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LAVORO SOMMERSO. È necessario intervenire sulle ragioni strutturali che pregiudicano sicurezza e salute sul mercato del lavoro. E queste hanno due nomi principali: appalti e contratti precari.

La precarietà uccide, lo dicono i numeri 

La sicurezza sul lavoro si impone prepotentemente all’attenzione del paese, non solo per le tragedie, come da ultima quella della diga di Suviana, in cui sono coinvolti molti lavoratori, ma anche per lo stillicidio quotidiano con cui veniamo regolarmente informati di incidenti gravi e gravissimi.

È quindi importante che siano avanzate proposte, anche normative, finalizzate alla prevenzione – che richiede prioritariamente attività di formazione mirata e rafforzamento delle modalità di partecipazione dei lavoratori alla organizzazione del lavoro -, al potenziamento delle ispezioni, al disegno di sanzioni con capacità deterrente.

Ma è almeno altrettanto importante che si capisca che è necessario intervenire sulle ragioni strutturali che pregiudicano sicurezza e salute sul mercato del lavoro. E queste hanno due nomi principali: appalti e contratti precari.

Per quanto riguarda gli appalti, come ricordato da Massimo Franchi sul manifesto, sappiamo, da indagini sindacali, che il 70% degli incidenti mortali in edilizia interessa lavoratori in subappalto. E non è un caso: la catena degli appalti e subappalti viene largamente utilizzata per cercare una compressione dei costi che si ottiene pagando bassi salari e riducendo le tutele normative, fra cui, non certo secondarie, quelle che hanno a che fare con la salute dei lavoratori e la loro formazione per la sicurezza. L’applicazione di un contratto diverso da quello del committente o, giù per la catena, dello stesso appaltatore da parte di chi lavora in subappalto, va spezzata, se si vuole impostare seriamente il contrasto alle morti e agli incidenti sul lavoro.

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Per questo è importante la lotta che abbiamo condotto in parlamento – lotta che i sindacati hanno proposto con forza – per ottenere che anche nella catena degli appalti privati sia obbligatorio applicare il contratto siglato dalle associazioni nazionali più rappresentative.

Non è stata una battaglia facile: la risposta iniziale del governo non faceva riferimento ai contratti rappresentativi, ma a quelli più diffusi. Una scelta, che maggioranza e governo hanno già operato, negando il concetto stesso di rappresentanza e rappresentatività e lasciando i lavoratori in balia di contratti firmati da sindacati pirata, compiacenti, scelti dal datore di lavoro. Un concetto a cui si sono opposti, nelle audizioni in commissione alla Camera, anche i rappresentanti delle associazioni datoriali che ne sarebbero a loro volta sconfessate, e i giuristi e i consulenti del lavoro, che ne hanno evidenziato la non applicabilità in sede giurisprudenziale.

Una grande vittoria quella ottenuta con questa modifica, anche se la ministra Calderone non ha accettato di portarla fino in fondo, prevedendo in ogni caso l’obbligo per il subappaltatore di applicare il contratto nazionale del lavoro adottato dall’appaltatore, come è già previsto per gli appalti pubblici. Lasciando così aperta la possibilità di ricorso al subappalto alla ricerca di un contratto meno oneroso.

Ma l’altro aspetto, quello dei contratti precari, non è di minore importanza. E non lo è perché di precarietà si muore. Sono i dati forniti nei giorni scorsi dall’Inail alla commissione bilancio della camera a confermare in modo inequivocabile il legame che esiste fra precarietà e sicurezza sul mercato del lavoro. I dati riguardano il periodo 2018-2022, e non considerano ovviamente i casi imputabili al Covid. Ne emerge un dato impressionate: nel caso dei contratti a tempo indeterminato, gli incidenti mortali sul lavoro hanno una incidenza che è pari al doppio di quella che si registra nel caso di contratti a tempo indeterminato. 8,98 ogni 100mila lavoratori nel primo caso contro 4,49 nel secondo.

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Analoga sproporzione si registra guardando alla incidenza complessiva degli infortuni, che è stata del 3,28% per i contratti a tempo determinato contro il 2,08% per quelli a tempo indeterminato.

Dati drammatici che non stupiscono: i contratti a termine sono assai spesso di durata molto breve e il turn over è molto elevato. Coinvolgono quindi più facilmente lavoratori meno formati, meno addestrati alla prevenzione, meno esperti e quindi meno consapevoli dei rischi. Perché la prevenzione e la formazione sono cose molto serie, non generiche e valide per ogni circostanza, ma con una elevata componente specifica, mirata alle caratteristiche peculiari del lavoro che si deve svolgere e del dove lo si svolge.

La compresenza di lavoratori in appalto o subappalto di ditte diverse, e per giunta con contratti precari, che abbiamo visto in alcuni dei più gravi incidenti, testimonia quanto questa miscela possa diventare esplosiva.

Se parliamo della necessità di ridurre gli incidenti, dunque, non possiamo non parlare della necessità di bonificare il mercato del lavoro, riportando i contratti a termine, così come quelli in somministrazione, alle loro funzioni fisiologiche – la temporaneità di un bisogno o la specialità della manodopera richiesta – evitando che diventino invece strumenti di massima ricattabilità dei lavoratori.

*L’autrice, deputata, è responsabile lavoro del Pd