AL SENATO. L'audizione dell'Ufficio parlamentare di bilancio sul disegno di legge Calderoli ripropone le critiche del servizio interno di palazzo Madama che avevano fatto infuriare Calderoli: alcune regioni penalizzate o bisogna aumentare i costi per lo stato. Ma la maggioranza prova ad accelerare
Il ministro per gli affari regionali e l'autonomia Roberto Calderoli (Lega)
Il disegno di legge Calderoli è il testo base per l’Autonomia differenziata e tra sette giorni comincerà la discussione generale. Lo ha deciso la prima commissione del senato, al termine del ciclo di audizioni che ieri ha dato spazio all’Ufficio parlamentare di bilancio dal quale è arrivata una critica puntuale al meccanismo previsto per il finanziamento delle prestazioni che le regioni si propongono di sottrarre allo stato. Il sistema immaginato da Calderoli prevede che le regioni trattengano una quota (maggiore rispetto a quella attuale) dei tributi pagati sul territorio ma, ha fatto notare Giampaolo Arachi, che è uno dei tre consiglieri dell’Upb, «non vi è motivo per ritenere, anzi tutt’altro, che una volta fissata un’aliquota di compartecipazione a un tributo erariale il gettito seguirà un andamento simile ai fabbisogni».
In altre parole, con un’aliquota fissa, potrebbero verificarsi casi in cui la compartecipazione al tributo non riesca a coprire il fabbisogno e dunque «sarebbe necessario integrarla per assicurare le risorse necessarie». Il contrario di quanto giura il disegno di legge sull’Autonomia, per il quale la riforma non produrrà un aggravio dei costi per lo stato centrale. Ma d’altra parte potrebbe verificarsi anche il caso opposto, qualora «la dinamica della compartecipazione eccedesse quella del fabbisogno», ha spiegato Arachi. A quel punto le regioni alle quali sarà stata riconosciuta l’Autonomia differenziata «disporrebbero di risorse in eccesso rispetto a quelle che sarebbero state garantite dalla fornitura statale». Con la conseguenza che «vi sarebbero meno risorse per il resto delle amministrazioni pubbliche che, dati gli obiettivi di finanza pubblica, dovrebbero essere reperite con riduzioni di spesa, che potrebbero anche riguardare il finanziamento delle iniziative finalizzate ad attuare le previsioni costituzionali o aumenti della pressione fiscale che si scaricherebbero anche sui cittadini delle altre regioni».
Sono gli stessi concetti espressi nella nota del servizio bilancio del senato alcune settimane fa, quando aveva chiarito che l’Autonomia differenziata non potrà mai essere a costo zero per lo stato centrale, a meno di non accettare che le regioni più povere debbano perdere risorse per il finanziamento delle loro prestazioni. Quella previsione, pubblicata sul sito del senato e sui suoi social, ha fatto all’epoca infuriare il ministro Calderoli che ne ha ottenuto prima il ritiro e poi una degradazione a «bozza provvisoria non verificata». Un limbo dal quale non esce a distanza di settimane, anche se il contenuto di quelle analisi è stato nella sostanza confermato dall’audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio. Senza però che l’Ufficio abbia potuto mettere a disposizione dei senatori le sue analisi quantitative, perché non ne ha avuto il tempo. Ieri ha comunicato di aver bisogno di almeno altre due settimane per fare previsioni numeriche, che rischiano comunque di restare un po’ astratte visto che i famosi Lep, i livelli essenziali delle prestazioni propedeutici all’Autonomia, sono ancora da definire.
Malgrado questo, la commissione sulla quale vigila, presenza costante, il ministro Calderoli, ha deciso che la prossima settimana comincerà la discussione generale ed entro il 22 giugno andranno depositati gli emendamenti. Termine che appare destinato a slittare, visto che a quella data si farà, forse, appena in tempo ad avere il report definitivo dell’Upb. Un’accelerazione improvvisa: fin qui il presidente della prima commissione, il meloniano Balboni, era stato più prudente. La ragione è che Calderoli insiste per chiudere la prima lettura del testo entro l’estate. Ieri la sua dichiarazione era in pratica un sospiro di impazienza: «Si è ufficialmente concluso il ciclo di oltre 60 audizioni, abbiamo ascoltato ogni sorta di posizione, contiamo di portare a casa il provvedimento quanto prima». Mentre il capogruppo del Pd in commissione, Giorgis, ha detto che «stupisce è preoccupa l’inutile fretta della maggioranza che si mostra indifferente ai rilievi dell’Upb»
SCIENZIATI A CONFRONTO. Il documento del World Weather Attribution rifiuta la causa climatica dell’alluvione
Una zona di Conselice allagata a causa delle forti piogge che hanno colpito l'Emilia Romagna - Antonio Masiello - Getty images
Quando il 2 giugno La Verità ha titolato «Romagna sott’acqua? Non è colpa del clima», il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro poggiava su solide basi, quelle di un paper del World Weather Attribution, un’iniziativa di scienziati che quantificano come il cambiamento climatico influenzi o meno l’intensità e la probabilità di un evento meteorologico estremo. Lo stesso paper è stato ripreso da molti quotidiani (chi usando il condizionale, come La Stampa, «Lo studio sull’alluvione in Romagna: ecco perché (stavolta) non sarebbe colpa del cambiamento climatico», chi con tono assoluto, come Today, «La scusa del clima per mascherare le colpe dell’alluvione in Romagna») ed è finito anche a SkyTg24, che parla di «dubbi degli scienziati».
Lo studio citato come fonte, però, è contestato da un gruppo di scienziati che fanno riferimento al portale Climalteranti.it, in particolare Stefano Tibaldi, Vittorio Marletto, Luca Lombroso, Claudio Cassardo e Stefano Caserini, che in un articolo evidenziano alcune gravi limitazioni nello studio World Weather Attribution. Intanto, lo studio non è stato soggetto al processo di peer review (revisione dei pari), che viene effettuato prima della pubblicazione su una rivista scientifica. E infatti non è stato pubblicato. Tra i limiti, ad esempio, c’è il mancato utilizzo dei dati delle serie storiche come ne esistono in Emilia-Romagna. Quelli dell’Osservatorio geofisico di Modena, riconosciuto dall’Organizzazione meteorologica mondiale come stazione di osservazione centenaria, ha una serie storica di dati di precipitazione che iniziano nel 1830, e il 2 maggio 2023 è stato il giorno più piovoso mai registrato in maggio.
I DATI UTILIZZATI, invece, partono dal 1960 e in alcuni casi dal 1979, che «non sono un periodo molto lungo per effettuare l’analisi statistica di eventi che, nel clima non mutato dalle attività umane, avevano tempi di ritorno di 200 anni o più», come spiega l’articolo pubblicato su Climalteranti.it. Inoltre, l’analisi Wwa ha misurato la precipitazione media sull’intera regione Emilia Romagna cumulata su 21 giorni in primavera (aprile-maggio-giugno), ma «utilizzare la media su una zona così ampia porta a ridurre considerevolmente i picchi di precipitazione», in particolare considerando che sono stati tre gli eventi di forte precipitazione, nei giorni 1-2, 10 e 16-17 maggio, che hanno interessato una parte della regione, la parte centrale appenninica, in particolare a monte di Faenza, Forlì e Cesena.
LA MAPPA della precipitazione costruita sulla base del network dell’Agenzia regionale Arpae per il periodo cruciale di maggio molti valori di picco molto elevati, con molte aree con più di 500 mm come somma dei tre eventi, e singole stazioni con valori che vanno ben oltre i 600 mm, dati eccezionali che si perdono. Gli autori dell’articolo pubblicato su Climalteranti hanno contattato alcuni colleghi che hanno lavorato allo studio World Weather Attribution, che hanno confermano che esso non vuole in alcun modo negare il ruolo del riscaldamento globale sull’aumento degli eventi estremi sul Mediterraneo. Purtroppo, rilevano, «chi ha deciso quel titolo dello studio («Ruolo netto limitato del cambiamento climatico nelle forti precipitazioni primaverili in Emilia-Romagna», ndr) così netto e senza le necessarie precisazioni sui limiti dello stesso, poteva aspettarsi di essere strumentalizzato», di offrire contenuti ai negazionisti del cambiamento climatico e a chi pur non negando esplicitamente l’influenza delle attività umane sul clima, ne nega la gravità e l’urgenza delle azioni di mitigazione
ALLA CAMERA. Il governo pone la questione di fiducia sul decreto Pubblica amministrazione che serve a mettere ai margini la magistratura contabile sul Pnrr e non solo. Le toghe protestano: così i danni resteranno a carico della collettività. La premier replica in tv: i controlli restano
La sede della Corte dei conti
Il governo ha posto nell’aula della camera la questione di fiducia sull’approvazione del contestatissimo decreto Pubblica amministrazione. Quello al quale sempre il governo ha aggiunto in commissione, quindi dopo la firma di emanazione del presidente della Repubblica, il comma che elimina i controlli concomitanti della Corte dei Conti sul Pnrr e proroga di un anno lo scudo erariale, sterilizzando buona parte delle indagini della magistratura contabile sui comportamenti scorretti degli amministratori pubblici.
La fiducia era attesa, anche perché è la dodicesima volta che il governo si muove in questo modo per tagliare la discussione su un decreto legge, dopo averlo modificato con maxi o mini emendamenti. Le questioni di fiducia chieste dal governo Meloni in totale sono anche di più, diciassette con ieri, perché è stato approvato così sia alla camera che al senato anche un disegno di legge, la legge di bilancio, e in tre casi i decreti sono stati convertiti con doppio voto di fiducia (Aiuti quater, Superbonus e Bollette). La fiducia sul decreto Pubblica amministrazione, che scade tra quindici giorni, sarà votata oggi pomeriggio a Montecitorio sul testo approvato in commissione, quindi quello che contiene il freno alla Corte dei Conti e fa protestare i magistrati contabili e le opposizioni (non Calenda che è d’accordo).
A queste critiche ha risposto ieri sera Giorgia Meloni, scegliendo le telecamere amiche di Retequattro. «La sinistra è molto in difficoltà – ha detto – dice che c’è una deriva autoritaria se sulla Corte dei conti proroghi le norme del governo Draghi del quale loro facevano parte». La risposta contiene una verità ma ne nasconde un’altra. Lo scudo erariale, cioè la limitazione delle responsabilità degli amministratori pubblici e dei privati ai soli casi di dolo (escludendo la colpa grave) è già in vigore da tre anni. Lo ha inventato il governo Conte 2 per l’emergenza pandemia e l’ha prorogato dopo un anno e mezzo Draghi presentandolo come stimolo alla ripresa economica. Quello che Meloni nasconde è che una proroga fuori dalle emergenze è considerata da molti una misura sproporzionata, dunque irragionevole e a rischio costituzionalità. Ne sono convinti proprio i magistrati contabili, che ieri hanno tenuto una riunione della loro associazione. Dichiarando poi al termine che «la conferma dello scudo erariale in assenza del contesto di emergenza pandemica nel quale è nato impedisce di perseguire i responsabili e di recuperare le risorse distratte, facendo sì che il danno resti a carico della collettività».
L’Anm della Corte dei Conti ribadisce le sue critiche anche nei confronti dell’altra misura imposta dal governo, l’eliminazione del controllo concomitante che pure era stato allargato ai progetti del Pnrr proprio per accelerarne la realizzazione. Per i magistrati contabili «significa indebolire i presidi di legalità, regolarità e correttezza dell’azione amministrativa. Non sono in gioco le funzioni della magistratura contabile, ma la tutela dei cittadini». A queste critiche Meloni in tv risponde così: «La Corte dei Conti continua a fare tutti i controlli che deve fare, fa la sua relazione semestrale al parlamento, l’ultima era prodiga di critiche e non mi pare che gli sia stato messo un bavaglio. Continua a fare la relazione e noi non abbiamo modificato niente». Gliel’ha lasciata. La relazione
Per il Cremlino la controffensiva è iniziata con «un massacro». L’Ucraina nega e si gode la nuova azione della Legione «ribelle» nella regione russa di Belgorod. La guerra infuria, ma il papa non si dà per vinto e invia il cardinale Zuppi a Kiev in missione di pace
GUERRA UCRAINA. Da ieri il presidente della Cei è a Kiev. Zelensky non cerca «mediatori». E il Cremlino precisa: «Non abbiamo incontri in programma»
Il cardinale Zuppi a Kiev con il commissario ucraino per i diritti umani Lubinets - Ansa
È cominciata ieri a Kiev la «missione di pace» del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana, incaricato da papa Francesco «di ascoltare in modo approfondito le autorità ucraine circa le possibili vie per raggiungere una giusta pace e sostenere gesti di umanità che contribuiscano ad allentare le tensioni», come ha spiegato una nota della Santa sede.
QUELLA DEL PRESIDENTE della Cei pare però quasi una missione impossibile, per non dire disperata, sia perché cade in una delle fasi più difficili della guerra tra Russia e Ucraina, sia perché né Putin né Zelensky mostrano di voler avviare un’interlocuzione, ma restano
Le immagini spaventose, i 15 morti e i danni alle colture hanno acceso l’attenzione sulle piogge in pianura. Ma per pianificare bisogna ripartire dalle montagne collassate sul paesaggio più cementificato d’Italia. «Questa regione è un condominio con il tetto bucato». Il territorio non va solo ricostruito, ma riprogettato
Le alluvioni e le frane della Romagna sono state causate dalla crisi climatica ma amplificate da un territorio in cui la montagna più abbandonata del centro nord è collassata sul territorio più cementificato.
L'adattamento richiesto dalla crisi climatica dovrà combinare ingegneria con ecologia, i fiumi dovranno avere più spazio naturale intorno, altrimenti faranno come in Romagna: se lo riprenderanno con la forza.
Governi e amministrazioni locali devono superare la logica dell'emergenza continua e del commissariamento, ai territori serve la pianificazione di una nuova normalità. Le aree colpite non vanno ricostruite, vanno riprogettate.
«Questo territorio non va ricostruito, va riprogettato». In questa frase di Alessandro Liverani, tecnico forestale ed ex membro della Protezione civile, c’è tutto quello che non stiamo comprendendo di quanto accaduto a maggio in Romagna, a nessun livello, da quello regionale a quello del governo, un paese che ignora non solo la crisi climatica ma anche la sua geografia, prima dei disastri e anche dopo i disastri.
Quello in Romagna va diviso in due capitoli: le alluvioni in pianura, le frane in collina e in bassa montagna. Delle alluvioni si è parlato di più, per i 15 morti, per le immagini spaventose, per le decine di migliaia di sfollati e per il disastro economico. Ma è dalle frane che bisogna partire per avere un
L’europarlamento vota a larga maggioranza l’utilizzo dei fondi del Pnrr per produrre armi. Schlein tenta di smarcarsi, il Pd si spacca e chiede al governo di non utilizzarli. Il dem Bartolo si astiene (con altri 3): «L’Ue ritrovi se stessa e lavori per la pace»
EUROPARLAMENTO. Destre a favore, ma il governo: non li useremo. Il Pd si spacca: 10 sì, 4 astenuti e un no. I dem sotto attacco di destre e terzo polo per difetto di atlantismo. Fratoianni: se si è contrari si vota contro
Il parlamento europeo - Ap
L’Europa corre verso un’economia di guerra. Il Parlamento europeo ieri ha approvato a larga maggioranza (446 sì, 67 no e 112 astensioni) il regolamento Asap (Act in Support of Ammunition Production) voluto dal commissario al mercato interno Thierry Breton.
NESSUNA SUSPENCE sull’esito del voto che apre il negoziato con i 27 paesi per arrivare a luglio al voto finale che consentirà ai paesi Ue di utilizzare anche i fondi del Pnrr e di Coesione per produrre munizioni e armi. Oltre alla minima dotazione prevista dal regolamento (500milioni) la novità è che i paesi potranno dirottare miliardi del Pnrr (che era stato pensato per il welfare e la transizione ecologica dopo la pandemia) sulla produzione di armi.
ANCHE IL GRUPPO SOCIALISTA, dopo che gli emendamenti voluti dal Pd per escludere il Pnrr dai fondi cui attingere per gli armamenti erano stati bocciati, ha dato indicazione per il sì al regolamento. Un sì motivato anche dalla necessità, hanno spiegato, di continuare a fornire armi all’Ucraina e, nel contempo, riempire arsenali sempre più vuoti. Tra i socialisti ci sono stati 95 sì, 10 no e 20 contrari. Segno che, anche tra chi vuole sostenere Kiev, cominciano ad emergere dubbi sulla forsennata corsa al riarmo.
TRA I PARTITI ITALIANI, le destre e l’ex terzo polo hanno votato convintamente a favore (e contro le modifiche chieste dai dem), no da Verdi e M5S. Il Pd si è spaccato rumorosamente: 8 hanno votato sì, e tra loro il capogruppo Brando Benifei e la vicepresidente del parlamento Pina Picierino, oltre alle deputate Tinagli e Gualmini e all’ex ministro De Castro. Sei gli astenuti, tra loro Camilla Laureti della segreteria di Schlein (è responsabile agricoltura) , Pietro Bartolo e l’ex pm antimafia Franco Roberti. Mentre Alessandra Moretti e Patrizia Toia, che risultavano astenute, hanno poi spiegato che si è trattato di un «errore materiale» e che il loro era un voto a favore.
UN SOLO CONTRARIO, Massimiliano Smeriglio, che spiega: «Cresce l’area del dissenso sulla trasformazione dei fondi del Pnrr e di coesione in armi. Un atto sbagliato che riarma 27 eserciti con soldi per le politiche sociali e ambientali senza far fare un passo in avanti alla difesa comune europea. E per il governo Meloni un assegno in bianco per modificare il Piano di ripresa a proprio piacimento. Lavoriamo per ribaltare questo esito con il voto finale sull’atto previsto a luglio. Bene anche il dissenso che si è espresso tra le fila del Pd».
I 5 STELLE RIVENDICANO il loro no: «Siamo convinti che questa folle corsa al riarmo non è assolutamente la strada giusta per costruire un futuro di pace in Europa e nel mondo». Nicola Fratoianni definisce «indecente» la decisione europea. «La guerra porta con sé l’economia di guerra, spinge la corsa della spesa militare, e lo fa a scapito del futuro», spiega il leader di Si che ha partecipato con i Verdi a un flash mob davanti a Montecitorio. Quanto al Pd, ragiona, «se si è contrari a una scelta si vota contro. Essere contrari e votare a favore non funziona».
I DEM ORA PUNTANO sull’evitare che il governo italiano utilizzi i fondi del Piano di ripresa. Ieri in Senato hanno presentato una interrogazione al ministro Raffaele Fitto, chiedendo che il governo escluda l’uso di quei fondi per le armi. «La facoltà di poter accedere a queste risorse non è in alcun modo all’ordine del giorno», la risposta del ministro di Fdi.
Ma i dem non sono convinti della buona fede dell’esecutivo. Per questo hanno chiesto un voto del Parlamento. «Le rassicurazioni del ministro non ci rassicurano, perché i gruppi della destra nel Parlamento europeo hanno votato contro gli emendamenti presentati dal Pd che prevedevano espressamente l’eliminazione della possibilità di utilizzo, attraverso fondi Pnrr, di risorse per l’acquisto di armi e munizioni», ha detto il capogruppo Francesco Boccia. «Per noi è necessario arrivare ad un voto in Aula su un atto di indirizzo che trasformi l’impegno assunto oggi dal ministro in atti non più reversibili».
Sul Pd piovono critiche da tutte le parti. Dal terzo polo e da +Europa l’accusa è di aver abbandonato l’atlantismo e di aver abboccato «alla propaganda pacifinta del M5S». Dal partito di Conte l’accusa opposta. «Il Pd alla fine ha votato sì ad un regolamento che apre alla possibilità di usare il Pnrr per il riarmo, quando si era detto contrario: comportamento per me incomprensibile», attacca il capogruppo Stefano Patuanelli