Opinioni Data la direzione che le classi dirigenti hanno preso - non solo nel nostro paese - di sancire la rottura del rapporto fra capitalismo e democrazia con rovesciamenti istituzionali che la codifichino, è decisivo difendere e ampliare la possibilità che i cittadini con un Sì o con un No producano un effettivo ed immediato cambiamento
Il netto insuccesso della prova referendaria su tematiche della massima importanza come il lavoro e la cittadinanza ci costringe – ed è indispensabile che ciò avvenga – a considerazioni di fondo sullo stato dell’orientamento democratico della società civile, dove è evidente l’azione corrosiva portata dalle destre. Non è sufficiente sostenere che l’avere spostato il focus dal merito dei quesiti alle sue possibili conseguenze politiche (addirittura evocando lo sfratto al governo Meloni) ha più che altro nuociuto all’esito referendario. La Cgil, per bocca del suo segretario generale, ha giustamente ribadito di essere stata estranea a questo scivolamento dell’asse tematico.
MA LA STRADA referendaria è risultata insufficiente per la rivitalizzazione dell’organizzazione fino a trasformarla in un sindacato di strada, per la quale è ineludibile l’essere sindacato nel senso più pieno della parola nelle nuove condizioni e rapporti di lavoro. Ma la sconfitta va persino al di là di questi ambiti, riguarda l’istituto stesso del referendum abrogativo, cioè dell’unica forma nella quale si esprime pienamente la democrazia diretta come previsto dalla Costituzione. Data la direzione che le classi dirigenti hanno preso – non solo nel nostro paese – di sancire la rottura del rapporto fra capitalismo e democrazia con rovesciamenti istituzionali che la codifichino, è decisivo difendere e ampliare la possibilità che i cittadini con un Sì o con un No producano un effettivo ed immediato cambiamento. È dal 2011, dai referendum vincenti sull’acqua e sul nucleare (i cui esiti sono stati a lungo boicottati e che ora le destre cercano di capovolgere) che il quorum non viene raggiunto. Entro un quadro di astensionismo crescente anche nelle consultazioni politiche: nelle ultime europee ha votato la minoranza degli aventi diritto.
IL REFERENDUM di giugno ha cozzato contro un muro di silenzio elevato in nome dell’astensione che è stata contrabbandata come un diritto al pari di quello del voto. Non lo è. Perché il secondo è un dovere civico, in particolar modo per chi ricopre cariche pubbliche (ed è anche sanzionato da leggi vigenti che si è fatto finta di non conoscere). E non si può dire che la denuncia di questi comportamenti sia stata all’altezza della loro gravità, perché anche esponenti autorevoli del centrosinistra vi avevano fatto ricorso nel passato e addirittura un capo di Stato come Giorgio Napolitano aveva concesso all’astensione l’imprimatur della legittimità.
La Consulta ci ha messo del suo, cancellando, con motivazioni che sfidano prima la logica più che il diritto, la richiesta di abrogazione totale della legge Calderoli, un traino ideale alle urne anche per gli altri quesiti referendari per la sua capacità di penetrazione anche in ambiti legati alle destre. In ogni caso la verifica di costituzionalità dei quesiti sarebbe meglio che avvenisse prima e non dopo la raccolta delle firme. La recente prova ribadisce che il principale nemico del referendum abrogativo è l’astensione. Ovvero il referendum abrogativo è costretto in una gara impari in partenza.
LO RICONOSCEVA anche un organo consultivo del Consiglio d’Europa, la Commissione di Venezia, fin dal 2006, quando scriveva che il rifugiarsi nell’astensione «non è sensato per la democrazia». Una riforma – necessariamente costituzionale trattandosi di modificare il 4° comma dell’art. 75 Cost. – dell’istituto referendario non può che prendere di mira il ricorso all’astensione. Non attraverso la cancellazione totale di ogni quorum, che indebolirebbe la sua forza di espressione della sovranità popolare; non inventandosi parziali riduzioni della soglia quorum; neppure con il cosiddetto “quorum mobile” per cui gli aventi diritto al voto coinciderebbero con i votanti nelle ultime elezioni politiche, perché stabilirebbe un nesso assai poco virtuoso fra voto sulla rappresentanza politica e quello su specifiche questioni dotate di una potenziale trasversalità, oltre a dare per strutturale l’aumento dell’astensione nelle votazioni politiche.
Ma più semplicemente ricorrendo ad una soglia di voti positivi a favore della proposta referendaria. Attualmente il voto è valido se si recano alle urne il 50% più uno degli aventi diritto, il limite al di sopra del quale la proposta è comunque vincente è dunque il 25% più uno. Il quorum sui votanti sparirebbe e resterebbe quest’ultima soglia l’unica da superare. In questo modo sarebbe suicida ricorrere alla astensione e il Sì e il No si fronteggerebbero in aperta contesa.R
