – Lo diceva quando aveva incarichi nella rappresentanza del settore e continua a dirlo oggi da ministro».

«Stiamo andando verso un’economia di guerra, la persistenza della guerra in Ucraina, la carneficina a Gaza, i rischi di guerra in tutto il mondo stanno portando all’aumento delle spese militari – continua Marcon – Nell’ultimo anno sono aumentate del 6,8 per cento, passando da poco meno di 2.200 miliardi a 2.400 miliardi di dollari. Questo business è alimentato da una logica finanziaria. Mentre l’anno scorso il settore dell’automotive è crollato del 42%, quello della difesa ha registrato un aumento del 27%. C’è dunque un interesse specifico di chi fa le armi a incrementare questa dinamica. Esiste inoltre un legame stretto tra l’interventismo militare e la difesa degli investimenti strategici nell’economia fossile. Parlando dell’Italia, circa il 60% della spesa militare per le missioni all’estero (su 1,2 miliardi) è assorbito da quelle che difendono gli approvvigionamenti di gas e petrolio».

Dal rapporto «Economia a mano armata», tra l’altro, emerge una descrizione precisa dell’industria militare italiana. «Sul piano tecnologico e produttivo – ha scritto Gianni Alioti ricercatore e attivista di The Weapon Watch – ha assunto con Leonardo un ruolo di integrazione subalterna nelle strategie degli Stati Uniti e ha abbandonato la strada delle co-produzioni europee». «La militarizzazione è un “cattivo affare” – ha aggiunto Alioti – L’aumento delle spese militari sta portando l’Europa su una traiettoria di minore crescita economica, minore creazione di posti di lavoro e peggiore qualità dello sviluppo».