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Sono un cittadino italo palestinese, da 40 anni in questo bel paese. In questi lunghi anni, oltre gli studi universitari, ho svolto varie funzioni lavorative, a livello sindacale e nel volontariato. Posso dire di avere due culture di riferimento e ne sono orgoglioso: sono d’origine contadina e, prima di venire in Italia, ho lavorato la terra e fatto pascolare gli animali. Ho anche lavorato con l’Unrwa, l’agenzia Onu che assiste i nostri profughi in Palestina e nella diaspora.

Abitavo nella casa di famiglia in un villaggio vicino a Ramallah, eravamo tutti contadini e il lavoro della terra era l’unica fonte di reddito per tante famiglie. Per questo il legame con la terra è molto significativo per tutti noi palestinesi, contadini e non.

Nel vedere le terribili immagini in tv di bambini palestinesi a Gaza che piangono e chiedono al mondo (civile) un pezzo di pane, di genitori che gridano nel deserto di Gaza chiedendo solo di potere dare il pane ai loro figli, provo dolore, rabbia e disperazione. Queste urla rappresentano un pugno in faccia all’umanità, o meglio alla poca umanità rimasta. Tutto questo, come genitore, cittadino, palestinese, uomo libero, mi fa piangere il cuore e non mi fa dormire la notte.

In casa mia in Palestina, come in tutte le case dei nostri contadini, dominavano certi costumi, tradizioni e usanze che non hanno a che fare con la religione. I miei genitori in ogni stagione di raccolta (olive, cereali, ecc..) prima di portare il prodotto a casa, ne portavano un po’ alle famiglie meno fortunate, di solito profughi rifugiati nel paese dopo la Nakba.

Quando ci mettevamo a tavola, era obbligatorio riservare un posto vuoto, ma apparecchiato per l’ospite, il viandante, chi può passare e avere fame. Casa mia si trova fuori dal centro, nella prima periferia del paese, quindi tutti i concittadini che andavano in campagna ci passavano davanti. È un paese vicino al deserto: da aprile a ottobre non si vede una goccia di pioggia e l’acqua rappresenta una fonte di vita. Così i miei hanno piantato nella terra una giara di ceramica, coprendo l’imboccatura con un piatto di alluminio e mettendo una tazza. La giara veniva sempre riempita così chi passava aveva l’acqua da bere: nella nostra cultura non si nega l’acqua a nessuno, nemmeno al peggior nemico. A quell’epoca non avevamo l’acqua in casa: mia mamma faceva quasi 5 chilometri a piedi per recarsi al pozzo.

La strage della farina del 28 febbraio scorso, quando l’esercito israeliano ha ucciso non meno di 115 palestinesi, ha aperto un po’ gli occhi del mondo sul dramma che stanno vivendo due milioni e mezzo di palestinesi a Gaza.

Non ho mai creduto che la guerra risolva i conflitti e non avrei mai pensato che, nel 2024, venissero usate la fame e la sete per costringere un popolo ad arrendersi. Già a fine novembre, un’amica di Gaza mi diceva: “Qui non si muore solo di bombe, i bambini iniziano a morire di fame”. Fonti ufficiali dicono che il ritardo già cumulato per gli aiuti umanitari potrebbe portare a circa 85mila persone morte per fame e sete. La gente ha già iniziato a mangiare il cibo degli animali, compresi i mangimi, quando si trova. Non si vedono animali domestici, molti uccisi dall’esercito, ma tanti altri potrebbero essere stati usati per sopravvivere. La stragrande maggioranza della popolazione di Gaza è di fede islamica e certi alimenti sono vietati, ma di fronte alla morte o alla vita dei figli tutto diventa lecito.

Un cittadino racconta il testamento di un padre di quattro bambine che ha perso la vita nella strage della farina. Abbracciava il sacco di farina e stava sanguinando, chiedeva al suo amico di portare il sacco alle sue figlie perché hanno molta fame e lo stavano aspettando: un testamento estremo, che rappresenta la fine dell’umanità: chi di noi non rischia la vita per garantire la sopravvivenza dei propri figli e figlie?

Tutto il mondo governativo e non, le società civili, le organizzazioni internazionali, a partire dall’Onu e tutte le organizzazioni ad essa affiliate, come Oms e Unicef, stanno denunciando questo tipo di genocidio. Bisogna smetterla con l’ipocrisia: da un lato si forniscono ad Israele armi sofisticate per uccidere i nostri bambini, e dall’altro si lanciano aiuti umanitari dal cielo per tranquillizzare le proprie coscienze.

I politici europei devono liberarsi dalla paura di essere etichettati di antisemitismo e assumere una posizione netta di fronte al genocidio in atto. Il silenzio è complicità. Credo che debbano anche liberarsi dalla paura dell’Islam, dall’islamofobia. Senza l’Islam, che ha illuminato il mondo in diversi campi scientifici e culturali, l’Occidente non sarebbe quello che conosciamo oggi.

Tutti, Ue compresa, hanno scommesso che gli “Accordi di Abramo” avrebbero liquidato una volta per sempre la causa palestinese. Ma il popolo palestinese crede nel diritto e nella giustizia, crede profondamente che la forza della ragione sia più forte della ragione della forza. Tutti noi palestinesi non chiediamo nulla di più che i nostri diritti inalienabili sanciti dal diritto internazionale