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Legata ai polsi e ai piedi, una cintura stretta in vita, un guinzaglio di catena, Ilaria Salis è comparsa davanti al tribunale di Budapest. Da un anno è in carcere in condizioni terribili. Accusata di lesioni lievissime, rischia 11 anni. Il governo italiano, amico di Orbán, non chiede l’estradizione ma solo di non infierire

IL CASO . A Budapest comincia il processo contro l’antifascista italiana. La procura contro la scarcerazione. La nuova udienza tra 4 mesi

 Ilaria Salis con i ceppi ai piedi nell’aula di Budapest - Ansa

Prima si sente il rumore di catene che si trascinano per terra. Poi si apre il portone e il primo a entrare è un agente dei reparti operativi della polizia ungherese: divisa mimetica chiara, pistola al fianco, passamontagna in testa. Seguono gli imputati: manette ai polsi, schiavettoni alle caviglie e una cintura di cuoio stretta in vita da cui parte un guinzaglio. È così che il signor Giuseppe Salis e sua moglie Roberta Benevici hanno potuto rivedere Ilaria, la loro figlia: «Come un animale». L’ultima volta era a metà novembre, in carcere, da dietro un vetro, con una cornetta per parlare. Lei li guarda, allunga lo sguardo fino agli amici milanesi seduti nelle retrovie, e sorride. Un modo per resistere alle terrificanti condizioni a cui è sottoposta in carcere, tra spazi angusti, topi, scarafaggi, cimici, cibo di infima qualità, costrizioni e restrizioni che fanno inorridire mezza Europa ma non ancora abbastanza il governo italiano.

ILARIA Salis, 39 anni, di professione maestra, è sotto processo a Budapest con l’accusa di aver preso parte all’aggressione di tre neonazisti lo scorso febbraio, nel periodo del Giorno dell’onore, l’appuntamento che, dalla metà degli anni ’90 in poi, richiama nostalgici da tutto il continente per commemorare le gesta delle SS che combattevano contro l’Armata Rossa. Non solo, per gli investigatori Salis farebbe parte di un’organizzazione chiamata Hammerbande, già al centro di svariate indagini in Germania e bollata a volte come estremista e a volte come terrorista. Da qui l’enormità del patteggiamento che le è stato proposto: 11 anni di prigione. Lei però si è sempre dichiarata innocente e lo fa anche in

aula davanti al giudice Jozsef Sòs.

La procuratrice legge le carte in cui sono elencate le accuse in maniera implacabile, spara una parola dietro l’altra quasi in apnea e non si ferma nemmeno quando l’interprete di Ilaria Salis glielo chiede per piacere. Il clima generale, però, appare cordiale. Pure troppo. Gli arrivi dall’Italia, l’interessamento di alcune organizzazioni umanitarie e le telecamere presenti devono aver stimolato i padroni di casa a mostrarsi come aperti e disponibili cultori dello stato di diritto e della libertà d’informazione.

Al piano terra del tribunale i controlli di sicurezza sono molto laschi e stupisce trovare sui muri le indicazioni per raggiungere l’aula del processo sia in tedesco sia in italiano. I funzionari e gli uomini della sicurezza ostentano simpatia, fanno battute in italiano e a disposizione del pubblico ci sarebbe persino un’interprete. Questo eccesso di gentilezza, però, non scalfisce la durezza di una celebrazione che ricalca il vecchio rito inquisitorio italiano: c’è un giudice monocratico a decidere su fatti piuttosto pesanti e con la facoltà di attivarsi d’ufficio per ottenere nuove prove.

Così chi sostiene l’accusa è portato a tenere un atteggiamento spregiudicato, mentre le difese sembrano animate da una strana forma di fatalismo rispetto agli eventi: nel mezzo dell’udienza, ad esempio, la procuratrice dà parere negativo ad eventuali misure di custodia cautelare fuori dal carcere per Ilaria Salis senza però che il suo avvocato avesse mai chiesto niente del genere. In Italia per una cosa del genere qualche protesta della difesa sarebbe stata ampiamente giustificata, qui non fiata nessuno. Un altro imputato, il tedesco Tobias Edelhoff, poco prima aveva stupito tutti dichiarandosi colpevole.

Non era accusato di fatti specifici, solo di appartenere alla Hammerbande e in Germania ha già precedenti in questo senso. Per lui la richiesta di condanna immediata è a tre anni e sei mesi, Sòs, dopo essersi ritirato per un’ora, di anni gliene dà tre, di cui uno già scontato. Seguirà ricorso in appello sia della sua difesa (che forse sperava in una condanna mite e nell’immediata scarcerazione del ragazzo) sia della procura, incredibilmente non soddisfatta per i sei mesi tolti dal giudice. La terza imputata, Anna Christina Mehwald, è a piede libero, infatti è l’unica a non essere incatenata né piantonata dagli agenti: anche lei si dichiara innocente e anche per lei il processo proseguirà insieme a quello di Salis. I tre erano stati arrestati insieme, l’11 febbraio di un anno fa, mentre erano a bordo di un taxi.

IN TOTALE l’udienza dura tre ore e mezza, Ilaria e Tobias sono rimasti in catene per tutto il tempo, ma a lei sono state allentate le manette ai polsi perché ritenuta «meno pericolosa» di lui. L’uscita degli imputati è tetra quanto l’entrata: passi piccolissimi a causa dei piedi incatenati, gli agenti a farsi largo, il rumore della ferraglia a fare da colonna sonora. Ilaria fa in tempo a sorridere per un’ultima volta ai suoi genitori e poi scompare dietro un portone, circondata dagli agenti col passamontagna. L’udienza è aggiornata al 24 maggio: una data lontanissima per un processo in cui bisognerà ascoltare diversi testimoni, tra i quali i neonazisti aggrediti, e visionare i filmati di sorveglianza in cui gli investigatori hanno riconosciuto Ilaria Salis, e che però per gli avvocati dimostrerebbero che lei non c’era durante le aggressioni. Di questo se ne riparlerà addirittura in autunno.

FUORI dal tribunale gli amici di Ilaria si congedano. I genitori si preparano a proseguire la loro battaglia: stamattina vedranno finalmente l’ambasciatore a Budapest, poi torneranno in Italia. Qui sperano di poter riportare in un modo o nell’altro Ilaria, anche se la questione è più diplomatica che giudiziaria. «Come l’ho trovata? Resiste. Ma in un anno di prigione mi sembra che sia invecchiata di dieci», conclude Roberto Salis, la cui calma è già una grande prova di diplomazia