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ELEZIONI WIN-WIN. Niente colpi di testa, lo status quo è salvo. E per Pechino è un esito dal gusto agrodolce

Supporter del Partito progressista democratico celebrano la vittoria di Lai Ching-te alle presidenziali foto Ap Supporter del Partito progressista democratico celebrano la vittoria di Lai Ching-te alle presidenziali - Ap

Una scelta estrema e radicale. Di primo acchito, senza conoscere bene la realtà interna di Taiwan e le dinamiche delle relazioni intrastretto con la Cina continentale, verrebbe da definire così l’esito delle elezioni presidenziali e legislative svoltesi ieri sull’isola.

Il primo voto con potenziali implicazioni globali di questo 2024 denso di appuntamenti alle urne. Se si scava più a fondo, però, si capisce che non è così. È vero che la vittoria di Lai Ching-te consegna al Partito progressista democratico (DPP) un terzo mandato presidenziale consecutivo per la prima volta da quando si svolgono le elezioni libere, cioè dal 1996. Ma è altrettanto vero che rispetto alle presidenziali del 2020 lo stesso partito ha perso circa due milioni e seicentomila voti. Una cifra imponente, considerando che gli aventi diritto sono poco più di 19,5 milioni. Dagli oltre otto milioni totalizzati quattro anni fa si è passati ai cinque milioni e mezzo di ieri. È vero che allora alla presidente uscente Tsai Ing-wen fu di fatto steso il tappeto rosso sotto i piedi: la repressione delle proteste di Hong Kong e il sostanziale prepensionamento dell’applicazione meno restrittiva del modello «un paese, due sistemi» in vigore nell’ex colonia britannica ribaltò i rapporti di forza con il Guomindang (Gmd), l’opposizione dialogante con Pechino, spostando completamente la campagna elettorale sul tema identitario.

Fu la prova che più il Partito comunista cinese mostra i muscoli e più i taiwanesi se ne allontanano. Era successo anche nel 1996 quando, nonostante le ripetute esercitazioni e i lanci di missili durante quella che è passata alla storia come la «terza crisi dello Stretto», vinse un candidato osteggiato da Pechino: Lee Teng-hui.

Non deve sorprendere eccessivamente, dunque, se bollarlo come un «secessionista radicale» come hanno fatto a più riprese le autorità continentali non sia bastato per sbarrare la strada del palazzo presidenziale a Lai. Anzi, consapevole che un’eccessiva aggressività durante la campagna elettorale avrebbe potuto rivelarsi controproducente, nella seconda parte del 2023 la Repubblica popolare ha adottato un profilo relativamente basso. Soprattutto sul fronte militare, preferendo invece un approccio da bastone e carota su quello commerciale. Prima, a due settimane dal voto, la rimozione di una serie di agevolazioni tariffarie sulle importazioni di prodotti taiwanesi. Poi, solo pochi giorni prima delle urne, la pubblicazione di un piano di integrazione economico e culturale tra Taiwan e Fujian, la provincia che si affaccia sullo Stretto. Con una serie di agevolazioni per i taiwanesi nell’aprire attività o risiedere sul “continente”, con accesso garantito anche al sistema di assistenza sociale.

Per Lai è stato così più difficile spostare il voto sul tema identitario come in precedenza era agevolmente riuscito a Tsai. Come la retorica da “guerra e pace” proposta a intermittenza da Pechino e dal Gmd ha delle lacune, anche quella identitaria del Dpp inizia a mostrare segni di stanchezza. Basti guardare al risultato delle legislative, dove il Dpp perde la maggioranza in modo piuttosto fragoroso.
Si scopre allora che forse il voto dei taiwanesi è stato più pragmatico di quanto sembrasse a prima vista. Non sono pochi coloro che ieri ai seggi parlavano di una necessità di bilanciamento dei poteri tra ramo esecutivo e ramo legislativo. Un modo anche per allontanare ulteriormente eventuali colpi di testa in grado di mettere a repentaglio lo status quo, il vero faro dei taiwanesi visto che quasi il 90% di loro lo indica come (non) soluzione preferita ai rapporti con Pechino.

A sembrare estrema e radicale potrebbe essere anche la prima presa di posizione ufficiale cinese dopo il voto.
«Taiwan è la Taiwan della Cina», si legge nel comunicato dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan di Pechino. E ancora: «La madrepatria sarà inevitabilmente riunificata».

Eppure, c’è un’altra frase significativa: «I risultati delle elezioni a Taiwan mostrano che stavolta il Partito progressista democratico non rappresenta l’opinione pubblica maggioritaria dell’isola». Un modo per sottolineare una piccola vittoria, ma anche (probabilmente e auspicabilmente) per evitare reazioni scomposte al voto