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SFIDARE LA DESTRA. Forse perché distratti da una guerra da 750mila morti a dieci ore di automobile dall’Italia o dalla carneficina di Gaza che in meno di tre mesi ha fatto più vittime di ogni altra guerra; forse perché preoccupati dai segni del cambiamento climatico; forse perché storditi dalla destra al governo, forse per queste o per altre disgrazie che hanno deviato la nostra attenzione non ci siamo accorti che il 2023 è stato un anno di record positivi
L’anno che verrà, l’olio e l’ingranaggio 

Forse perché distratti da una guerra da 750mila morti a dieci ore di automobile dall’Italia o dalla carneficina di Gaza che in meno di tre mesi – tanto è passato dal brutale assalto di Hamas che ha scatenato Israele – ha fatto più vittime di ogni altra guerra in quei territori già tanto insanguinati; forse perché preoccupati dai segni del cambiamento climatico, il 2023 è stato per il pianeta l’anno più caldo di sempre e c’è già almeno uno stato al mondo che annega ufficialmente, tanto che ai suoi abitanti viene riconosciuto il raro diritto di rifugiarsi altrove (è una di quelle piccole isole che la Cop28 ha lasciato fuori dalla porta quando ha firmato il suo inutile compromesso finale); forse perché storditi dalla destra al governo qui da noi, che taglia diritti e redditi ma chiede alle donne tanti nuovi bambini, probabilmente poveri, sicuramente bianchi perché se non lo sono che affoghino pure in mare, forse per queste o per altre disgrazie che hanno deviato la nostra attenzione non ci siamo accorti che il 2023 è stato un anno di record positivi.

Fortunatamente ce lo ha ricordato ieri il Sole 24 Ore, prova che i giornali servono ancora a qualcosa: l’anno che si chiude è stato quello «record per Borse, bond e oro». Lo è stato un po’ ovunque nel mondo, principalmente per le scommesse su inflazione e tassi (in discesa), ma per qualcuno è andata particolarmente bene.

Quel qualcuno siamo noi, nel senso dell’Italia: gli indici azionari della Borsa di Milano sono saliti in un anno di oltre 28 punti, più di Wall Street e di qualsiasi altra Borsa europea (8 punti più di Francoforte, 12 più di Parigi), sfiorando di uno zero virgola Tokyo. La maggiore impennata l’hanno fatta segnare le quotazioni delle banche italiane, «performance stellare» la definisce giustamente il quotidiano di Confindustria: +48% quando la media europea è meno della metà (+20%) e quella americana la metà della metà (+10%).

Se vi state chiedendo perché tanta grazia, la ragione è semplice: le banche italiane nel 2023 hanno fatto una valanga di utili e anche in questo caso c’entrano gli alti tassi di interesse che per chi ha un mutuo o ha bisogno di un prestito sono una condanna ma per chi ha il contante sono una benedizione.

Le banche italiane sono particolarmente fortunate (e la Borsa se n’è accorta) perché il nostro governo ha fatto solo finta di interessarsi ai loro extraprofitti e l’imposta, che era già una carezza, alla fine non l’hanno pagata neanche le banche controllate dal governo che avrebbe dovuto tassarle.

Pochi si sono accorti di tutta questa ricchezza che evidentemente pervade il nostro paese. Non solo perché la teoria economica dello «sgocciolamento» si è dimostrata una stupidaggine almeno quarant’anni fa, essendo provato il contrario e cioè che i ricchi riescono più facilmente a spremere fino all’ultima goccia i poveri, ma anche perché guardandosi attorno è più facile vedere crisi aziendali, servizi sociali tagliati, sfratti, beni un tempo di prima necessità diventati proibitivi.

Si notano le file alla Caritas, non quelle dai gioiellieri, che ricevono su appuntamento, eppure quello dei preziosi è uno dei settori che va meglio per la domanda interna, insieme a tutto il mercato del lusso. La ricchezza va pur messa al riparo.

Nell’economia capitalistica le crisi producono da sempre aumento delle diseguaglianze, pandemia e guerra non hanno fatto eccezione. L’Italia del boom della Borsa è all’avanguardia nel creare nuove sperequazioni e allargare quelle esistenti. I

l governo che attualmente l’amministra con il piglio di chi vuol durare un ventennio (ma vedremo) è l’olio nell’ingranaggio. Anti sistema nelle memorie e talvolta ancora nelle movenze e nei tic, la destra al potere è perfettamente funzionale al sistema che arricchisce i ricchi e impoverisce i poveri.

Idealtipo del populismo delle classi dominanti, la destra di Giorgia Meloni che resiste al 30% nei sondaggi è quella che grida contro la perfidia delle tecnocrazie europee e poi non può che accordarsi ai loro rigori, che agita la retorica degli straccioni contro i potenti e poi agisce in modo da moltiplicare i primi e far felici i secondi, tagliando e cancellando i redditi bassi e diminuendo le tasse ai redditi alti.

È la destra che si impalca a Nazione e poi restringe l’area dell’intervento pubblico e teorizza lo Stato minimo: che gli ultimi si arrangino a trovare un sussidio, una scuola, un medico.

Tutto questo non può sorprenderci, sappiamo da tempo che in politica la reazione va a braccetto con la conservazione dei privilegi, che non c’è separazione logica tra l’attacco ai diritti civili e quello ai diritti sociali, che le pulsioni neo fasciste non hanno mai disturbato il capitale che si affretta anzi a giustificarle. E se non lo sapessimo, l’ultimo esempio di liberismo illiberale lo vediamo in Argentina mentre il prossimo rischiamo di rivederlo negli Stati uniti.

Tutto questo però ci dà la dimensione della sfida che ci attende, che non è solo quella di contrastare la destra al governo, opporsi alle sue scelte politiche, cercare di mandarla in crisi il prima possibile. È soprattutto quella di scardinare il modello economico e sociale che le sta dietro, di cui si nutre e in nome e per conto del quale agisce.

Non è una sfida tattica, non si può vincere sulla superficie della propaganda elettorale, ed è un lavoro che attende tutta la sinistra proprio nel momento in cui è più debole e disarticolata. La sinistra che, confusamente magari, ha individuato nel sistema capitalista la causa delle disuguaglianze e della devastazione ambientale e anche la sinistra che questo non sa fare, dichiarandosi tale senza aver fatto ancora niente per dimostrarlo.

Ed è un compito che attende anche questo giornale, con i suoi piccoli mezzi e la sua grande volontà, accresciuta dall’attenzione e dall’affetto che ci avete dimostrato negli ultimi mesi. Purtroppo per il 2024 un altro mondo non è affatto probabile, ma è sempre più necessario.

Buon anno, dunque