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GIOVANNA MARINI. I due artisti morti lo stesso giorno inondano le bacheca dei social. Pur nella distanza, entrambi devono molto all'etnomusicologo Alan Lomax e amavano le frequenze medio-alte

Intensità, comunità, responsabilità. Il lutto intrecciato di Giovanna Marini e Steve Albini Giovanna Marini

Quante canzoni, quante immagini di Giovanna Marini e Steve Albini postate in queste ore sui social. La meravigliosa narratrice dei Treni di Reggio Calabria, e una delle figure più intense dell’etica punk anni ’90, chitarrista e produttore (lui preferiva il meno ingombrante tecnico) a dividersi l’attenzione secondo il rituale consueto del lutto in Rete. Un flusso sincero, generoso, moderatamente generazionale (lei 87 anni, lui 61). Dice molto di chi resta, cioè noi che li piangiamo. Vagheggia un tempo lontano in cui le cose promettevano meglio, la musica non era soltanto industria, e neppure la levigata macchina di oggi in tempi di streaming. C’era posto per l’umanità, la politica, la rabbia. Non è vero, non del tutto, come sappiamo, ma fa bene pensare ogni tanto a una via d’uscita.

Chissà cosa ne avrebbe pensato lei – la ricercatrice emula di Lomax e Carpitella – che aveva studiato la funzione del pianto rituale secondo le indicazioni di Ernesto De Martino, e lo aveva fatto entrare nel cuore del suo cantare: certe grida di testa dentro frasi acrobatiche, alla maniera dei madrigali antichi, mettevano assieme l’accettazione e la rabbia per ciò che si perde («e leva le gambe tue da questo regno/ persi le forze mie persi l’ingegno», Lamento per la morte di Pasolini) con un’intensità che mirava al cuore.

«TROVO l’heavy metal (…) comico – spiegava nel frattempo Steve Albini da un altro mondo – e l’hardcore punk infantile (…) Voglio fare qualcosa che sia intenso da sentire, piuttosto che avere solo gli indicatori codificati dell’intensità». Intensità. È il segno dell’umanità, qualcosa che abbia la forza di rompere la ripetizione e la morta noia del linguaggio quotidiano. Teniamocelo stretto.

Del tutto ovvio che soltanto il caso li mette accanto. A lei di rock piaceva Frank Zappa. E Giovanna Daffini, Phil Ochs, il folk revival che aveva conosciuto di persona nella borghese Boston dei primi anni ’60, la capacità delle parole in musica di illuminare la strada, soffiare nel vento, diffondere storie. Steve Albini al contrario era uno della nidiata dei Ramones, midwest, nerd sfigato, fanzinaro cattivissimo. Le parole avesse potuto le avrebbe fatte a pezzi: delle canzoni della sua band Big Black, piene di testi provocatori e scorretti ha ultimamente voluto chiedere scusa («facevo parte di quei privilegiati che non soffrivano davvero l’odio che era racchiuso in quelle parole»), un gesto non comune per tanti della sua generazione.

Ma se volessimo accettare il gioco si potrebbe aggiungere che entrambi amavano frequentare il medesimo spettro sonoro, le frequenze medio-alte della voce e delle chitarre, le vibrazioni non levigate dell’insubordinazione fonica, il qui e ora nelle esecuzioni dal vivo e durante il lavoro in studio. Nella lettera con la quale accetta di registrare lui a Chicago In Utero dei Nirvana (1993) Albini scrive: «Non ho un vangelo fisso di suoni standard o tecniche di registrazione (…) Mi piace lasciare spazio per gli incidenti o il caos». È uno dei documenti più importanti politico/estetici di quegli anni, spiega che non prenderà royalties sul disco perché «i compensi appartengono alla band» e aggiunge: «vorrei essere trattato come un idraulico».

Coi Big Black, Albini aveva frequentato il mondo dell’hardcore anni ’80 nell’America reganiana, girando in furgone, dormendo sui divani, vivendo la vita delle minuscole comunità di ragazzi venute su in ogni dove. Italia quanto sei lunga, ribadiva il magnifico diario di viaggio di Giovanna Marini, dieci o venti prima. Quando gli chiedevano se avesse un’ispirazione nel suo lavoro di produttore Albini diceva Alan Lomax, l’etnomusicologo. Anche Giovanna Marini doveva moltissimo a Lomax. Con Carpitella aveva percorso in furgone l’Italia salvando la nostra musica popolare prima della catastrofe e del festival di Sanremo (c’era già), spingendo giovani musicisti e ricercatori a fare altrettanto.

LA MUSICA popolare non è un genere. Neppure è un suono particolare, se non quello della presenza che Albini amava sentire con decine di vecchi microfoni sparsi nel suo studio. La musica popolare è soprattutto responsabilità nei confronti della propria comunità e delle sue storie. «Il treno che pareva un balcone/ ha ripreso la sua processione» cantava Giovanna Marini che su quei vagoni ci aveva passato davvero la notte. L’ultimo album degli Shellac di Steve Albini, già previsto in uscita il 17 maggio, si chiamerà To all trains, verso tutti i treni. Le coincidenze