Intervista. Parla la sociologa e filosofa esperta di politiche sociali: «I No Vax sono sempre esistiti, non è una novità». «L’idea complottistica non è contro la scienza in sé ma contro quello che viene vissuto come un apparato di controllo e comando, in cui ci si sente in qualche modo negati o sfruttati»
Roma, corteo No Green pass di sabato sera © LaPresse
«Il Green pass è diventato il capro espiatorio di ogni malcontento». La matrice fascista – quella che sfugge alla leader di Fd’I, Giorgia Meloni – la sociologa e filosofa Chiara Saraceno la vede benissimo, negli assalti di Roma. Ma vede anche il resto.
Nei cortei di sabato a Roma e Milano c’era una componente di matrice non fascista. Addirittura persone che una volta si sarebbero orientate a sinistra. Cosa sta accadendo, secondo lei?
Credo anch’io che dire sia stata soltanto una manifestazione fascista sia sbagliato. Certo, organizzata e manovrata, ma che poteva contare su una diffusa insofferenza, un disagio che non è solo economico. Vi sono motivazioni diverse. Come si vede anche nel resto d’Italia: le manifestazioni dei Cobas, per esempio, o il corteo studentesco dei centri sociali che a Torino ha lanciato uova marce contro il municipio. Insomma, credo che adesso chiunque voglia protestare trovi contro il Green pass una buona occasione. La carta verde è diventata il capro espiatorio di ogni malcontento. Il disagio c’è per buone o cattive ragioni: c’è gente che non sta bene, che non riesce a capire cosa stia succedendo e succederà, che si sente tagliata fuori da ogni decisione. Poi c’è sempre anche una parte di ragazzini che esprime il bisogno di ribellione senza avere neppure molta consapevolezza. Però rimane il fatto che queste formazioni neofasciste hanno più capacità di altri di intercettare queste forme di disagio – senza dare alcuna risposta ma offrendo solo una sponda – perché vi lavorano da anni. Il problema è che manca qualunque altra forma di aiuto alla elaborazione.
Non è il segno di una profonda crisi culturale, di una sfiducia nella scienza?
Beh, ma quarant’anni fa non è che ci fosse più fiducia nella scienza o più conoscenza scientifica. Credo semmai che ci sia una sfiducia nelle autorità, questo sì. È più un indicatore di scoesione sociale che di sfiducia nella scienza. Una mancanza di fiducia generalizzata verso “quelli che comandano”. E, anzi, continuare ad invocare la voce della scienza ad ogni decisione rischia, agli occhi di chi non si fida delle istituzioni, di far immaginare un “grande complotto”. L’idea complottistica non è contro la scienza in sé ma contro quello che viene vissuto come un apparato complessivo di controllo e comando, in cui ci si sente in qualche modo annientati o negati o sfruttati.
Questa cultura del complotto è aumentata negli ultimi anni?
Forse un po’ sì, perché esattamente speculare alla perdita di fiducia.
Dove potremmo orientativamente collocarla questa perdita di fiducia?
Da diversi anni abbiamo un dibattito politico inconsistente, tutto basato sull’oggi, e che non si preoccupa minimamente di costruire un discorso pubblico sensato. I social fanno da amplificatore, certo, ma credo ci sia una grossa responsabilità della nostra classe politica.
C’è chi punta il dito contro un certo «effetto Samarcanda», nato con un giornalismo d’assalto che ha fatto da sponda a certi movimenti complottisti e qualunquisti. Lei cosa ne pensa?
Non c’è dubbio. Viviamo nell’era dei talk show che per creare audience favoriscono l’assalto reciproco, e gli invitati preferiti sono quelli che urlano di più. Con conduttori che si sentono inviati da Dio e hanno le loro verità in tasca.
Con la pandemia è aumentato lo scollamento generalizzato con la realtà?
Forse non nella prima fase ma successivamente sì. Un po’ perché si era sperato che finisse presto, che sarebbe andato tutto bene, e invece la realtà è ben diversa. Dunque la delusione ha fatto la sua parte e un po’ di potenziale di fiducia è andato perso. Soprattutto, a proposito di fiducia nella scienza, a questa non hanno dato un gran contributo i conflitti tra virologi agiti in diretta tv. Perché si sa che la scienza procede per tentativi ed errori, ma di solito le discussioni avvengono in consessi dedicati e davanti a pubblici che ne sanno comprendere le sfumature.
Lei cosa pensa del Green pass? Creerà problemi nel mondo del lavoro?
Questo non lo so, però se fosse vero che mancheranno i camionisti, come ho letto, o altre tipologie di lavoratori, credo che avrebbe potuto essere previsto. Non si può arrivare alla scadenza e poi fare delle eccezioni, come temo succederà, solo perché non si è riusciti a trovare una soluzione prima.
È stato gestito male, il Green pass?
Forse ottimisticamente si pensava che l’obbligo della carta verde per lavorare avrebbe incentivato la vaccinazione. E invece non sempre è così. Poi c’è una parte di popolazione che è stata immunizzata con vaccini che non vengono riconosciuti e dunque non accede al Green pass. Comunque parliamo sempre di una minoranza.
Una minoranza No Vax persiste sempre, perché secondo lei?
Perché c’è chi ha più paura del vaccino che di ammalarsi, ma non è una novità: ci sono sempre stati. Pensiamo all’obbligo vaccinale a scuola e a quanti ancora protestano. E non solo in Italia. Eppure nessuno si sognerebbe mai di eliminarlo, quell’obbligo.
Commenta (0 Commenti)Marci su Roma. Tante gente al presidio davanti alla sede nazionale. Il segretario: sabato grande manifestazione "Mai più fascismi". Delegazioni da tutti i partiti
La manifestazione della Cgil davanti alla sede nazionale dopo l'assalto fascista di sabato © Foto Cgil
A meno di sedici ora di distanza dall’assalto fascista alla sede nazionale della Cgil la risposta di mobilitazione democratica arriva pronta ed efficace. Davanti a Corso d’Italia già mezz’ora prima delle 10 non si riesce a camminare. Almeno un migliaio di persone rispondo subito all’invito del sindacato per reagire “all’assalto squadrista”. Mentre si prepara già la grande manifestazione unitaria con Cisl e Uil “Mai più fascismi” per il 16 ottobre, sabato pomeriggio con piazza San Giovanni già prenotata per le troppe richieste che renderebbero piazza del Popolo troppo piccola.
Tanti giovani che cantano a squarciagola e ripetutamente “Bella ciao” e “Ora e sempre Resistenza”, fin troppi politici e persone da tutta Italia che restano a scambiarsi indignazione e voglia di mobilitarsi ben dopo il discorso di Maurizio Landini, unico a parlare. A Roma come in tutte le Camere del Lavoro, obiettivo ieri come esattamente cento anni fa dei fascisti.
La devastazione della “Capitol Hill italiana” è impressionante. I Forzanuovisti di Roberto Fiore hanno devastato buona parte del piano terra della sede dalla Cgil, distruggendo computer e uffici, rovinando quadri sotto le foto di Di Vittorio.
“Un atto fascista e squadrista: deve essere chiaro: se qualcuno ha pensato di intimidirci, di metterci paura, di farci stare zitti, deve sapere che la Cgil e il movimento dei lavoratori hanno già sconfitto il fascismo in questo Paese e riconquistato la democrazia. Non ci intimidiscono, non ci fanno paura”, esordisce il segretario generale della Cgil.
Leggi tutto: Landini: risponderemo con la partecipazione all’assalto squadrista
Commenta (0 Commenti)Dopo il voto. L’entusiasmo con cui si è commentata l’affermazione del centro-sinistra, nasconde la dissoluzione del «popolo» dei 5Stelle che ha alimentato l’astensione
Un'opera di Fernand Leger
Il comprensibile entusiasmo con cui il centro-sinistra (Cs) sta guardando ai risultati delle comunali del 3-4 ottobre sta portando a ritenere che quel «ciclo elettorale» iniziato ormai più di un lustro fa si sia concluso. Se quel «ciclo», che aveva visto l’affermazione del «populismo egalitario» dei 5 Stelle accanto a quello «sovranista» della Lega, starà forse estinguendosi, non per questo sono i consensi del Cs ad aumentare, forse perché le ragioni che ne avevano sancito il successo sono ancora tutte lì.
I 5 Stelle – che già dal 2013 avevano iniziato ad attrarre fino a un quarto dell’elettorato – avevano avuto il merito di coagulare attorno a sé il malcontento di quella fascia di elettori delusa dal Cs, e dal Pd in primis, e dalla svolta neo-liberista cui questo aveva accondisceso: i ceti medio-bassi delle aree urbane e peri-urbane dei giovani adulti precari e sotto-pagati del centro-nord, i ceti medio bassi di città e periferie del meridione. La geografia politica di questa tornata elettorale è, com’è naturale, variabile e articolata. L’aritmetica dei voti espressi e non espressi, tuttavia, offre più di un’indicazione (come ha colto Andrea Fabozzi sul manifesto del 5 ottobre).
Ha un bel da affermare Enrico Letta «che rivincita su chi criticava il Pd!», ma il fatto è che non uno degli elettori che il suo partito aveva perso cinque anni fa pare essere «tornato all’ovile». Perché è la politica del Pd e del Cs tutto che non è cambiata ed è la percezione sulle sue direttrici di fondo che non è mutata. Gli esclusi sono rimasti tali e i commentatori possono pure intonare i soliti «peana» sull’astensionismo. Una partecipazione al voto più bassa di sempre – soprattutto nelle grandi città, dove si afferma il Cs – non è solo «disaffezione». Dissoltasi l’illusione pentastellata – com’era prevedibile, sia per come un classe dirigente inadeguata era stata selezionata che per l’inconsistente e confusa pratica politica messa in atto – l’elettore che, frustrato, emarginato e non rappresentato dalla sinistra, aveva guardato all’universo illuminato dalla stella di Beppe Grillo, si è definitivamente allontanato.
Guardiamo ai numeri delle grandi città. A Bologna, portata ad esempio di un «nuovo» Cs esteso, dalla sinistra ai 5 stelle al Pd ai moderati inclusi i verdi, la coalizione porta a casa 92mila voti. Nel 2016, pur divisa, ne aveva raccolti quasi 110mila. I votanti, che erano stati più di 179mila, scendono di 22mila unità. E mentre i 5 Stelle si dissolvono, perdendo 23mila voti (i cinque sesti), il Pd mantiene i suoi, forse prendendone a sinistra e al centro, senza però guadagnarne uno in più dagli ex elettori «grillini» che, evidentemente, preferiscono astenersi.
A Roma, in un quadro più complicato, non pare esservi un trend differente. Nel 2016, i votanti al primo turno erano stati 1.348mila, oggi sono quasi 200mila in meno. I consensi dimezzati di Virginia Raggi (220mila voti in meno) non compensano i 150mila voti in più dei candidati Gualtieri e Calenda rispetto a quelli di Pd e sinistra 5 anni prima, spartendosi questi il voto di sinistra e di centro (il centro-destra è in calo). È il Pd che non attira gli elettori 5 Stelle.
A Torino, i votanti sono calati di 67mila unità. Cinque anni fa, al primo turno, il candidato Pd aveva ricevuto 160mila voti, contro i 118mila della Appendino (M5S), perdendo poi al secondo turno. Oggi, il candidato di Cs ne raccoglie 140mila, quello del Cd 124mila, mentre la candidata pentastellata si ferma a 28.700. È chiaro come, anche in questo caso, l’elettore 5 Stelle abbia preferito astenersi o votare a destra che scegliere diversamente.
A Napoli, con 60mila votanti in meno del 2016, Gaetano Manfredi, sostenuto da una eterogenea coalizione, è stato eletto al primo turno. Il Pd ottiene 39mila voti (ne aveva 44mila) e i 5 Stelle 31mila (ne avevano 36.500). A Milano, con quasi 60mila votanti in meno, Sala è passato anch’egli al primo turno, il Pd ottiene 152mila voti (appena 6mila in più), mentre Sinistra per Milano perde 8mila voti dei 19mila che aveva. Il candidato 5 Stelle si ferma a 13mila (ne aveva 54mila).
In sostanza, dove i 5 Stelle avevano capitalizzato un considerevole consenso, come a Roma o a Torino, si sono dissolti e i loro elettori si sono dispersi, per lo più astenendosi. A Napoli, dove pure hanno mantenuto una loro base modesta, e a Bologna, dove sono praticamente svaniti, risultano ininfluenti al successo del candidato del Cs. E il Pd non avanza nel numero dei consensi se non a Milano, più a spese della sinistra che dei 5 Stelle.
L’entusiasmo per il risultato di oggi appare dunque eccessivo: gli elettori che avevano scelto i 5 Stelle sono ancora ben lontani da riconoscersi nel «nuovo corso». Perché le ragioni della loro lontananza sono ancora tutte lì e il sostegno del Cs a Draghi e alle sue scelte sulla distribuzione, sul lavoro e sull’inclusione non fa nulla per accorciarle. Quei ceti medio bassi urbani e periferici degli esclusi e dei «non protetti» che avevano dato il loro consenso al populismo egalitario 5 Stelle sono ancora fuori dal radar del «nuovo» centro-sinistra. Che dovrà ripensarsi a fondo prima che, magari, arrivi un «Trump de noantri» a richiamarli.
Commenta (0 Commenti)Autonomia differenziata. Le polemiche a partire dai pre-accordi tra Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e il governo Gentiloni, e poi la pandemia, hanno messo in luce un paese assai più frammentato e diviso di quanto molti fossero consapevoli
Un'opera di Mimmo Paladino
«Fear of the walking dead» recita il titolo di una nota serie televisiva. Bene si adatta all’autonomia differenziata, che dovrebbe a buona ragione essere defunta, e invece cammina ancora tra noi. Lo testimonia l’inserimento tra i collegati al bilancio del disegno di legge attuativo dell’art. 116.3 della Costituzione, fatto con la Nota di aggiornamento del DEF (NADEF). Con il danno collaterale di una probabile sottrazione al referendum abrogativo, per il limite delle leggi di bilancio di cui all’art. 75 della Costituzione. Intendiamoci. L’inserimento di per sé non dà certezze quanto ai tempi o all’approvazione. Molti collegati non hanno poi visto la luce. Ma qui abbiamo due dati significativi.
Il primo, è che in una originaria stesura dell’elenco dei collegati il ddl sull’autonomia differenziata non era presente, ed è poi comparso nella versione definitiva, al primo posto. Questo ci dice di una pressione politica per l’inserimento che non ha trovato opposizioni significative.
Il secondo, che il ddl si inserisce nella dialettica interna alla maggioranza, e specificamente nel tormentone del dualismo Lega di lotta e di governo. Per cui il ddl può essere visto o come offa per la Lega di governo vicina a Draghi (i Fedriga, Zaia, Giorgetti) o come ciambella di salvataggio per Salvini mentre affonda – come indica il voto amministrativo – il suo disegno nazional-sovranista. O entrambe le cose. Ci stupirebbe se l’autonomia non entrasse nell’agenda degli annunciati appuntamenti settimanali di Salvini con il premier Draghi.
Ma era giusto ritenere l’autonomia differenziata defunta, o almeno caduta in catalessi? Ragionevolmente, sì. Le polemiche a partire dai pre-accordi tra Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e il governo Gentiloni, e poi la pandemia, hanno messo in luce un paese assai più frammentato e diviso di quanto molti fossero consapevoli. Per il diritto alla salute, il regionalismo ha nei fatti distrutto il sistema sanitario nazionale, come bene afferma da ultimo l’Anaao-Assomed. Per l’istruzione, la pressione della pandemia ha aggravato il ritardo già pesante che lede i diritti degli studenti di tutte le età in un terzo del paese. In molteplici settori si è evidenziata la necessità di forti politiche pubbliche nazionali e di regole volte a ridurre il divario Nord-Sud secondo le indicazioni dell’Europa. Mentre i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) non sono nemmeno giunti alla pista di lancio.
Invece, vengono segnali negativi sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Le polemiche sulle risorse “territorializzabili”, l’aggiunta ai fondi europei di quelli per la coesione già destinati al Sud, il “repackaging” di vecchi progetti, i bandi che aprono alle zone forti del paese come quello sugli asili nido, la comparativa debolezza delle amministrazioni meridionali, la mancanza di una chiara strategia su punti nodali come i porti, la logistica e la manifattura, prefigurano una mera riparazione dei danni da Covid e un ripristino delle preesistenze.
L’intento di costruire un paese nuovo e diverso rischia di dissolversi. Capiamo che il momento favorisce ciò che fa ripartire subito il PIL. Ma se solo questa è la logica, l’esito è concentrare le risorse sulle aree forti del paese, dove il rendimento a breve termine degli investimenti può essere presentato come maggiore, più agevole e certo. E dove, non a caso, il lobbying su chi decide è più efficace.
È bene che i governatori del Sud protestino perché mancano 7 miliardi, ed è scontata la difesa di ufficio di Giovannini sul 40% per il Sud. La questione del quantum, però, è più complessa, e si aggiunge ad altre. In specie, l’autonomia differenziata si scontra con gli obiettivi di rilancio del paese tutto assegnati a parole al PNRR. I governatori dovrebbero pretendere di vedere le carte tuttora nascoste, farle valutare da studiosi ed esperti indipendenti, e cercare sinergie da far valere nelle sedi di concertazione. Proprio in quelle il Sud negli anni è stato colpito e affondato, per colpa dei suoi ignavi governanti e per dolo degli altri.
Lasciamo perdere la favola menzognera che l’autonomia differenziata conviene al Sud come al Nord. Mettiamo la questione almeno in standby per il tempo del PNRR, e vediamo quale paese viene dall’attuazione del Piano. Diversamente, il rischio è una collisione che spinge il Sud tra i walking dead. Per essere poi seguito dal paese tutto, che rimane nella stagnazione.
Il discorso. La critica del premio Nobel per la fisica alla Pre-Cop26 in Parlamento: "Governi inadeguati sulla crisi". «il Pil non è una buona misura per economia e clima». E poi un nuovo appello per l'istruzione e la ricerca pubblica: "Dare ai bambini un'educazione scientifica a partire dalla scuola materna"
Il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi
Un manifesto per la giustizia climatica al tempo delle emergenze e delle pandemie globali. Lo ha pronunciato ieri alla Camera il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi rivolgendosi ai parlamentari riuniti per la pre-conferenza sul clima che si svolgerà a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quello della Camera Roberto Fico e del Senato Elisabetta Casellati, della speaker della Camera statunitense Nancy Pelosi. Il fisico romano ha esortato a adottare «scelte essenziali per contrastare con forza il cambiamento climatico» e a abbattere il totem del capitalismo fossile: il prodotto interno lordo (Pil) che risponde all’imperativo della crescita quantitativa, prodotto dell’età del produttivismo e dell’antropocentrismo. «Se il Pil resterà al centro dell’attenzione, il nostro futuro sarà triste».
IN POCHE, e intensissime parole, il premio Nobel Giorgio Parisi ha mostrato ieri alla Camera come la scienza, strumento per analizzare e prospettare l’impatto del capitalismo sul pianeta e su tutte le sue forme di vita, risponda anche a una passione civile e politica. «Sono decenni che la scienza ci ha avvertito che i comportamenti umani stavano mettendo le basi per un aumento vertiginoso della temperatura del nostro pianeta». «Se la temperatura» della Terra aumenterà di più di due gradi entreremo in una terra incognita in cui ci potranno verificarsi altri fenomeni che non abbiamo previsto e che possono peggiorare enormemente le situazione. Incendi di foreste colossali come l’Amazzonia che immetterebbero in maniera catastrofica quantità enormi di gas serra. Gli oceani che assorbono molti dei gas serra che emettiamo continueranno a farlo con due gradi di più? Mentre il limite inferiore dei due gradi è qualcosa sul quale possiamo essere abbastanza sicuri, è molto più difficile capire quale sia lo scenario più pessimistico: potrebbe essere molto ma molto peggiore di quello che noi immaginiamo».
IL FISICO ROMANO non è sembrato molto ottimista sul fatto che il suo allarme sia raccolto (« ma la speranza è l’ultima a morire», ha detto). E ha criticato i politici con questa immagine: «Uscire dalla crisi climatica è come guidare di notte: le scienze sono i fari, ma poi la responsabilità di non andare fuori strada è del guidatore, che deve anche tener conto che i fari hanno una portata limitata. Il vostro compito storico – ha detto – è di aiutare l’umanità a passare per una strada piena di pericoli».
L’ALTERNATIVA non può essere basata sulla ricerca ossessiva dell’incremento del Prodotto interno lordo attorno al quale il governo e la sua maggioranza sono riuniti nella speranza che il «Piano di ripresa e resilienza» non lasci il Pil a zero com’era prima del Covid. L’invito di Parisi a cambiare il metodo di calcolo della crescita presuppone un cambiamento degli interessi sociali che dovrebbe seguire la «transizione ecologica» alla quale in Italia è stata dedicato anche un ministero. Sulla scia del dibattito economico che ha fissato i termini del problema Parisi ha detto che «il Pil sta alla base delle decisioni politiche, e la missione dei governi sembra essere di aumentarlo il più possibile, obiettivo che è in profondo contrasto con l’arresto del cambiamento climatico. Il Pil non è una buona misura perché cattura la quantità ma non la qualità della crescita. Sono stati proposti molti indici diversi, tra cui l’indice di sviluppo umano e l’indice di benessere economico sostenibile» «Chi pianifica il nostro futuro deve usare un indice che consideri altri aspetti dell’esistenza».
IL DISCORSO DI PARISI ieri era rivolto ai giovani. «Bloccare il cambiamento climatico è un’impresa che impegnerà l’umanità per moltissimi anni e le nuove generazioni avranno un ruolo fondamentale. L’educazione è un punto cruciale. I giovani devono essere in grado di capire la situazione generale e di formarsi le proprie idee. Dobbiamo dare ai bambini un’educazione scientifica a partire dalla scuola materna».
Commenta (0 Commenti)Diritto d'asilo. Un’identità europea costruita sulla figura dello straniero come nemico va combattuta senza se e senza ma. I muri e il filo spinato, così come la criminalizzazione dei migranti, possono rappresentare la tomba dell’idea stessa di Europa unita
Polizia slovena ferma migranti al confine con l'Austria nel 2015 © Darko Bandic /Ap - LaPresse
C’era una volta il muro di Berlino. Tra i 12 governi dell’Ue che hanno chiesto alla Commissione Europea di tornare a erigere muri intorno ai nostri confini, molti sono i nostalgici del nazismo. «La scimmia del quarto Reich ballava la polca sopra il muro», scriveva Faber. L’ideologia dei muri e delle divisioni, che pensavamo di aver scacciato dalla nostra comune storia europea quel 9 novembre del 1989, torna prepotentemente a minare la pace e la convivenza tra i popoli del vecchio continente.
Siamo di fronte a un pesante rafforzamento del campo sovranista e razzista, soprattutto in assenza di un soggetto altrettanto forte e determinato che promuova i diritti e la democrazia. L’attacco delle destre, sempre più determinate e organizzate, ai principi dell’Ue e del diritto internazionale potrebbe far capitolare le forze democratiche, in assenza di un orizzonte comune e di una classe dirigente all’altezza della sfida che abbiamo davanti.
Questa vergognosa richiesta di finanziare la costruzione di muri e recinzioni a difesa dell’ideologia sovranista non è purtroppo una novità nelle politiche dei governi europei ed è la naturale evoluzione di quanto la Commissione propone con il «Patto Europeo su Immigrazione e Asilo».
Da anni intorno ai confini dell’Ue in Grecia, in Bulgaria, in Slovenia come nell’enclave africana della Spagna, a Ceuta e Melilla, i governi hanno eretto mura e realizzato sofisticati sistemi di controllo, simili a quelli tra Messico e Usa che tanto piacevano a Trump, per impedire che le persone possano entrare nell’Ue.
Muri e sistemi di controllo finanziati dall’Europa sono stati implementati
Leggi tutto: Contro il futuro nero dell’Europa - Filippo Miraglia
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