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TEMPI PRESENTI. Un percorso di letture per attraversare significati e storia della guerra. Due saggi, di Francesco Strazzari e Noam Chomski, e un reportage di Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi. Partendo dalle parole, il lessema protoslavo «krajna», rinnovando memorie balcaniche, vuol dire «pezzo di un pezzo di terra», terra ai margini, al confine. Un focus è quello che racconta ciò che è accaduto dal 2014 nel Donbass, con 14mila morti, due milioni di profughi e diversi tentativi diplomatici: Minsk1 e Minsk 2

Ucraina, decifrare la misura del conflitto

 

È possibile produrre una analisi scientifica e indipendente sulla guerra in Ucraina, interrogandosi su origini, senso e implicazioni del sanguinoso conflitto in corso iniziato con l’aggressione di Putin il 24 febbraio ma preceduto da 8 anni di crisi bellica tra Kiev e il Donbass? C’è riuscito Francesco Strazzari con un libro davvero importante, Frontiera Ucraina. Guerra, geopolitiche e ordina internazionale (Il Mulino, pp. 226, euro 16). L’intento è stato quello di decifrare la dimensione ideologica e simbolico-emotiva del conflitto. Partendo dalle parole: in questo caso il lessema protoslavo krajna. Che, rinnovando memorie balcaniche, vuol dire «pezzo di un pezzo di terra», terra ai margini, al confine. Dominato dal principio ufficiale di separazione ma dove è potuto accadere, come terra «di nessuno» perfino il contrario con liberi rapporti e scambio.

LA SEPARAZIONE è nata e si alimenta sia dai miti fondativi, che rischiano su questo liminare di essere uguali sia per russi che per ucraini, sia dai processi storici che derivano dalla costituzione dell’Urss sulla sconfitta dell’impero zarista, e poi dall’implosione dell’Urss con la nascita della Federazione russa – in mezzo c’è il nodo cogente della Crimea, russa ma finita per «donazione» di partito all’Ucraina e poi autodeterminatasi come russa. Per una Russia, scrive Strazzari, «ripiegata sulla propria sconfitta» epocale e non ascoltata in Occidente, sul crinale irrisolto di essere al contempo parte dell’Europa e pansalvista con internità nell’Eurasia. Ma per la quale il nuovo leader Putin sarebbe stato pronto a costruire il riscatto sovranista-nazionalista, con il mix simbolico aggressivo della «patria minacciata», recuperando zar e Stalin e cancellando ancora una volta i tentativi di Gorbaciov di salvare l’esperienza sovietica e socialista-internazionalista, e scaricando sul bolscevismo e su Lenin le responsabilità della nascita dell’Ucraina indipendente e sovietica.

Ma se non ci sono sconti per Putin, non ce ne sono nemmeno per la Nato «presente nella crisi dal 1997», per il nazionalismo di Kiev; e per la destra estrema ucraina, suprematista e ammantata di simbologia nazista – espediente narrativo dell’invasione di Putin che però pesca nello stesso pozzo nero dell’identità sovranista –, che dopo Majdan, dal 2014 si è impegnata in una guerra criminale contro i filorussi e russofoni e che ora, difendendo il Paese dall’aggressione, acquista ancora più centralità, del resto da tempo è parte delle istituzioni dello Stato ucraino che, scrive Strazzari, «dovrebbe preoccuparsi di questa minaccia alla democrazia». E c’è una critica all’invio massiccio di armi da parte occidentale presentato «poco credibilmente quale mezzo per abbreviare la durata della guerra e ridurre le sofferenze della popolazione», mentre in campo cresce invece una escalation feroce che adombra nello scenario l’arma nucleare. Fatto rilevante del libro è la denuncia del limite rappresentato dalla geopolitica. Perché si è incrinato l’immaginario della Guerra fredda e perché nel nuovo disordine mondiale il determinismo cieco con cui si dispongono le bandierine della battaglia rischia di fare della geopolitica nient’altro che una «partecipazione alla guerra» se non assume anche una critica di sé.

NOAM CHOMSKI, tra l’altro di lontane origini ucraine, non ha esitato a definire come una aggressione quella della Russia di Putin all’Ucraina, né ha lesinato stima per la resistenza del popolo ucraino fin a definirla «eroica». Ma allo stesso tempo – nel suo ultimo libro Perché l’Ucraina, risultato di due interviste di Valentina Nicolì e di C. J. Polichroniou (Ponte alle Grazie, pp. 142, euro 12) – sottolinea il ruolo centrale della Nato, sullo sfondo dell’89 e della fine dell’Urss. Con una premessa che aiuta a non costruire simmetrie giustificanti ed errate: «Certo è vero che gli Stati uniti e i loro alleati violano il diritto internazionale senza battere ciglio.., ma questo non costituisce una attenuante per i crimini di Putin». «Tuttavia – insiste Chomski – è innegabile che Kosovo, Iraq e Libia abbiamo avuto ripercussioni dirette sul conflitto in Ucraina» come pure e semplici «aggressioni… Oltre che un pugno in faccia alla Russia». «È stato soprattutto il bombardamento della Serbia – spiega ancora –, alleata della Russia (senza nemmeno informarla in anticipo), a far cambiare idea ai russi allorché erano intenzionati a collaborare con gli Stati uniti per costruire una nuova struttura di sicurezza europea post-Guerra fredda; un’inversione di rotta poi accelerata con l’invasione dell’Iraq e il bombardamento della Libia, dopo che la Russia aveva accettato di non bocciare una risoluzione dell’Onu che la Nato immediatamente violò».

UNA STORIA COMINCIATA con l’89 come snaturamento strumentale delle aperture di Gorbaciov che proponeva all’Occidente una «casa comune europea», quando accettò la riunificazione e la militarizzazione della Germania ma a condizione che le forze della Nato «non si spostassero di un centimetro verso est» fu la promessa, a parole, del segretario di Stato James Baker. E invece l’Alleanza atlantica si allargò a est con basi, sistemi d’arma fino a quelli anti-missile, truppe, manovre che «abbaiavano» alla Russia, prima verso la ex Ddr, poi con Clinton fino ai confini russi e fino alle proposte di far entrare Georgia – e fu guerra già nel 2008 – e Ucraina nella Nato. E questa, insiste Chomski «è una minaccia per la Russia, quasi inconcepibile per qualsiasi leader russo: nessuno, non importa chi, potrebbe accettarla». È dunque la periodizzazione della crisi la lezione che ci impartisce.

LA PERIODIZZAZIONE torna utile. Perché nel Donbass la guerra c’era già, durava dal 2014, con 14mila morti, due milioni di profughi e diversi tentativi diplomatici Minsk 1 e Minsk 2, falliti anche grazie al governo e alla Rada di Kiev. E ora nell’ultima intervista a Zeit Angela Merkel rivela: quegli accordi di pace servivano solo «a dare tempo all’Ucraina per rafforzarsi». Dopo l’oscura Majdan che alimenta il nazionalismo ucraino antirusso con stragi efferate e impunite come quella di Odessa, con la messa all’indice della lingua russa, il partito comunista fuorilegge, la cancellazione nella costituzione ucraina dei russi tra i popoli fondativi.
Pochi i giornalisti che hanno raccontato il conflitto nascosto, come Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi che ripropongono ora la nuova edizione del prezioso reportage La guerra che non c’era (Baldini e Castoldi, pp 266, euro 18) . «Dove eravamo – domandano – quando nell’autunno 2014 il presidente ucraino Porošenko tesseva le lodi dei bombardamenti indiscriminati sulle citta del Donbass («I nostri figli andranno a scuola e all’asilo – disse –, mentre i loro staranno rintanati nelle cantine!»), quando i russi avevano gioco facile nel presentarsi come liberatori e distribuire generi alimentari ai profughi in fuga dalle macerie».

Arrivati nel Donbass degli insorti filorussi, convinti di trovarsi di fronte ad uno scenario da guerra civile spagnola, scoprono la tragedia della guerra che si consuma in un fratricidio, che si alimenta della miccia dell’odio, dove le idee politiche «di sinistra» trasfigurano nel nazionalismo. Dove la toponomastica sembra il cimitero di quello che fu, contro la guerra imperialista, la rivoluzione bolscevica. Con matrioske di senso che ingoiano le statue di Lenin, le città di Spartak e di Stakhanov, l’ulitza Engels, la prospettiva Karl Marx. Macerie non solo topografiche. In un mondo che però non si sente comunista: qui il filosovietismo non è internazionalismo e rifiuto della guerra, ma nazionalismo panrusso; che loda le figure forti di Stalin e Mussolini.

È UN RACCONTO sapientemente scritto, in presa diretta, trincea dopo trincea, tra imboscate e mine, fino all’ordine mortuario dei corpi senza vita che puzzano nel grande obitorio di Donetsk. È stata la guerra intestina, nascosta, che preludeva a questa in corso ormai internazionalizzata. Venne ucciso il 24 maggio 2014, con il reporter attivista dei diritti umani e interprete Andrej Mironov, il fotografo italiano Andrea Rocchelli, preso di mira da un cannone dei militari ucraini, un assassinio impunito solo per vizio di forma nella sentenza. Una guerra che, al di là dei simboli, vedeva e vede lavoratori contro altri lavoratori. Infatti chi ci ha guadagnato? Per comprenderlo, consigliano Sceresini e Giroffi, bisogna scendere nelle miniere clandestine di carbone, le kopankas, che dal 2014 rappresentano l’unica fonte di guadagno per migliaia di operai rimasti disoccupati a causa del conflitto.
Laggiù, in tunnel alti poco più di un metro, si fatica sei giorni su sette per una paga di 200 dollari al mese. I proprietari, fino almeno al 2017, erano spesso gli stessi leader separatisti, i quali – in barba alla propaganda – rivendevano poi il materiale estratto ai loro colleghi, ed oligarchi, ucraini – l’ex presidente Poroshenko è accusato a Kiev di alto tradimento proprio per questi traffici. Ha vinto l’internazionale degli oligarchi e degli affari di guerra