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IRAN/USA. Il conflitto si allarga da Gaza al Medio Oriente? In realtà è già qui: Iran, Israele e Stati Uniti da anni combattono una sorta di «guerra ombra», soprattutto dopo che […]

I rischi (finora  calcolati) della  “guerra ombra”

Il conflitto si allarga da Gaza al Medio Oriente? In realtà è già qui: Iran, Israele e Stati Uniti da anni combattono una sorta di «guerra ombra», soprattutto dopo che Trump è uscito dall’accordo sul nucleare iraniano, con un’escalation apparentemente sotto controllo e la complicità dell’accordo tra Putin e Netanyahu, con il quale il Cremlino ha concesso a Israele i raid aerei in Siria su pasdaran e Hezbollah senza mai accennare la minima protesta. L’accordo sembra resistere nonostante la tensione sempre più alta tra Mosca e Tel Aviv che ha appena bombardato postazioni miliari siriane a Deraa. In cambio Israele, il Paese che riceve più aiuti militari dagli Usa, non ha mai fornito, ufficialmente, neppure una pallottola Kiev.

Ma il conflitto di Gaza rende questo fronte, dal Libano alla Siria, all’Iraq, sempre più precario. I jet americani hanno attaccato in Siria gruppi di militanti sostenuti dall’Iran che avevano colpito truppe Usa nel Paese e in Iraq all’indomani degli attentati del 7 ottobre in Israele. Il Pentagono parla di «attacchi di autodifesa» mentre Israele ha continuato a bombardare pasdaran e Hezbollah negli aereoporti di Damasco e Aleppo.

Ma di questi eventi bellici resi possibili per Tel Aviv in base all’intesa tra Israele e il Cremlino, che in Siria ha basi militari aeree e navali importanti, si parla assai poco. Eppure l’accordo funziona ancora nonostante la visita della delegazione di Hamas in Russia. Ecco come vanno le cose in Medio Oriente. Nell’ultima settimana gli americani hanno segnalato un dozzina di attacchi in Iraq e quattro in Siria da parte di gruppi associati all’Iran. Prese di mira la basi di Al-Shaddadi ad Al-Hasakah in Siria e di Ain al-Assad nella città irachena di Anbar. Gli americani in Siria controllano i pozzi petroliferi della provincia di Deir Ezzor mentre in Iraq la Federal Reserve Usa incassa ancora le entrate del greggio iracheno che poi a suo piacimento redistribuisce alle autorità di Baghdad. Dettagli, non così minimali, per capire la situazione mediorientale a 20 anni dall’invasione americana dell’Iraq e a 12 anni dopo la rivolta contro Assad in Siria.
Vale forse la pena ricordare che l’Italia è presente in Iraq nell’ambito di due missioni contro l’Isis. La prima è l’operazione Prima Parthica, la coalizione internazionale anti-Califfato, la seconda è la missione Nato con compiti di addestramento degli iracheni. Se a questo si aggiunge la presenza di oltre 1.100 soldati italiani nell’Unifil sulla linea Blu libanese si capisce che il teatro di guerra per noi non è così remoto.

Finora nessuno dei protagonisti ha voluto che la «guerra ombra» diventasse un conflitto aperto. Secondo il New York Times gli Usa con l’attacco in Siria hanno mandato due messaggi. Il primo è che se l’escalation continua Washington potrebbe entrare in un conflitto aperto con Teheran, che finora ha accuratamente evitato. Il secondo è che se gli attacchi più plateali si fermano i due fronti torneranno alla «guerra ombra» che ha caratterizzato le loro relazioni in questi anni.

La Guida suprema Alì Khamenei vuole evitare una guerra allargata contro gli Usa ma pretende che Washington freni Israele ed eviti la completa distruzione di Hamas. In questo caso, nota l’esperto Trita Parsi, alcuni attori ragionali si sentirebbero costretti a intervenire: improbabile, dal loro punto di vista, che Israele mobiliti 350mila soldati soltanto per dare la caccia a Hamas. Allo stesso tempo Teheran vuole preservare la carta Hezbollah che con il suo arsenale missilistico può colpire le città israeliane e serve da deterrente a un eventuale attacco di Tel Aviv ai suoi impianti nucleari. La Cina, che acquista la maggior parte del petrolio iraniano, potrebbe anche dare una mano a frenare l’escalation. L’Iran, il cui principale bersaglio sono le monarchie del Golfo e il Patto di Abramo con Israele, ha già colto due risultati: il deragliamento dei negoziati tra Israele e Arabia saudita e l’allineamento, pur parziale, di Mosca e Pechino alle posizioni di Teheran sulla questione palestinese.

In realtà, nota Foreign Affairs, gli argomenti logici a favore del contenimento dello scontro sono diventati meno solidi dopo la guerra di Gaza. Tutti gli alleati degli americani si sono schierati se non con Hamas, come la Turchia del Sultano della Nato Erdogan, almeno con i palestinesi: nessuno dei leader regionali, anche di Paesi che hanno fatto la pace con Israele come Egitto e Giordania, può andare contro le piazze arabe nonostante per loro Hamas, forza popolare e islamista, rappresenti una minaccia. Gli Usa lo sanno perfettamente e finora hanno evitato di accusare direttamente l’Iran per l’attacco del 7 ottobre, come pure gli iraniani hanno negato un loro coinvolgimento pur elogiando pubblicamente il massacro. Teheran ha in mano con Hezbollah (il cui leader Nasrallah parlerà venerdì) la chiave di un possibile conflitto a Nord di Israele dalla portata devastante come ha dimostrato quello del 2006. Durante la «guerra ombra» tra Iran, Israele e Usa i contendenti sono riusciti a mantenere il controllo, nonostante momenti di picco come l’assassinio da parte degli americani del generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad il 3 gennaio 2020. Allora la reazione degli iraniani fu moderata. Oggi l’idea che il nemico possa essere gestito o contenuto è meno convincente. Il conflitto finora è stato arginato perché in Israele, Iran e a Washington hanno prevalso calcoli strategici razionali. Ma domani le cose potrebbero cambiare e di molto