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Sicurezza Si prepara un decreto ed è stato depositato un ddl per istituire un’Autorità apposita. Sindacati e opposizioni: «Incostituzionale». 81 mila gli ordini esecutivi nel 2024. Per l’Istat un milione di affittuari è sotto la soglia di povertà

La destra e il diritto assoluto alla proprietà: «Accelerare gli sfratti»

La destra conferma la sua idea di sicurezza: è la difesa della proprietà privata, meglio ancora se messa a rendita da grandi investitori ai danni di cittadini abbandonati a sé stessi. Di questo parla la nuova idea, proveniente da Fratelli d’Italia, per accelerare gli sfratti. Così, dopo il balletto sulla tassazione degli affitti brevi e il silenzio sul Piano casa, ecco il riflesso pavloviano del manganello.

GIÀ SONO operative le norme che hanno peggiorato la condizione degli inquilini contenute nel decreto sicurezza. Colpiscono chi occupa una casa per necessità e anche i solidali che si mobilitano a tutela dei più deboli con i picchetti anti-sfratto. Ma le associazioni degli investitori immobiliari lamentano che quella stretta repressiva, pure giudicata sproporzionate da fior di giuristi ed esperti, vale soltanto per la prima casa. Non copre gli immobili messi a rendita da speculatori e operatori del real estate. Allora i meloniani stanno approntando un testo che accelera l’ordine esecutivo. L’allarme arriva da Unione inquilini, che ricorda che in questo paese già più di un milione di locatari vive al di sotto della soglia di povertà e non gode di alcuna misura di sostegno da parte dell’esecutivo. «Si è aperta la caccia allo scalpo degli sfrattati – spiega Silvia Paoluzzi, segretaria di Ui – Il governo sta elaborando un decreto. E c’è un disegno di legge di FdI. Vogliono accelerare l’esecuzione degli sfratti». Il disegno di legge è stato depositato al senato, primo firmatario Paolo Marcheschi di FdI e alla camera da Alice Buonguerrieri: punta velocizzare gli sfratti per chi non paga l’affitto per due mesi. Per rendere la procedura più snella si pensa a un’Autorità ad hoc alle dipendenze del ministero della giustizia. Anche il Sunia considera che la scorciatoia potrebbe essere incostituzionale.

BALAKRISHNAN Rajagopal, relatore Onu per il diritto all’alloggio, nei giorni scorsi era in Italia. Ha incontrato, tra gli altri, gli inquilini del quartiere romano del Quarticciolo, e ribadito che gli sfratti senza passaggio da casa a casa violano il Trattato sui diritti economici sociali e culturali che l’Italia ha recepito con la legge 881 del 1977. Queste norme, la Costituzione italiana e gli impegni Onu, dicono che la proprietà privata non è un diritto assoluto, va contemperato con altri diritti predominanti. La casa, insomma, non è un bene come un altro: riguarda un diritto fondamentale, che solo pochi giorni fa papa Leone XIV ha definito «sacro». «Oltre al danno dell’assenza totale di un piano casa nella manovra siamo alla beffa: la maggioranza usa l’arma di distrazione di massa della morosità» dice il senatore Daniele Manca, capogruppo Pd in commissione bilancio. «L’istituzione di un’Autorità per gli sfratti serve solo a mostrare il manganello per dare un segnale ai proprietari senza affrontare la radice del problema» aggiunge il deputato M5S Agostino Santillo. «Altro che emergenza abitativa: questa è una dichiarazione di guerra ai poveri», aggiunge da Avs Marco Grimaldi. L’opposizione ha una proposta di legge unitaria che contiene un Piano per l’edilizia residenziale pubblica, il rifinanziamento dei fondi per morosità incolpevole e un censimento degli immobili inutilizzati. Servono almeno 500 mila appartamenti di edilizia popolare. Sarebbe auspicabile che vengano ricavati dal patrimonio già costruito, per scongiurare altro consumo di suolo ed evitare ghetti destinati ai poveri.

C’È UN PROBLEMA strutturale sull’esecuzione degli sfratti. Secondo il Viminale, l’anno scorso sono stati emessi 81mila provvedimenti di sfratto, solo un quarto portati a termine. Per procedere allo sfratto, infatti, non basta l’accelerazione amministrativa che immagina il governo. Servono più forze dell’ordine, ma anche altre figure che di solito vengono mobilitate per buttare le persone fuori casa: l’ufficiale giudiziario, un fabbro, i servizi sociali. Da questo punto di vista, la nuova stretta sugli sfratti potrebbe risultare una mera mossa di propaganda. Ma sarebbe destinata a non avere esiti del tutto virtuali, comunque avrebbe un effetto logorante sugli inquilini oltre a iniettare ulteriori tossine nelle relazioni sociali, ma difficilmente produrrebbe da subito l’aumento degli sgomberi. A meno che la destra non pensi anche di ricorrere a guardiani e piccoli eserciti privati che, come accade in altri paesi, fanno il lavoro sporco per conto dei padroni di casa. Almeno questo, ancora non risulta.

Dieci anni dopo l'accordo di Parigi nel 2015, le sfide dei cambiamenti climatici restano aperte: finanziamenti alle economie emergenti, politiche di adattamento, uscita dalle fonti fossili. Cosa si discuterà a Belém a novembre.

2025 UN Climate Change Conference (UNFCCC COP 30) – Huairou Commission

Un luogo simbolico, l’Amazzonia, e una data storica, dieci anni dopo l’accordo di Parigi sulle emissioni del 2015. Basteranno queste circostanze per ottenere risultati ambiziosi alla Cop30 in Brasile?

La prossima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la trentesima, si terrà a Belém, città di quasi un milione e 400mila abitanti alle porte della foresta amazzonica, sulla riva destra del Rio Guamá, dal 10 al 21 novembre.

Cop, ricordiamo, è l’acronimo di Conference of the Parties, la Conferenza delle Parti che riunisce i Paesi che hanno aderito nel 1992 alla Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici, firmata al Summit della Terra di Rio de Janeiro.

Manca poco più di una settimana alla Cop brasiliana e si segnalano già i primi timori sui possibili esiti.

A far discutere è soprattutto l’iniziativa Belém Committment for Sustainable Fuels lanciata dal governo brasiliano il 14 ottobre all’evento Pre-Cop a Brasilia, nota come “Belém 4x”: sostenere l’obiettivo globale di quadruplicare la produzione e l’utilizzo di carburanti sostenibili entro il 2035.

L’Italia, insieme a Giappone e India, ha già espresso il suo supporto all’iniziativa, volta a promuovere la diffusione di idrogeno e suoi derivati, biogas, biocombustibili e carburanti sintetici di origine rinnovabile (e-fuel).

Proprio il nostro Paese è capofila in Europa nella “battaglia” contro il regolamento Ue che impone di vendere solo nuove auto a emissioni zero allo scarico dal 2035, di fatto bandendo i motori endotermici verso il “tutto elettrico”. L’Italia, infatti, punta a includere nel regolamento l’uso di biocarburanti, nel tentativo di salvare le filiere industriali automotive tradizionali.

Tuttavia, come rimarca l’organizzazione indipendente Transport & Environment (TE), “un’adozione così massiccia dei biocarburanti potrebbe avere conseguenze molto negative per ambiente e clima, a seconda di come sarà interpretato questo impegno”.

Ad oggi, infatti, “l’espansione dei biocarburanti è stata disastrosa, con vaste aree di terreno disboscate per far posto a colture come la palma da olio, la soia, la canna da zucchero e il mais. Le recenti proiezioni di TE mostrano che, con gli attuali trend e politiche di crescita, il 90% dei biocarburanti dipenderà ancora da colture alimentari e foraggere entro il 2030”.

Più in generale, come abbiamo scritto riguardo ai Nationally determined contributions (Ndc), i piani contenenti gli impegni climatici ufficiali che ogni Paese firmatario dell’Accordo di Parigi presenta alle Nazioni Unite, l’Onu ha registrato diversi progressi ma anche tante incertezze.

Gli impegni principali sui temi energetici, stabiliti nelle ultime Cop (da quella di Glasgow nel 2021 a quella di Baku dello scorso anno) sono i seguenti:

  • triplicare la potenza delle fonti rinnovabili al 2030, arrivando a 11,2 TW;
  • raddoppiare il tasso medio annuo di miglioramento dell’efficienza energetica al 2030;
  • ridurre gradualmente la produzione elettrica da carbone senza abbiattimento delle emissioni;
  • eliminare progressivamente l’uso di combustibili fossili (e relativi sussidi).

Altro nodo da sciogliere è la finanza climatica.

Come scrive BloombergNEF in un documento che esamina le incertezze riguardo alla Cop 30, dietro gli investimenti nelle energie rinnovabili ci sono ampie divergenze geografiche.

I Paesi emergenti (esclusa la Cina) hanno investito 140 miliardi di dollari nelle rinnovabili nel 2024, rispetto ai 49 miliardi di $ nel 2015. Eppure, queste economie hanno assorbito solo il 19% degli investimenti globali in energia pulita lo scorso anno, con una media di circa il 18% nell’ultimo decennio.

E nell’ambito dei Paesi emergenti, la maggior parte dei capitali rimane concentrata in pochi mercati più grandi o con redditi più elevati, come India, Brasile e Sudafrica, mentre ai Paesi in via di sviluppo a basso reddito restano le briciole.

Questo squilibrio, afferma BloombergNEF, “è sorprendente, considerando che i mercati emergenti rappresentano circa il 40% delle emissioni globali e oltre il 60% della popolazione mondiale”. Pertanto, “allineare i flussi di capitale con questa crescente quota di domanda e di emissioni sarà essenziale, per raggiungere gli obiettivi globali di decarbonizzazione”.

Altro tema cruciale è la spesa per l’adattamento al surriscaldamento terrestre.

Sempre BloombergNEF evidenzia che “gli impatti fisici del cambiamento climatico rappresentano già un rischio finanziario significativo che costa all’economia globale almeno 1,4 trilioni di dollari all’anno” (1.400 miliardi di $).

La preparazione di un Paese agli impatti di eventi estremi come inondazioni, tifoni, ondate di calore, siccità, diventa sempre più rilevante per ridurre i danni economici a infrastrutture, aziende e comunità.

Tuttavia, la maggior parte dei Paesi non sta stanziando fondi sufficienti per le politiche e misure di adattamento climatico, anche se alcuni governi “stanno iniziando a considerare la resilienza climatica come un investimento strategico, non solo un centro di costo”.

In sostanza, la Cop 30 dovrà affrontare il tema di una transizione energetica equa e solidale, con flussi finanziari dedicati alle economie più povere e con obiettivi specifici per l’adattamento al global warming.

Lo scenario geopolitico attuale complica tutto: il negazionismo climatico di Trump, le dispute commerciali con la Cina a colpi di dazi e controlli sulle esportazioni di materie prime critiche, senza dimenticare le divisioni che albergano tra i 27 Stati membri Ue riguardo alle politiche ambientali.

Bruxelles non ha ancora definito i suoi piani ufficiali sull’energia e il clima da presentare alla Cop 30. Intanto il leader cinese Xi Jinping ha dichiarato all’assemblea generale delle Nazioni Unite a settembre che il Paese ridurrà le emissioni del 7-10% entro il 2035, un target però poco ambizioso rispetto alle potenzialità del Paese.

Mentre il Production Gap Report pubblicato a settembre da diversi istituti internazionali di ricerca, stima che nel 2030 la produzione globale di combustibili fossili supererà del 120% quella compatibile con l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media entro +1,5 gradi centigradi a fine secolo (1,5 °C è il target più ambizioso degli accordi di Parigi, che appare sempre più difficile da rispettare).

Come conclude BloombergNEF: “la transizione verso un’economia a basse emissioni di CO2 non procede abbastanza velocemente da consentire di realizzare l’ambizione di emissioni nette zero concordata a Parigi dieci anni fa”.

Per il “Net Zero” servono impegni e obiettivi ben più stringenti di quelli discussi nelle ultime Cop. Vedremo se in Brasile ci sarà un cambio di rotta, ma i dubbi sono tanti.

 

Dietro la polemica ritorna l'antica questione etica del rapporto tra maestranze e produzione bellica

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Il comunicato emesso dalla Fim Cisl, in polemica con l’iniziativa spontanea di un gruppo di lavoratori della Leonardo di Grottaglie, in provincia di Taranto [1], sostenuti dalla Fiom Cgil, non è frutto di un punto di vista comprensibile e motivato, ma di un “analfabetismo di ritorno” che contraddice i valori fondativi e statutari del “sindacato nuovo” nato nel 1950.[2]

Premesso ciò, mi sento di ringraziare di cuore quelle persone che, lavorando nella principale azienda italiana per fatturato militare (13° posto al mondo), hanno lanciato su “change.org” la petizione «NON IN MIO NOME, NON COL MIO LAVORO», con il fine di chiedere sia lo stop immediato da parte del gruppo Leonardo di forniture di sistemi d’arma ad Israele, sia d’investire nelle attività civili e non esclusivamente in campo militare, riaprendo una doverosa discussione sindacale su “cosa e per chi produrre” a partire dalle fabbriche d’armi.

Discussione che, oltre a interrogarci sul piano etico, ci mette di fronte come lavoratori e sindacalisti alla questione del lavoro e sulle prospettive dell’occupazione. Su questo interrogativo ho ritrovato una mia intervista al compianto Massimiliano Pilati, pubblicata sulla rivista «Azione Nonviolenta» quasi 20 anni fa, con il titolo «E se il lavoro da difendere è in una fabbrica di armi?».

All’epoca ero responsabile dell’Ufficio Internazionale della Fim Cisl e rappresentavo l’organizzazione nella Rete italiana Disarmo, di cui eravamo stati i promotori nel 2004 (con il segretario generale Giorgio Caprioli) insieme alla Fiom Cgil e a numerose associazioni e movimenti espressione della società civile, in massima parte di area cattolica. Adesione alla RiD venuta meno nel 2018 durante la segreteria generale di Marco Bentivogli.

La ripropongo cosi com’era. Rileggendola l’ho trovata di un’attualità sorprendente, in quanto l’approccio al problema non cambia. Ciò che cambia, oltre agli attori, sono i contesti e di conseguenza gli obiettivi e le forme con cui declinare le proprie azioni.

DISARMO[3]

A cura di Massimiliano Pilati – Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. 

 

E se il lavoro da difendere è in una fabbrica di armi?

Come si concilia il diritto del lavoratore con la produzione di armi? il lavoratore è solo parte dell’ingranaggio o ha anche lui delle responsabilità? che significato hanno per il sindacato parole come: nonviolenza, disarmo, riconversione dell’industria bellica?

 

Abbiamo chiesto a Gianni Alioti della Fim Cisl di aprire la discussione.

 

I sindacati, con tutti i loro limiti e difetti, hanno svolto e svolgono tuttora un grande ruolo di protezione del lavoro dal libero e incondizionato funzionamento del mercato. Gian Primo Cella ha scritto che “il sindacato è in fondo una rappresentazione organizzata degli aspetti più concreti della vita quotidiana, del lavoro, ma non solo. Per questo riproduce impegno e dedizione, solidarietà pratica, ma anche egoismi e meschinità. Fornisce rappresentanza e protezione al lavoro e ai lavoratori, per come essi sono, non per come dovrebbero essere”.

Parlando di produzione d’armi dobbiamo, quindi, avere coscienza di ciò e delle contraddizioni che possono manifestarsi tra la difesa corporativa degli interessi materiali e le scelte di natura etica e politica.

Una cosa va detta, però, con chiarezza: la decisione di produrre armi da parte degli Stati (che ne sono i maggiori committenti) non è lo strumento per garantire il diritto al lavoro (il fine), né per creare maggiore occupazione. Chi sostiene questo (fosse anche un sindacalista) fa un’operazione mistificatoria. È vero piuttosto il contrario: spesso si usa il diritto al lavoro e la difesa dell’occupazione come argomento per giustificare determinate commesse militari da parte dello Stato o peggio per forzare i vincoli all’export di armamenti verso determinati paesi. In questi casi i lavoratori e le loro rappresentanze sindacali - sovente - finiscono per essere colpevolmente risucchiati in azioni di lobby. Per rompere questa logica subalterna è fondamentale che il sindacalismo svolga anche un ruolo “educatore”, recuperando la tensione etica, coniugando l’utopia con la pratica del possibile, rifuggendo viceversa il cinismo e l’opportunismo. In caso contrario la partecipazione massiccia dei sindacati nel Movimento per la Pace, come ho più volte sostenuto, rischia di essere schizofrenica.

In questo senso la nonviolenza è un importante antidoto. Allo stesso modo le parole “disarmo”, “riconversione dell’industria militare” (concetto più ampio e radicale di quello comunemente usato di “industria bellica”, perché presuppone il superamento degli Eserciti e della Difesa Armata) rivestono un’importanza straordinaria, in quanto ci costringono come sindacati a misurarci concretamente con le nostre contraddizioni.

Il disarmo presuppone un’azione del sindacato globale per ridefinire le priorità nell’agenda politica degli Stati e della comunità internazionale riducendo le spese militari e trasferendo risorse ingenti dalla “sicurezza militare” alla “sicurezza alimentare - ambientale - sanitaria”.

Per quanto riguarda la “riconversione dell’industria militare” dobbiamo partire da un dato: nonostante si stia verificando una crescita imponente delle spese militari nel mondo, l’occupazione in questo settore non è destinata ad aumentare, anzi subisce una progressiva contrazione (a maggior ragione se riuscissimo ad invertire il trend delle spese per armamenti).

L’esperienza dei primi anni ’90 ci ha insegnato che una dipendenza esclusiva delle aziende dal mercato militare è un elemento di maggiore vulnerabilità sul piano occupazionale. Per questo occorre lanciare un nuovo programma Konver a livello europeo, accompagnato da iniziative legislative nelle regioni direttamente interessate, che rispondano ad esigenze di innovazione, conversione e diversificazione nel civile dell’industria militare, dettate - più che da ragioni di crisi di mercato - da scelte di responsabilità sociale e comportamento etico delle imprese.

Ritornando, invece, alla questione posta sulle responsabilità individuali di quanti lavorano in fabbriche d’armi, ritengo personalmente sbagliato colpevolizzare i lavoratori per le cose che si producono. L’obiettivo della riconversione nel civile - per avere successo - deve coinvolgere necessariamente gli operai, i tecnici ed i manager di queste aziende. Un atteggiamento antagonista verso questi lavoratori preclude, viceversa, l’individuazione di alternative alla produzione militare impiegando le competenze professionali e le tecnologie esistenti. Se vogliamo dare una risposta a questo problema dobbiamo offrire un quadro giuridico e normativo che garantisca (sul piano della tutela del reddito e della mobilità da un posto di lavoro ad un altro) il diritto all’obiezione di coscienza dei lavoratori occupati nelle fabbriche d’armi. Il mio pensiero va a Maurizio Saggioro, operaio della MPR, che nel 1981 - prima della messa al bando delle mine antiuomo - pagò la sua testimonianza di obiettore alla produzione militare con il licenziamento.

Note

[2] La Fim-Cisl celebra il suo primo congresso a Genova nell’ ottobre 1951. È la data di nascita ufficiale, ma la Fim è già in vita dal 30 marzo 1950, quando a Milano due federazioni sindacali dei metalmeccanici, la Fillm (Federazione italiana liberi lavoratori metalmeccanici, appartenente alla Libera CGIL) e il Silm (Sindacato italiano lavoratori metalmeccanici, appartenente alla Federazione Italiana del Lavoro) stipulano un accordo di unificazione sotto la sigla Fim (Federazione italiana metalmeccanici) e decidono di aderire alla confederazione Cisl, che si costituirà a Roma un mese dopo.

Spagna-Israele Parla la ministra spagnola Sira Rigo, colpita da sanzioni israeliane insieme a Yolanda Diaz

La ministra Sira Rego foto Ap La ministra Sira Rego – AP

Per la prima volta Israele sanziona esponenti di un governo dell’Ue. Le ministre spagnole Yolanda Díaz e Sira Rego – entrambe esponenti della coalizione di sinistra Sumar – sono state colpite da sanzioni personali e dichiarate persone non grate nel paese. Abbiamo raggiunto la ministra della Gioventù Sira Rego mentre è impegnata a rispondere a migliaia di attestati di solidarietà.

Le sanzioni contro di lei e Yolanda Diaz non sono evidentemente una questione tra la Spagna e Israele, riguardano anche Bruxelles. Cosa vi aspettate dalla Commissione europea?

La decisione presa da Israele è la reazione tipica di un governo genocida che da anni ignora la legalità internazionale. Il suo unico obiettivo è intimidire chiunque denunci le atrocità che sta commettendo nella Striscia di Gaza. Sono ormai quasi due anni che esigiamo che l’Unione Europea rompa con l’inazione che contraddistingue il suo atteggiamento. È insostenibile. Di fronte a un genocidio non è possibile restare in silenzio.

Il governo guidato da Pedro Sanchez ha scelto di procedere con delle sanzioni nei confronti di Israele. Sotto la spinta della società civile le azioni della Spagna potrebbero fare da apripista?

L’intenzione politica del governo spagnolo è chiara: dobbiamo garantire che neppure un metro quadrato del nostro territorio faccia parte, né per azione né per omissione, della collaborazione con il genocidio. Siamo consapevoli dei limiti di un singolo Paese nello scenario internazionale, ma penso che questo possa essere un punto di svolta. La Spagna già manteneva una posizione diversa rispetto a molti altri Paesi, ma questo salto qualitativo deciso ieri dal Consiglio dei ministri lo dobbiamo alla cittadinanza che si organizza e si mobilita. Mi auguro che altri governi seguano l’esempio della Spagna e, finalmente, rispondano alle richieste della collettività. È necessario rispondere a queste domande sociali facendo un passo ulteriore: rompere tutte le relazioni diplomatiche, economiche e commerciali con Israele.

In particolare il Governo Meloni si è distinto per essere un solido alleato di Netanyahu…

In Italia, come nel resto del mondo, la società civile organizzata sta dando lezioni di dignità. Ogni persona che scende in piazza contro la barbarie rappresenta una spinta indispensabile per porre fine al genocidio.I governi sono di fronte a una scelta: continuare a sostenere le azioni di Netanyahu o ascoltare la voce della propria società civile che chiede giustizia. Voltarsi dall’altra parte significa essere complici di chi sta sterminando un popolo, cancellando il diritto internazionale e la dignità umana.

Il conflitto a Gaza ha fatto cadere gli ultimi simulacri del diritto internazionale, la richiesta all’assemblea generale dell’Onu di riconoscere lo stato di Palestina senza azioni concrete contro Israele non rischia di essere una foglia di fico per l’Occidente per non fare nulla?

Il riconoscimento dello Stato palestinese è un passo importante. Ma se resta isolato, senza misure concrete per fermare il genocidio, porre fine all’occupazione e al regime di apartheid, è insufficiente. Chi oggi si limita a proclami senza azioni reali rafforza l’impunità. Il diritto internazionale è credibile solo se applicato senza doppi standard.

Ieri abbiamo visto l’attacco alla Sumud Flotilla, cosa devono fare i governi europei per garantire la sicurezza degli equipaggi?

La Flotilla porta cibo, medicine, dignità e speranza. Dobbiamo essere grati a tutte le persone che mettono i loro corpi e la loro energia al servizio della solidarietà con il popolo palestinese. Il governo spagnolo garantisce e continuerà a garantire protezione consolare e tutta la protezione diplomatica agli attivisti spagnoli imbarcati nella Flotilla. Ma questa straordinaria azione civile non deve farci dimenticare le responsabilità istituzionali: è urgente porre fine al blocco imposto da Israele e consentire l’ingresso di tutti gli aiuti necessari.

Da una parte il suprematismo occidentale che difende Israele a ogni costo, dall’altro un nuovo internazionalismo che sta crescendo, costruito da reti orizzontali di attivisti, associazioni, forze sociali e politiche. Possiamo sperare in una nuova internazionale?

Questa nuova internazionale esiste già: la vediamo crescere nelle strade, nelle università, nei porti, in tutti i collettivi che rifiutano la complicità. È questa forza collettiva che deve ispirarci e che dobbiamo nutrire per rompere il monopolio narrativo delle destre globali e aprire lo spazio a un’agenda di giustizia, pace e diritti.

L'annuncio Ieri in conferenza stampa alla Camera i leader rosso-verdi Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni

Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli alla conferenza stampa di ieri

Avs presenta una denuncia contro l’Italia alla Corte penale internazionale (Cpi) affinché indaghi su possibili complicità con i crimini israeliani a Gaza. L’annuncio è stato dato ieri in conferenza stampa alla Camera dai leader rosso-verdi Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni. Presente anche il docente di Diritto penale internazionale alla John Moores University di Liverpool Triestino Mariniello. Secondo il giurista «i singoli membri del governo (italiano, ndr) responsabili delle decisioni di continuare a trasferire le armi, potrebbero essere ritenuti penalmente responsabili, se si dimostra che erano consapevoli che la loro attività ha agevolato crimini internazionali».

Le forniture a Tel Aviv di materiale bellico e dual use sono continuate anche dopo che la Corte internazionale di giustizia ha ritenuto il genocidio plausibile e la Cpi ha emesso i mandati d’arresto per crimini contro l’umanità e di guerra verso il premier Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant. «A Gaza vediamo genocidio e pulizia etnica – ha detto Bonelli – Non vogliamo che il nostro paese sia complice». Per Fratoianni: «L’obiettivo è rimettere al centro il diritto internazionale. Senza di esso resta solo la legge del più forte».

 

2 agosto 1980 Il percorso giudiziario non è stato facile, al contrario è stato lunghissimo, accidentato, talvolta contraddittorio. Frutto dei depistaggi cominciati già il giorno dell'eccidio. Le intuizioni di Occorsio e di Amato sulle connessioni tra terroristi neri e apparati dello stato trovano conferma soprattutto nella storia politica del nostro paese

Bologna, 2 agosto 1980 Bologna, 2 agosto 1980

È una storia che non finisce mai quella della strage di Bologna. Anche se la vicenda giudiziaria è nella sostanza esaurita e non si vedono motivi per riscriverla, come qualcuno, soprattutto a destra, vorrebbe fare. Sono stati condannati in via definitiva gli esecutori (Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini, Gilberto Cavallini e Paolo Bellini) e le ultime sentenze passate in giudicato hanno anche individuato chi ha ideato, organizzato e finanziato l’eccidio che la mattina del 2 agosto 1980 costò la vita a 85 persone e ne ferì altre 200: Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi. Cioè la P2, i servizi segreti e i fascisti.

IL PERCORSO nei tribunali non è stato facile, anzi, al contrario, è stato lunghissimo, accidentato, talvolta contraddittorio. Frutto dei depistaggi che cominciarono il giorno stesso della strage e si sono stesi negli anni come una malattia autoimmune, perché dietro c’erano pezzi dello stato. L’ultima parola «nel nome del popolo italiano» è stata pronunciata dalla Cassazione lo scorso primo luglio quando è stato reso definitivo l’ergastolo per Bellini, ma è una conclusione che consola solo fino a un certo punto, perché, al momento del processo che alla fine ne ha individuato le responsabilità, i mandanti erano già tutti morti. È per questo che gli ultimi eredi del Msi attualmente al governo possono continuare a giocare con le parole (Meloni, un anno fa parlò di «strage che le sentenze attribuiscono a esponenti di organizzazioni di destra») quando non c’è mai stato dubbio alcuno sulla matrice fascista dell’attentato: le modalità parlano da sole e tutte le altre piste sono state smentite in maniera categorica, perché le prove non c’erano o erano state costruite a tavolino proprio con l’obiettivo di sviare le indagini.

E SE LE INTUIZIONI prima di Vittorio Occorsio (ucciso dal «comandante militare» di Ordine Nuovo Pierluigi Concutelli nel 1976) e poi di Mario Amato (fatto fuori nel 1980 dai Nar) sulle connessioni tra terroristi neri e apparati dello Stato, uniti nell’abbraccio e costantemente sull’uscio delle porte delle sedi del Msi, trovano una conferma, questa non va cercata solo nelle sentenze, ma anche – soprattutto – nella storia politica del nostro paese. Era il settembre del 1990 quando in un’intervista all’Unità Giuseppe Di Lello, allora giudice per le indagini preliminari a Palermo, disse che «tutti i delitti e le stragi commessi dai neri sono rimasti impuniti. E la colpa non è certo dei magistrati di Bologna o di quelli di Firenze che non riescono a individuare esecutori e mandanti, ma dello stato che non vuole si scopra la verità. E questo perché i crimini dei neri sono stati realizzati con coperture, deviazioni dei servizi segreti. Credo che quest’ultimo ragionamento sia valido anche per i grossi delitti di mafia». Parole pronunciate prima delle recenti riscosse giudiziarie, ma che risuonano forti oggi che la pista nera rispunta per l’omicidio di Piersanti Mattarella e per le stragi e gli omicidi mafiosi d’inizio anni ’90. Non tanto per le indagini in corso, che ovviamente faranno il loro corso, ma per l’evidenza dei depistaggi, che discendono sempre dalla stessa fonte. Anche qui siamo in presenza di fatti storicamente accertati e politicamente indiscutibili: le trame atlantiche sono (state) una realtà.

«STRAGE DI STATO» è un’espressione che nasce nel 1970 dal titolo di un libro di controinchiesta su piazza Fontana, l’evento da cui discende la cosiddetta strategia della tensione, che non fu solo una sequenza di massacri, ma anche una costellazione di depistaggi. Già per i fatti del 12 dicembre 1969 le indagini cominciarono puntando dritte verso ambienti che non c’entravano niente – gli anarchici – dando il via a un caos giudiziario comune a tutte le stragi i cui effetti si avvertono ancora oggi. Perché per smentire una falsa pista spesso ci vogliono anni e imboccare quella giusta in ritardo vuol dire muoversi in un labirinto.

L’elenco di tutti i passaggi fatti nei tribunali per l’attentato di Bologna è eloquente. Il primo processo cominciò sette anni dopo lo scoppio della bomba, nel 1987, e la Cassazione si pronunciò solo nel 1995, peraltro assolvendo Sergio Picciafuoco (neofascista che quel 2 agosto di certo era alla stazione e rimase pure ferito). Un anno prima era arrivata la sentenza di ergastolo per Fioravanti e Mambro. Si è consumato tra il 2000 e il 2003 poi il processo per i depistaggi, terminato con le assoluzioni di Massimo Carminati e Federigo Mannucci Benincasa, ex direttore del Sismi di Firenze.  È durato dieci anni invece il processo a Ciavardini, minorenne all’epoca dei fatti, concluso con una condanna a trent’anni. Il terzo processo, quello che ha portato all’ergastolo per Cavallini, è andato in scena tra il 2017 e il 2020, anno in cui la procura di Bologna ha chiuso le indagine sui mandanti e i finanziatori, dalla quale è nato il processo a Bellini, chiuso il mese scorso.

UN’ODISSEA. Gli atti ammontano ormai a diverse decine di migliaia di pagine e per muoversi negli archivi – è notizia degli ultimi giorni – ci si serve dell’intelligenza artificiale tanta e tale è la mole di informazioni, perizie, verbali e testimonianze accumulata nel tempo. Ma al termine di questa lunga notte della Repubblica una certezza esiste: a Bologna fu una strage di stato compiuta con manovalanza fascista.