Un 2023 di scontro
Si preannuncia un anno difficile per la nostra Costituzione: da un lato, l’esplicita volontà dell’attuale maggioranza di sfigurarne il volto, dall’altro, l’incapacità di organizzare una valida controffensiva. Le intenzioni degli aggressori sono note: eleggere direttamente il Capo dello Stato e trasferire vaste competenze in tema di diritti fondamentali dallo Stato centrale alle Regioni. Riforme profonde che ci consegnerebbero ad una nuova Repubblica.
Di fronte a questo scenario si poteva sperare in un’opposizione compatta. Non è così. Non solo per la prevedibile distanza da chi esprime la medesima cultura della destra. La richiesta di eleggere il «sindaco d’Italia» dimostra da che parte sta il terzo polo. Divisioni, incertezze, a volte ipocrisie si riscontrano anche tra coloro che hanno affermato di volersi «opporre in tutti i modi» alle riforme annunciate.
Le ragioni di tale imbarazzo sono scritte nel loro passato. Tralasciando i precedenti craxiani e le vicende
Leggi tutto: L’attacco alla Costituzione, e la sinistra non c’è - di Gaetano Azzariti
Commenta (0 Commenti)TEOLOGIA. Ratzinger considerava la Costituzione della Chiesa troppo ottimista sulla secolarizzazione
Conclave di cardinali - LaPresse
Con Benedetto XVI è scomparso l’ultimo dei papi che hanno partecipato al Concilio Vaticano II (1962-1965). Potrebbe sembrare una considerazione di dettaglio, ma può essere una chiave di lettura. Eletto pontefice da pochi mesi, nel dicembre 2005 l’ex-prefetto della Congregazione per la dottrina della fede tiene un importante discorso alla Curia romana. Al centro ci sono il Concilio e la sua ricezione. Il problema è quello dell’ermeneutica del Vaticano II, del suo inquadramento nella tradizione. Se la stagione post-conciliare è stata tormentata – spiega il papa – la responsabilità è dei teologi (e dei vescovi) che hanno promosso un’«ermeneutica della rottura».
All’assise ecumenica degli anni Sessanta, Ratzinger ha preso parte in qualità di perito, al seguito del cardinale Josef Frings. Ha contribuito alla redazione di alcuni dei documenti più importanti e sostenuto l’approvazione della costituzione Lumen gentium. La rottura con la maggioranza si manifesta già a lavori in corso, quando si tratta di approvare la costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Quel testo viene giudicato dal professore di dogmatica debole dal punto vista teologico ed eccessivamente schiacciato su una visione ottimistica della modernità secolarizzata. Negli anni Settanta Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac e lo stesso Ratzinger danno voce alla critica attraverso la rivista «Communio», che si contrappone a «Concilium», diventata il punto di riferimento delle teologie d’avanguardia. Sono gli anni in cui il mondo cattolico è attraversato dalle spinte del ’68 e dal felice incontro tra queste e la ricezione del Concilio, che a quella stagione di rivolta ha dato più di una pezza d’appoggio. Si sperimentano nuove liturgie; si discute di ecumenismo; si parla di chiesa povera e per i poveri, di partecipazione dei laici e delle laiche alla vita della Chiesa, di teologie della liberazione dallo sfruttamento.
In questa cornice, in cui cresce la contestazione al magistero, matura a Roma il giudizio negativo nei confronti di quella che viene percepita come una vera e propria crisi della Chiesa: una percezione rinfocolata dai dati sulla disaffezione degli europei nei confronti della religione e dalla caduta delle vocazioni. Paolo VI promuove senza successo il progetto di una Lex ecclesiae per disciplinare l’interpretazione dei documenti conciliari; i seguaci di mons. Lefebvre, che rifiutano il Concilio, arrivano allo scisma; «Communio» diventa il punto di riferimento per alcuni movimenti di reazione, tra i quali spicca Comunione e Liberazione. In questi ambienti si alimenta la convinzione di un cedimento, di un dissolvimento della Chiesa in un mondo sempre più lontano da Dio.
Sono queste le coordinate che dal 1978 guidano il tentativo di «riconquista» di Giovanni Paolo II, assistito nel compito da Ratzinger, che non esita ad usare gli strumenti a sua disposizione. Almeno in Europa, la «normalizzazione» beneficia del riflusso dell’onda dei movimenti e di un passaggio d’epoca che gradualmente consegna la discussione sul Vaticano II nelle mani degli specialisti. Ancora nel 1985 è vivace il dibattito che si sviluppa attorno al Sinodo dei vescovi, chiamato a fare un bilancio. Per quell’occasione esce un libro-intervista al card. Ratzinger molto duro sulla decadenza provocata da chi avrebbe travisato il Vaticano II «vero» nel nome del suo «spirito». In questa prospettiva non stupiscono i provvedimenti con cui Benedetto XVI ha cercato una riconciliazione con i lefebvriani. Più in generale, l’«ermeneutica della continuità» è stata contrapposta a una volontà di rottura della tradizione spesso e volentieri del tutto presunta: un’accusa rivolta contro chi rivendicava semmai, questo sì, una maggiore autonomia nell’interpretazione.
Dopo il Concilio, la paura della sinistra, e ancora di più di una sinistra interna alla Chiesa, è stata dunque tanto forte quanto fonte di visioni distorte che hanno inevitabilmente investito la memoria del Vaticano II. Con papa Francesco si è voltato pagina, ma sono rimaste le ferite
Commenta (0 Commenti)COMMENTI. Nel 2022 ben 22 banche centrali, con la Bce, hanno alzato i tassi: il costo della vita sarà più alto. I governi subalterni ai banchieri. Sulle politiche monetarie la sfida dei parlamenti
Parafrasando il celebre testo biblico potremmo chiedere «Banchiere, a che punto è la notte?», ma rischieremmo di ricevere la stessa risposta che la sentinella nel sacro testo fornisce al suo angosciato interlocutore: «Viene la mattina, e viene anche la notte. Se volete interrogare interrogate pure; tornate e interrogate ancora».
Il fatto che in queste settimane compaiano libri e testi teatrali – tra gli altri, un saggio di critica alla geopolitica di Isidoro Mortellaro e un pièce teatrale scritta e interpretata da Nichi Vendola – che fanno, ognuno per suo conto, riferimento a questo interrogativo senza risposta, ci dà, forse più di ogni altra cosa, la dimensione nella quale viviamo. La cifra dell’anno che verrà, non solo dal punto di vista economico di cui principalmente qui ci si occupa, è segnata da un’elevata incertezza. Non è una novità assoluta. In effetti più di cinquant’anni fa Hyman Minsky scriveva che «la differenza essenziale tra l’economia keynesiana e l’economia sia classica che neoclassica è l’importanza attribuita all’incertezza», includendo nell’economia neoclassica anche il tentativo di normalizzazione del pensiero keynesiano cominciato da subito con un famoso articolo di John Hicks del 1937.
Ma è indubbio che «l’economia del disastro», per tornare a citare Minsky, abbia accorciato negli ultimi tempi l’intervallo fra una crisi e l’altra. Secondo alcuni economisti (ad esempio Janet Yellen) gli ultimi tre anni contrassegnati dalla pandemia e dalla guerra in Europa, dove non sono ancora stati smaltiti gli effetti della crisi economico-finanziaria del 2008, «saranno visti come un periodo di instabilità unico nella nostra storia moderna». Previsione azzardata, proprio perché questo periodo appare tutt’altro che concluso. Se guardiamo alla guerra, l’esile fiammella dell’apertura di un processo di pace sul versante russo-ucraino è subito accompagnata dal surriscaldamento delle tensioni al confine fra la Serbia e il Kosovo. Come a sottolineare che ormai la guerra entro il continente europeo è considerata un’opzione sempre possibile, quasi normale. Se guardiamo alla situazione economica e finanziaria e cerchiamo di fare una media tra le valutazioni dei più autorevoli economisti, dei grandi operatori finanziari e manager di multinazionali, i famosi funzionari del capitale, l’ipotesi più probabile per il 2023 è quella di una recessione strisciante.
Solo i più ottimisti si pronunciano
Leggi tutto: Il 2023 sarà l’anno della recessione strisciante - di Alfonso Gianni
Commenta (0 Commenti)GOVERNO. Nella conferenza di Giorgia Meloni la stampa italiana le ha cortesemente offerto una vetrina. Con poche lodevoli eccezioni, le domande erano tali da poter essere assimilate a quella emblematicamente inutile […]
Conferenza stampa di fine anno del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni - Lapresse
Nella conferenza di Giorgia Meloni la stampa italiana le ha cortesemente offerto una vetrina. Con poche lodevoli eccezioni, le domande erano tali da poter essere assimilate a quella emblematicamente inutile posta da un’antica saggezza napoletana: «Acquaiolo, l’acqua è fresca?».
Certo, non sono mancati passaggi di puro godimento intellettuale. Ad esempio quando ha argomentato la flat tax a 85000 euro in termini di equità sostanziale per riequilibrare un vantaggio fin qui concesso ai lavoratori dipendenti a danno degli autonomi. Ma nel complesso Meloni ci ha dato una ampia rassegna di quelli che sono e saranno i topoi della destra al governo. Che serviranno a poco, come a poco sono serviti in passato quelli della sinistra.
Tra i luoghi comuni troviamo le riforme istituzionali. Meloni ha confermato che il presidenzialismo è una sua priorità, perché «consente di avere stabilità e di avere governi che siano frutto di indicazioni popolari chiare». Anzitutto, quale presidenzialismo? Il modello francese è profondamente diverso da quello statunitense, e in ogni caso è l’intera architettura dei poteri pubblici che va disegnata, considerando anche l’impatto sul sistema politico e dei partiti. Per Meloni invece, va bene qualunque cosa, purché rechi l’etichetta del presidenzialismo. E va bene qualunque modo di arrivarci – bicamerale, disegno di legge governativo, percorso parlamentare. Nemmeno a parlare, poi, di una riflessione se i mantra di un tempo in tema di presidenzialismo siano ancora validi nel mondo e nelle società di oggi. Nessun dubbio stimolato dalle ultime esperienze dei paesi da sempre assunti a termine di paragone, come gli Stati Uniti o la Francia.
È poi davvero singolare che nelle tre ore di conferenza stampa non sia stata detta una sola parola sull’autonomia differenziata, pur essendo evidente che il presidenzialismo è ancora fermo ai blocchi di partenza, mentre l’autonomia è in piena corsa. Anzi, quando ha recitato il suo copione Meloni era certamente già informata della trionfalistica comunicazione di Calderoli sull’aver mantenuto l’impegno assunto di arrivare in consiglio dei ministri entro la fine dell’anno, avendo consegnato a Palazzo Chigi il disegno di legge di attuazione dell’art. 116, terzo comma. Quindi dobbiamo vedere nel silenzio di Meloni il significato politico di una presa di distanza.
La mossa di Calderoli è stata da più parti definita come forzatura, blitz, fuga in avanti. Vero per una parte, ma per altro verso solo un pezzo di teatro, visto che la consegna a Palazzo Chigi, nella cui struttura il suo ministero senza portafogli è inserito, più o meno equivale a far scivolare un foglio sotto la porta dell’ufficio accanto. Altra cosa è arrivare a una deliberazione in consiglio di ministri, che richiede lo svolgimento di un percorso tecnico e politico. Ma è un fatto l’inserimento in legge di bilancio di norme sui livelli essenziali di prestazione (Lep) che lasciano intravedere diritti dipendenti dal codice di avviamento postale, in un paese spacchettato in repubblichette semi-indipendenti a trattativa privata tra esecutivi, sotto la regia del ministro delle autonomie. Con la ragionevole certezza che divari territoriali e diseguaglianze rimangano, perché mancano le risorse che diversamente sarebbero necessarie.
I commi 791 e seguenti della legge di bilancio servono solo a Calderoli per affermare di avere risolto il problema dei Lep, e aprire la porta alle intese con le regioni. Meloni fa finta di niente. Ma prima o poi dovrà ufficialmente prendere atto che c’è una sceneggiata sul tema dell’autonomia, soprattutto legata al voto regionale prossimo e alle turbolenze in casa Lega. L’ultima cosa seria che Meloni ha detto sull’autonomia la troviamo nel suo intervento al Festival delle regioni, in cui richiama le «storture» del titolo V, che «su molte materie ha aumentato la conflittualità, con tutto quello che comporta in termini di lungaggini ed efficienza» (Corriere del Veneto, 6 dicembre 2022).
Concordiamo. Per darle una mano, il Coordinamento per la democrazia costituzionale raccoglie le firme per una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta a modificare gli articoli 116.3 e 117. Può firmare con lo Spid su www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it. Se lo facesse, potremmo anche chiudere un occhio sul fatto che mai nella storia delle conferenze stampa di fine anno si parlò così tanto per dire così poco
Commenta (0 Commenti)CLIMA. Cinque proposte dal presidente dell'organizzazione ambientalista, che afferma: «Di fronte a questa fotografia è fondamentale chiedere con forza al governo Meloni di fare ciò che gli altri non hanno fatto»
Stefano Ciafani, presidente di Legambiente
«I dati che presentiamo ci hanno colpito molto, perché non immaginavamo un aumento così significativo degli eventi estremi nel 2022 rispetto al 2021. Di fronte a questa fotografia è fondamentale chiedere con forza al governo Meloni di fare ciò che gli altri non hanno fatto» attacca Stefano Ciafani, presidente di Legambiente.
Una delle vostre richieste è sul Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. Su cui il ministero di Pichetto Fratin ha fatto passi in avanti.
Il ministro ha rispettato l’impegno di pubblicare entro la fine dell’anno la bozza, scritta dal governo Gentiloni e dal ministro Galletti. Cosa che i governi Conte I, Conte II e Draghi non avevano fatto. Un impegno che i due ministri di Ambiente e Transizione ecologica dei tre esecutivi, Costa e Cingolani, non avevano fatto. Gli uffici di Pichetto Fratin hanno aggiornato il testo, per quello che si poteva fare in un mese, e avviato una consultazione che speriamo possa concludersi nei primi mesi del 2023.
Un passo in avanti, quindi?
Oggi tutti possono leggere un testo i cui contenuti fanno paura, perché parla di un aumento atteso delle morti premature per le ondate di calore nelle città ma anche della riduzione dei flussi turistici nel centro Sud-Italia, come effetto di un clima sempre più torrido, o della diminuzione delle produzione agro-alimentare con danni al Pil per decine di miliardi di euro. Aiuta a capire che i cambiamenti climatici non sono solo un problema degli ambientalisti ma riguarda il sistema Paese.
La politica lo ha compreso?
Oltre a scrivere il Piano servono le risorse – che non stanno nella legge di Bilancio appena approvata – per dare gambe alle soluzioni. Come risolviamo questa crisi data dalle ondate di calore? Senza risorse è impossibile ripensare la città. Come garantiamo ad agricoltura e allevamento le opportunità per diversificare le attività? Come promuoviamo la vivibilità per i cittadini e la sopravvivenza delle attività produttive? Tutto questo andrebbe sostanziato con un adeguato stanziamento di risorse che non è stato nemmeno oggetto di discussione. Siamo alla fine del primo tempo. Trovo insopportabile che oggi Sergio Costa, vicepresidente della Camera, dica che il testo del Piano andava completamente riscritto. Perché non lo ha fatto da ex ministro in carica per due anni e mezzo?
Cosa suggerite per il secondo tempo?
Servono risorse e un’indicazione efficace sul loro utilizzo. Sul fronte della mitigazione, non abbiamo visto a oggi cambiamenti di approccio di questo governo rispetto al precedente. Draghi, pur realizzando alcune semplificazione sulle autorizzazioni per le rinnovabili, ha autorizzato nuove infrastrutture legate al gas. Come il potenziamento dei gasdotti e l’aumento della capacità massima dei rigassificatori. Questo poteva servire in una fase emergenziale, quella che è seguita all’invasione russa in Ucraina, ma oggi bisogna mettere in campo una strada sola, quella delle rinnovabili. Meloni invece ha continuato a lavorare sui due binari: da una parte sbloccando le trivelle tra 9 e 12 miglia dalla costa; dall’altra raddoppiando i componenti delle commissioni Via e Vas. Però non ha ancora approvato il decreto per le comunità energetiche. In conferenza stampa ha specificato che servono nuovi rigassificatori, fissi e non solo galleggianti. A chi si lamenta dicendo che l’eolico rischia di danneggiare il paesaggio appenninico, chiedo come giudicano la nuova dorsale appenninica del gas, da Brindisi alla Pianura Padana. Sono infrastrutture rigide che rischiano di bloccarci, di impantanarci per i prossimi trent’anni.
Che cosa serve, da subito?
Cinque azioni urgenti: veloce approvazione del Piano nazionale di adattamento climatico, con stanziamento di adeguate risorse economiche per attuarlo; aggiornamento del Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) agli obiettivi europei di riduzione dei gas climalteranti del REPowerEU, dimenticato dal governo Draghi; nuove semplificazioni per tutti gli impianti a fonti rinnovabili, a partire dal repowering per gli impianti eolici esistenti; velocizzazione degli iter autorizzativi con nuove linee guida del ministero della Cultura per le sovrintendenze e una forte azione di sostegno e sollecitazione alle regioni per potenziare gli uffici che autorizzano gli impianti
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2022, L'ANNO NERO. Una guerra che nessuna cancelleria credeva possibile fino al giorno dell’invasione. Un’inflazione al galoppo che nessuna banca centrale prendeva sul serio. Una pandemia che torna in prima pagina con il […]
Una guerra che nessuna cancelleria credeva possibile fino al giorno dell’invasione. Un’inflazione al galoppo che nessuna banca centrale prendeva sul serio. Una pandemia che torna in prima pagina con il testa-coda cinese sulle misure per contenerla. Manca giusto qualche evento estremo (alluvioni e siccità) e la lista dell’orribile 2022 potrebbe essere completa.
Da dieci mesi viviamo l’orrore quotidiano scatenato da Putin contro il popolo ucraino. Dieci mesi di barbarica invasione, atroci crimini di guerra, il più grande esodo di cittadini europei inseguiti dalle bombe, una popolazione civile come principale, dichiarato, persino ostentato obiettivo bellico. E ancora non si vede uno spiraglio per un cessate il fuoco che possa avviare una trattativa di pace.
Se restiamo con lo sguardo sul mondo, un altro regime insanguina il suo popolo, stupra uomini e donne, imprigiona e impicca sulle gru nelle piazze. Un massacro di ragazzi, bambini e donne affamate di libertà, disposte a giocarsi la vita piuttosto che trascorrerla come schiave del medioevale regime degli ayatollah.
Né Putin, né Khamenei, alleati nella guerra ai miscredenti dell’Occidente collettivo, metteranno facilmente fine alle loro atrocità, ma dobbiamo essere convinti che, sia per la criminale invasione putiniana, sia per la repressione assassina iraniana, serve una mobilitazione costante della comunità internazionale, dei movimenti sociali, dei governi.
Se invece volgiamo lo sguardo al nostro paese, siamo costretti a prendere atto di un 2022 nero. In ogni senso. A cominciare dal
Leggi tutto: Il dovere di scegliere la speranza - di Norma Rangeri
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