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Io ho paura.

Non ho paura di morire, ma di essere già morto. Ho paura che scompaiano definitivamente le cose e le situazioni nelle quali mi sento vivo, che alimentano le mie emozioni e la mia mente, che danno la spinta, a volte l’entusiasmo, per fare, per agire insieme, per vivere.

Come i grandi anziani, quelli che sopravvivono a lungo alla scomparsa dei loro cari e del loro mondo di relazioni pubbliche e private, spesso si spengono più per questa perdita che per ragioni biologiche, così io temo che questa pandemia (e soprattutto la depressione che ne seguirà) acceleri e faccia precipitare anzitempo tante cose del mio mondo che a me sono indispensabili e che, in evidente crisi da tempo, si esauriscano di colpo senza che se ne sia metabolizzata la estinzione trasfondendone le qualità in altri modi e luoghi.

Ho paura di non vedere più un film in un cinematografo, di non ritrovare più le piccole botteghe, le stanzette degli artigiani sopravvissuti, le vetrinette dei nostri ceramisti, le poche preziose librerie indipendenti dove curiosare liberamente come nel labirinto della propria mente, le riunioni politiche in stanze inadeguate ma preziose dove l’impegno civile e sociale non affida il suo messaggio solo alle parole, ma agli sguardi, ai gesti, al corpo, alla presenza insomma. Lo sappiamo tutti che la realtà virtuale è discriminatoria, non solo per il digital divide, ma anche perché non è democratica. Chi non sa scrivere con efficacia, chi non sa parlare “bene” ha diritto ad un spazio dove potersi esprimere e comunicare, non lo si può confinare nello sfogatoio imbelle ed impotente dei social.

Facciamo qualcosa!
Vorrei poter comprare una poltroncina al Cinema Sarti, magari per tenerla vuota dopo aver pagato il biglietto per il posto vicino (distanziamento …). Vorrei che la mia città, per come la conosco, non si spegnesse, perché con essa si spegne un valore civile.

Vorrei che i piccoli commercianti non venissero abbandonati alle perverse logiche delle rendite immobiliari in periodi di crisi e quindi ad affitti in fondo suicidi, che agli artigiani veri fossero riservati spazi nel centro della città (altro che trasformare tutto in garage!) vorrei che i ceramisti li pagassero per mantenere aperti i loro laboratori e le loro vetrine in centro storico, vorrei che i caffè dove ci si incontra, si legge, si chiacchiera fossero considerati per quello che sono, nodi importanti delle nostre relazioni e potessero perciò vivere serenamente.

Vorrei che le sedi delle associazioni, dei partiti, dei gruppi di giovani, che dovranno essere molto spaziose se le regole del distanziamento saranno destinate a durare a lungo, non fossero affidate alla logica di mercato per cui sopravvivono se si hanno “soci” danarosi o grandi organizzazioni alle spalle.

Sì, lo so, di fronte al dramma collettivo che stiamo vivendo sembrano piccole cose. Ma sono importanti!

In città qualcuno ci penserà?

Alessandro Messina
20 aprile 2020