Ieri una telefonata solo per fissare l’appuntamento. Cresce il pressing 5S per la rottura
«Ci vediamo?», «Ok ma non oggi». Conte prima annuncia per la giornata di ieri il fatidico appuntamento con Draghi, poi corregge: «Oggi ci sentiamo al telefono, ci vediamo lunedì». La telefonata dura un nanosecondo, il tempo di confermare per dopodomani. Come arriverà al colloquio Conte non lo sa ancora neanche lui. Draghi proverà a distendere gli animi, seguirà il copione mieloso, almeno nelle forme, della conferenza stampa. Questo gli consiglia Mattarella, consapevole che l’ostilità nei confronti dell’ex premier soprattutto di alcuni collaboratori stretti di Draghi vada disinnescata. Conte, che quando si tratta di decidere si trova sempre in pessime acque, oscilla. A chi gli chiede se ha ancora fiducia nel premier risponde «Ne parliamo lunedì». Sempre lunedì, promette, affronterà con il successore e rivale il capitolo gossip. Ci sono davvero le prove del colloquio incriminato con Grillo, quello in cui Draghi avrebbe chiesto la sua testa? «Ne parlerò lunedì».
IN REALTÀ LA RISPOSTA alla domanda sulla fiducia in Draghi il defenestrato di palazzo Chigi la potrebbe dare anche subito. Sarebbe un sonoro «No». Non se ne fida e non se ne è mai fidato. Il dilemma è un altro. Mattarella la ha messa giù dura: ha fatto capire che l’uscita dei ministri 5S dal governo porterebbe dritti alle elezioni in novembre. Letta è stato altrettanto ultimativo: uscire dal governo vuol dire scordarsi l’alleanza. Ieri sera i due si sono incontrati, anche con Speranza, a Cortona e Conte assicura che «è stata una bella chiacchierata». Ma la posizione del leader del Pd non è cambiata. Lo stesso Draghi ci ha messo del suo, escludendo sia una maggioranza senza i 5S sia il loro appoggio esterno.
POSSONO ESSERE BLUFF. In fondo le ragioni squadernate dal capo dello Stato per convincere Conte a non strappare, in sintesi la fase difficilissima che stiamo attraversando, varrebbero anche nel caso di ritiro dei ministri 5S. Le dimissioni di un governo comunque forte di una larga maggioranza sarebbero anch’esse un salto nel buio. Ma il capo dei 5S non è impermeabile alla minaccia. Sembra anzi che sia spaventato a dovere. Anche perché sullo sfondo Grillo moltiplica la confusione invece di agevolare la chiarezza. Ieri ha pubblicato sul suo blog una dotta dissertazione sul tradimento che sembra attagliarsi al caso Di Maio. Però, secondo gli esegeti, potrebbe riferirsi invece proprio a Conte e al sociologo De Masi, quello che ha avviato la giostra del gossip.
Ma se la proverbiale prudenza e la perenne esitazione di fronte ai rischi ancorano Conte al governo, una parte sostanziosa dei parlamentari, secondo alcuni addirittura il 70-80%, preme per la rottura. La ministra Dadone è tra quelli che insistono per evitare lo strappo ma la posizione del capodelegazione Patuanelli è molto meno netta. Propenderebbe anzi anche lui per la rottura.
I 5S SI SENTONO bersagliati, schiaffeggiati a getto continuo, ripetono che non si può continuare a subire così. Di certo non ha aiutato l’emendamento al dl Aiuti, approvato in commissione alla Camera nella notte tra giovedì e venerdì, sul Reddito di cittadinanza. Lo rende più rigido, stabilendo che il rifiuto di un’offerta congrua anche di un privato comporterà la perdita del reddito. Per ora, invece, il taglio scatta solo quando viene rifiutata l’offerta dei Centri per l’impiego. L’emendamento, ciliegina al cianuro sulla già venefica torta, è partito da una deputata scissionista con Di Maio, poi è stato accorpato con quelli del centrodestra e approvato col voto contrario solo di 5S e LeU. Non è faccenda che riguardi direttamente il governo ma ingigantisce la sindrome da assedio che sta portando all’esasperazione la truppa pentastellata ancor più del suo generale.
DIETRO L’ANGOLO, poi, c’è il voto sul termovalorizzatore di Roma, che molti deputati vorrebbero non votare, martedì a Montecitorio, nonostante il lasciapassare firmato Grillo. C’è soprattutto la possibilità che entro la settimana prossima sia varato, senza passare per l’aula, il quarto decreto sulle armi per l’Ucraina. «Le possibilità che scegliessimo di non votare la risoluzione dopo il dibattito con Draghi erano il 50%, prima che la scissione cambiasse le cose», confessavano ieri le “fonti” dei 5S. Giusto per far sapere che la ferita è ancora apertissima. Insomma per quanto Draghi si sia sforzato di rasserenare un po’ il clima, almeno sul piano dei rapporti personali, l’incontro di lunedì resta ad alto rischio.
Commenta (0 Commenti)SINDACATO E POLITICA. Il «talk panel» con otto leader. Il confronto con i partiti di centro sinistra ha avviato il percorso congressuale. Landini ribadisce: 200 euro in più tutti i mesi. Ma né il leader pd né Conte prendono impegni concreti sulla legge di Bilancio. Applausi per Schlein, Fratoianni e Acerbo
Enrico Letta e Maurizio Landini ieri al «talk panel» Cgil - Foto LaPresse
Doveva essere lo strumento con cui le proposte congressuali della Cgil tornavano al centro della discussione politica. Si è trasformato in gran parte in un palcoscenico per politici che si parlavano sopra, lanciavano slogan e proposte alternative senza alcun impegno ad appoggiare quelle della Cgil.
La mattinata all’Acquario Romano aveva radunato ben otto leader di partito: Enrico Letta del Pd, Giuseppe Conte del M5s, Ettore Rosato (venuto al posto dell’invitato Renzi) per Italia Viva, Roberto Speranza per Articolo Uno, Elly Schlein per Coraggiosa con Carlo Calenda di Azione ai fianchi di Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana e Maurizio Acerbo di Rifondazione.
Gran cerimoniera la giornalista Lucia Annunziata che ha esordito parlando di «svolta» per questo «Il lavoro interroga», «talk» e «panel» a dimostrare che ora il sindacato parla inglese.
La vicesegretaria unica della Cgil Gianna Fracassi ha cercato di instradare il dibattito sul tema della «crisi della rappresentanza sociale», «sui 20 anni di politiche che hanno tolto diritti al lavoro». Ma il dibattito è andato subito da
Commenta (0 Commenti)ESPORTAZIONI UCRAINE. secondo Putin, «ci sono altre possibilità di esportazione: attraverso la Romania e il Danubio; il Mar Nero oppure la Polonia, la Bielorussia, e i porti del Mar d'Azov»
Campo di grano in Ucraina - Ap
Da Ashgabat, in Turkmenistan, il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin ha di nuovo preso parola sul grano ucraino. «Noi non impediamo l’esportazione di grano ucraino – ha dichiarato il leader del Cremlino – le autorità militari ucraine hanno minato gli accessi ai loro porti e nessuno impedisce loro di rimuovere le mine e far partire le navi cariche di grano».
Inoltre, sempre secondo Putin, «ci sono altre possibilità di esportazione: attraverso la Romania e il Danubio; il Mar Nero oppure la Polonia, la Bielorussia, e i porti del Mar d’Azov». È significativo notare che tali dichiarazioni arrivano nel giorno in cui la prima nave russa carica di grano prodotto in Ucraina prima della guerra ha lasciato il porto occupato di Berdiansk. Secondo i media russi la nave trasporta circa 7 mila tonnellate di grano e potrebbe trattarsi solo della prima spedizione.
Dal canto loro, gli ucraini hanno subito accusato i nemici di «vendere il grano rubato agli ucraini». Nella giornata di ieri la notizia principale dal punto di vista degli schieramenti sul campo è stata sicuramente la ritirata russa dalla famosa “Isola dei Serpenti”, uno dei simboli di questa guerra, occupata i primi giorni dopo l’invasione. Il comando operativo “Sud” delle forze di Kiev da giorni parlava dell’operazione in corso sull’isola e oggi ha annunciato la distruzione di un sistema missilistico “Pantsir-1”, oltre che di diversi veicoli corazzati e di un manipolo di 40 uomini.
Da Mosca hanno fatto sapere che «nonostante la parte ucraina sta cercando di trasformarla in una vittoria» si tratta di un modo per «preservare la vita dei soldati e delle forze armate della Federazione Russa» oltre che di un passo per «evitare ulteriori provocazioni da parte delle Forze armate ucraine e accuse contro la Federazione Russa di creare ostacoli all’esportazione di grano verso i porti di paesi terzi».
In altri termini, come hanno chiosato molti media russi, si tratterebbe di «un gesto di buona volontà». In molti hanno ricordato che quest’ultima espressione era stata usata dal ministro degli esteri di Mosca, Sergej Lavrov, anche in occasione del ritiro delle truppe russe dall’area di Kiev e dal nord dell’Ucraina. Da allora sono trascorsi due mesi e la guerra continua, i bombardamenti si sono intensificati e il numero di vittime civili aumenta di giorno in giorno.
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LA PROPOSTA. Con il biglietto a nove euro al mese aumentano i mezzi e diminuisce il traffico. La Linke: adesso abbonamento annuale a 1 euro al giorno
Tram in Germania - Uli Deck/Ap
Boom di passeggeri su treni, bus e metropolitane e parallela riduzione del traffico su gomma. Il biglietto dei mezzi pubblici a 9 euro al mese si conferma come un successo clamoroso: dall’inizio del mese in Germania sono stati venduti ben 21 milioni di abbonamenti al prezzo «politico» fissato dal governo Scholz in nome della svolta ecologica e della lotta al caro-vita.
Risultato: in 23 delle 26 principali città della Repubblica federale le lunghe code di auto nelle ore di punta sono praticamente scomparse, come prova lo studio presentato ieri da «Tom-Tom International» per conto dell’agenzia Deutsche Press Agentur. «I dati elaborati indicano che il sostanziale calo di traffico rilevato dai nostri tecnici è strettamente legato all’introduzione del nuovo biglietto speciale», certifica Ralf-Peter Schäfer, esperto di trasporti dell’azienda leader dei sistemi di navigazione satellitare.
DA QUI LA PROPOSTA collaterale del «Sozialverband Deutschland» (Sovd), la storica associazione di difesa dei cittadini fondata alla fine della Prima guerra mondiale, immediatamente recepita dal capogruppo Linke al Bundestag, Dietmar Bartsch. «Dobbiamo assolutamente approfittare di questo momento per sfruttare lo slancio. L’obiettivo è introdurre un’offerta basata su sconti permanenti», riassume Adolf Bauer, presidente del Sovd, immaginando l’abbonamento annuale a 365 euro, ovvero 1 euro al giorno.
Ma tra i benefici del «ticket per il Clima» valido fino alla fine di agosto emerge anche il fattore-tempo. «Negli ultimi trenta giorni i pendolari hanno perso meno ore nel tragitto casa-lavoro rispetto a maggio. È accaduto in quasi tutte le città prese in esame», tiene a precisare Schäfer prima di squadernare la curva del successo.
«NEI PRIMISSIMI giorni dopo l’introduzione del biglietto a prezzo calmierato i dati di Tom-Tom non mostravano grandi effetti sul traffico, ma con il passare del tempo abbiamo cominciato a registrare gli effetti positivi sui flussi automobilistici». In particolare la decongestione delle arterie urbane ha interessato soprattutto Amburgo e Wiesbaden. Qui gli specialisti della navigazione satellitare hanno rilevato il risparmio medio rispettivamente di 4,2 e 3,9 minuti sul tragitto di mezz’ora.
Ai 21 milioni di nuovi utenti si aggiungono i 10 milioni di passeggeri già in possesso dell’abbonamento ordinario. «In totale, quindi, la cifra di 30 milioni di ticket mensili precedentemente calcolata dagli esperti del settore non solo è stata raggiunta ma addirittura superata», fa notare Ingo Wortmann, responsabile dell’Associazione delle aziende di trasporto tedesche (Vdv), più che soddisfatto per numeri inimmaginabili anche solo un mese fa.
MENTRE SEMBRA che il «9 euro-ticket» abbia contribuito perfino a rallentare il galoppo dell’inflazione, incubo storico della Germania fin dai tempi della Repubblica di Weimar. I calcoli dell’Istituto federale di statistica restituiscono il calo dell’impennata dei prezzi al consumo dal 7,9% di maggio al 7,6% di giugno.
Infine l’aumento di passeggeri sulle tratte a breve raggio (stimato da «Deutsche Bahn» nell’ordine del 10-15% rispetto a prima della pandemia) ha indotto le ferrovie statali a moltiplicare l’offerta di treni. La filiale locale «Db-Regio» segnala 250 convogli giornalieri supplementari, con buona pace degli esperti del libero mercato che all’annuncio del provvedimento da parte del governo Scholz avevano lanciato il falso-allarme sui rischi del «Klima-ticket» paventando il blocco della rete, l’impossibilità di prenotazione e i sovraffollamenti che non ci sono stati.
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USA. Dopo abortisti e armaioli, sì ai boss del carbone: il governo non può fermare le ciminiere
Centrale elettrica a carbone a Glenrock, Wyoming - Ap
La Corte Suprema ha chiuso i battenti dell’anno 2021/2022, deliberando su altri due temi chiave: difesa dell’ambiente e diritto dei migranti. Nella prima sentenza la Corte ha posto un limite ai poteri dell’Environmental Protection Agency (Epa), l’Agenzia federale per l’ambiente, nella lotta contro le emissioni di gas serra. Per i giudici supremi, l’agenzia non avrebbe l’autorità necessaria per regolare le emissioni che contribuiscono al riscaldamento globale.
«L’AGENZIA non può adottare da sola questi provvedimenti» ha dichiarato il presidente della Corte suprema, John Roberts, leggendo il verdetto raggiunto con il solito 6-3, in cui si sostiene che è compito del Congresso esprimersi su questo punto. Il giudice liberal Elena Kagan, in dissenso sul verdetti, ha scritto che a seguito di questa decisione l’Epa si troverà senza il potere che proprio il Congresso le aveva dato per rispondere alla «sfida ambientale più urgente del nostro tempo», e che la Corte con questa mossa si é di fatto auto-nominata «decisore della politica climatica».
La sentenza é arrivata a seguito di una causa avviata da un gruppo di Stati a guida repubblicana, che si sono uniti ad alcune grandi compagnie del carbone, ma le radici della questione risalgono all’era Obama che, nel 2015, aveva approvato il Clean Power Act, un tentativo di imporre a livello statale l’obbligo di ridurre le emissioni delle centrali elettriche, al fine di ridurre le emissioni inquinanti del 32% entro il 2030.
NEL 2016 la Corte suprema bloccó il provvedimento. Trump età poi intervenuto sostenendo che l’Epa poteva regolamentare solo le emissioni di una centrale specifica, e non approvare delle linee guida generali, ma il provvedimento del tycoon era stato bloccato dalla Corte d’appello, proprio l’ultimo giorno della sua amministrazione. Ieri la Corte suprema ha ribaltato nuovamente le carte, in anticipo sulla prevista approvazione del nuovo piano «verde» di Biden, e infliggendo cosí un colpo notevole agli sforzi dell’amministrazione dem di combattere il cambiamento climatico.
DOPO L’ANNUNCIO Biden ha definito la sentenza «una nuova decisione devastante della Corte Suprema, che cerca di far regredire il nostro Paese», e ha promesso di usare tutti i poteri presidenziali per arginare il danno, ma le implicazioni della decisione della Corte Suprema sull’ambiente, come quelle sull’aborto o sulle armi, vanno oltre le misure climatiche. Ormai è politica pura.
Riguardo i richiedenti asilo, la Corte Suprema ha invece stabilito che il preside ha l’autorità di abolire il provvedimento “Remain in Mexico” voluto da Trump nel 2019, che obbliga i richiedenti asilo a restare in patria fino a che le loro pratiche non vengano espletate. Secondo l’amministrazione Biden questa norma mette a rischio i migranti, costretti ad aspettare i tempi della burocrazia.
A CHIUSURA della giornata, mentre la giudice democratica Ketanji Brown Jackson prestava giuramento, diventando ufficialmente la prima afroamericana a fare parte della Corte Suprema, venivano annunciati i casi per il prossimo autunno. Il più spinoso riguarda il gerrymandering, la manipolazione dei confini dei distretti elettorali ridisegnati dal Gop per cercare di vincere a tutti i costi. Il caso si basa su una mappa di voto della Carolina del Nord, e potrebbe aumentare l’influenza dei legislatori statali sulle elezioni federali, conferendo agli Stati il potere di stabilire regole elettorali in conflitto con le costituzioni dello stesso Stato. Un via libera alla legge (elettorale) del più forte.
La Corte ha invece respinto il caso dello Stato di New York che vorrebbe imporre il vaccino per il Covid a chiunque lavori nella sanità. Il giudice Clarence Thomas ha motivato il suo dissenso così: i vaccini per il Covid sono stati sviluppati con l’uso di «bambini abortiti».
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CRONACHE DI GOVERNO. Il premier chiarisce anche che non intende «accontentarsi» di un appoggio esterno. I messaggi con Grillo? «Non li trovo, li aspetto»
«Sin dalle consultazioni ho detto a tutti che il governo non si sarebbe fatto senza i 5S. Resta la mia opinione». E se l’appoggio dei succitati fosse esterno? «Il M5S ha dato contributi importanti all’azione di governo. Sono certo che continuerà a darli. Il governo valuta troppo quel contributo per accontentarsi di un appoggio esterno».
CON LA TENSIONE ANCORA altissima, le truppe pentastellate che spingono per uscire dal governo, Conte ancora tanto inviperito che l’incontro annunciato dallo stesso Draghi da Madrid è ancora in forse («Ci siamo scambiato un messaggio. Ci risentiremo domani»), il premier, rassicurato dal colloquio con Mattarella che la sera prima aveva ricevuto il leader dei 5S, non solo stempera ma, per una volta, blandisce. Più di quanto abbia mai fatto dall’ingresso a palazzo Chigi in poi.
Draghi è un maestro nell’arte dello sdrammatizzare. Lo fa anche stavolta, quando sembra seduto su un vulcano a rischio di eruzione. Resta serafico: il ritorno anticipato a Roma dal vertice del G7 era previsto, imposto dall’obbligo di varare le misure di sostegno contro il caro energia, che dovevano necessariamente essere approvate ieri, e di preparare gli interventi contro la crisi idrica, la peggiore da 70 anni, il cruccio più immediato. Richiede interventi non solo emergenziali visto che non si tratta solo della conseguenza di tre anni di piogge scarse: «Da noi la dispersione d’acqua è a livelli straordinari, oltre il 30%».
E quella foto desolata che ha fatto il giro dei giornali e dei siti, con un Draghi seduto mesto e solo, col cellulare in mano: «Era un’occasione sociale, tutti gli altri parlavano di quadri e musica. Io facevo delle telefonate per preparare il cdm di oggi e, sì, ero anche un po’ stanco». Tutto qui.
MA CERTO IL PIATTO forte è a 5 stelle. Draghi smorza: «Mai detto quelle cose a Grillo. Dicono che ci sarebbero riscontri oggettivi: li aspetto». Ma soprattutto vellica. La vera dimostrazione di quanto sia profonda la sua preoccupazione è proprio l’insistenza con la quale martella sull’impossibilità di andare avanti senza i 5S, sulle splendide prove offerte sin qui dalla maggioranza, quelle che hanno permesso di raggiungere tutti gli obiettivi fissati dal Pnrr per giugno.
E sulla determinazione nel perseguire la transizione ecologica, l’obiettivo comune che aveva cementato l’accordo tra lui e Grillo nei colloqui che portarono alla nascita del governo. Sino a che punto la diplomazia può tradursi in scelte concrete in direzione di una pacificazione con il Movimento? Sulle armi all’Ucraina non c’è margine, se non la conferma della disponibilità a trattare ove si aprisse uno spiraglio. Sulla nota più dolente, la cancellazione del Superbonus, chissà. Il premier non ne parla. Nessuno si informa. Se a un incidente si arriverà sarà proprio su quel punto nevralgico.
Le norme di sostegno varate ieri sono essenzialmente quelle dei decreti precedenti: eliminazione degli oneri aggiuntivi, Iva al 5%, bonus energia per i redditi fino a 12mila euro l’anno. Lo stanziamento è più esiguo rispetto agli altri tre dl, intorno ai 3 miliardi, ma altre misure potrebbero arrivare in luglio. Una novità però c’è, ed essenziale. Lo stoccaggio di gas è al 58%: bisogna arrivare al 90% per l’inverno. La formula degli incentivi alle imprese che stoccano non ha funzionato. Dunque il governo stanzia 4 miliardi per finanziare le aziende che stoccano, attraverso il Gse (Gestore servizi energetici). La faccenda è affidata al gestore pubblico e c’è chi segnala che seguire questa via quando il prezzo del gas era sensibilmente più basso avrebbe comportato acquisti molto più corposi per la stessa cifra.
SULLA CRISI CHE INIZIA a mordere a fondo Draghi non si sofferma. È vero, l’occupazione cala di parecchio nell’ultimo mese, come certifica l’Istat. Ma sulla possibilità di un intervento shock sul cuneo fiscale anche anticipato rispetto alla legge di bilancio Draghi non si sbottona. Annuncia solo che già la settimana prossima incontrerà le parti sociali e in quella sede si discuterà sul che fare. E sul quando. E sul come. È un rebus complicato: con la via dello scostamento di bilancio preclusa, l’impegno ribadito anche ieri a «difendere il potere d’acquisto e la competitività delle imprese» non è facile da mantenersi. Dicono che Draghi abbia in mente un nuovo fondo Sure europeo, come quello messo in campo contro la disoccupazione durante la crisi Covid, stavolta per finanziare un taglio strutturale del cuneo. Molto ambizioso. Poco a portata di mano.
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