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TEATRO DI GUERRA. Il premier italiano - che riferirà in Parlamento il 19 maggio per un question time (senza repliche) - vuole figurare come il miglior alleato possibile di Biden e allo stesso tempo tenere a bada una maggioranza di governo dove in molti sono contrari all’invio di altre armi

Draghi al bivio e l’escalation di guerra

 

Il premier Draghi e il presidente Usa Biden - Ap

Con un totale di 40 miliardi di dollari di aiuti militari varati dal Congresso americano con l’Ukraine Democracy Defense Lend-Lease Act (una sorta di prestito) Kiev dovrà difendersi da Mosca e contrattaccare, diventando una sorta di Sparta d’Europa. Questa è la sostanza dei piani americani. Se poi vogliamo credere alle parole di Draghi nell’incontro con Biden a Washington e di Macron rimane anche lo spazio per tentare un negoziato ma sono, appunto, parole quelle pronunciate dal presidente del Consiglio italiano e dal leader francese. Macron ancora più di Draghi si è spinto avanti: «Non bisogna umiliare la Russia», ha detto.

Cosa significa? Che la guerra, dopo la svolta di Ramstein, ha preso una china pericolosa per Putin ma anche per la pace in Europa. E il capo

dell’Eliseo, seguito in questo anche da Draghi, si è affrettato a dire, sia nel discorso di Strasburgo di lunedì che nel colloquio con il cinese Xi Jinping, che deve essere l’Ucraina, non altri, a indicare le condizioni di un negoziato con Mosca.
La dichiarazione di Macron più che un consiglio diplomatico appare come un avvertimento alla stessa Alleanza atlantica.

All’ultimo vertice della Nato – diventato con la partecipazione di altri 14 Paesi una sorta di alleanza dei “volenterosi” – si è passati da una prima fase del conflitto, che mirava soltanto a difendere l’Ucraina e limitare i danni dell’invasione russa, a una seconda fase, quella di indebolire la Russia e impegnarla in un lungo conflitto di logoramento e di attrito. Con l’espansione del sostegno all’Ucraina e nel ritenere legittimo, come dice Boris Johnson, colpire la catena logistica «anche in territorio russo», gli occidentali sembrano avviati ad accettare esplicitamente una escalation del conflitto.

Come scrive Tom Stevenson sul New York Times, qui non si tratta soltanto di inviare convogli di armi. Gli Usa e gli inglesi – ma anche l’Italia stando alle dichiarazioni di qualche ex generale – stanno fornendo agli ucraini intelligence e sorveglianza dei cieli, dando informazioni in tempo reale che sono servite a individuare le posizioni dei militari russi sul terreno, a eliminare una decina di generali e ad affondare il Moskva, ammiraglia russa nel Mar Nero. Se volessimo spingerci appena un passo più in là del giornale americano, la realtà è che la Nato ha insediato sui cieli dell’Ucraina una sorta di “no fly zone” elettronica e si prepara da affondare i colpi anche con la cyberwar, come fanno intuire i «misteriosi» incidenti avvenuti a siti di interesse militare in territorio russo.

L’escalation è nelle parole e nei fatti. Il segretario alla Difesa Usa Lloyd Austin, ha dichiarato che la Russia deve essere «indebolita». La ministra britannica degli esteri Liz Truss ha affermato che il conflitto si deve allargare alle zone dell’Ucraina occupate dalla Russia come la Crimea e che «l’obiettivo è espellere le truppe di Mosca dall’intera Ucraina». Questo significa, in sintesi, l’allargamento del campo di battaglia e la trasformazione della guerra. Ci sono segnali espliciti in questa direzione. Nelle prime settimane della guerra anche i leader più nazionalisti di Kiev discutevano della possibilità di dichiarare lo status di neutralità dell’Ucraina per fermare l’avanzata russa, ora si parla di «vittoria» e riconquista dei territori perduti.

Il Donbass, in guerra dal 2014 e lungamente ignorato dalla stragrande maggioranza dei politici europei, ora è diventato in poche settimane la nuova frontiera dell’Europa, la linea rossa tra la democrazia e l’autocrazia putiniana.

Ma vogliamo davvero questo? Draghi al bivio si mantiene nella sua ambiguità. «Molti in Europa – ha detto Draghi – condividono la nostra posizione unita nell’aiutare l’Ucraina e nel sanzionare la Russia. Ma si chiedono anche: come possiamo mettere fine a queste atrocità? Come possiamo arrivare a un cessate il fuoco? Come possiamo promuovere dei negoziati credibili per costruire una pace duratura?». E poi alla conferenza stampa all’ambasciata italiana ieri, ha dichiarato che La Russia «non è più Golia», non è più invincibile, ma tutte le parti devono fare uno sforzo per sedersi intorno a un tavolo «anche gli Usa»; accontando così il risultato dell’incontro con Biden: «Abbiamo concordato che occorre continuare a sostenere l’Ucraina e a fare pressione su Mosca ma anche cominciare a chiedersi come si costruisce la pace. Una pace che vuole l’Ucraina, non una pace imposta».

Il premier italiano – che riferirà in Parlamento il 19 maggio per un question time (senza repliche) – vuole la botte piena e la moglie ubriaca: ovvero figurare come il miglior alleato possibile di Biden, impegnato nella corsa elettorale di midterm, e allo stesso tempo tenere a bada una maggioranza di governo dove in molti – oltre che tanti nel Paese – sono contrari all’invio di altre armi in Ucraina per una guerra che ha cambiato di segno. Ma quasi sicuramente avverrà il contrario: faremo quel che ci chiedono gli americani e se servono i nostri droni daremo i droni.

Tra Biden e Draghi non è mancato un siparietto libico di involontaria comicità. Draghi ha chiesto a Biden un sostegno alla «stabilizzazione della Libia» che può essere «un enorme fornitore di gas e petrolio», visto che tra l’altro ci unisce, dal 2004, anche un gasdotto della portata di 30 miliardi di metri cubi. Se per il gas ci siamo sempre più legati alla Russia è anche per le perdite subite con le mancate forniture dalla Libia dovute alla decisione di Usa, Gran Bretagna e Francia di far fuori, con la Nato, Gheddafi nel 2011 abbandonando poi il Paese al suo destino.

Sono anni che le amministrazioni americane, democratiche o repubblicane, ci prendono in giro sulla questione della Libia dove promettono all’Italia un ruolo nella «cabina di regia» di un Paese che nel frattempo è stato occupato per metà dalla Turchia e dove non si vede ancora chi possa governarlo riunificando Tripolitania e Cirenaica. Ironia della sorte prima abbiamo pagato le guerre americane e dei nostri alleati e ora paghiamo anche quelle di Putin. Più irrilevanti di così si muore, quasi come muoiono tutti i giorni, ormai ignorati, i profughi nel Mediterraneo.