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12 DICEMBRE. Nel cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana, l’allora deputata Giorgia Meloni invitava a «non dimenticare le vittime innocenti della strage di Piazza Fontana». Oggi, da Presidente del Consiglio, ha però portato al governo figli diretti, eredi ed estimatori politici dei protagonisti di quegli «anni bui»

Piazza Fontana, verità e giustizia secondo Meloni

Il 12 dicembre 2019, cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana, l’allora deputata Giorgia Meloni postò sul proprio profilo twitter un messaggio in cui (pur non indicando chi e perché avesse compiuto il massacro) invitava a «non dimenticare le vittime innocenti di quella barbarie» esortando tutti a «non smettere di cercare verità e giustizia».

 

Diventata Presidente del Consiglio nel 2022, Meloni ha portato al governo figli diretti, eredi ed estimatori politici dei protagonisti di quegli «anni bui» rispetto ai quali dichiarò il suo impegno onde «impedirne il ritorno».

Sottosegretaria alla Difesa oggi è Isabella Rauti, figlia di Giuseppe (Pino) Rauti, ex collaborazionista di Salò, dirigente del Msi e fondatore del gruppo eversivo filo-nazista Ordine Nuovo responsabile della strage di Piazza Fontana e sciolto per decreto dal ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani nel 1973.

Quello di Isabella al ministero della Difesa è un ritorno, per la famiglia Rauti.

Pino Rauti, infatti, lavorò per il generale Capo di Stato Maggiore della Difesa Giuseppe Aloja pubblicando nel 1966 (sotto falso nome) insieme a Guido Giannettini (agente Zeta del Sid processato e assolto per la strage di Piazza Fontana) un noto pamphlet provocatorio titolato Le mani rosse sulle Forze Armate di cui Aloja si sarebbe dovuto servire nello scontro con il generale Giovanni De Lorenzo (l’uomo del Piano Solo del 1964).

Nel 1965 Rauti aveva già organizzato, sempre finanziato dal ministero della Difesa, il convegno dell’Istituto di studi militari «Alberto Pollio» sulla «guerra rivoluzionaria» dove si disegnò la strategia stragista che dal 1969 insanguinò l’Italia.

Il 21 novembre 1969 Il Secolo d’Italia, organo ufficiale del Msi, annunciava entusiasta: «I camerati di Ordine Nuovo entrano e rientrano a far parte del Movimento Sociale Italiano. Tutto il partito li saluta con gioia».

Un rientro in attesa della pioggia. Infatti, come raccontato alla magistratura dall’ex ordinovista Martino Siciliano, era giunta l’ora della «politica dell’ombrello» ovvero «della necessità di rientrare nel Msi nel senso di trovare riparo sotto l’ala del partito in previsione della piega che avrebbero potuto prendere le indagini sugli attentati che erano avvenuti o che dovevano avvenire». È la vigilia del 12 dicembre.

Una settimana dopo la strage fu il segretario missino Giorgio Almirante a parlare di una «ora di ansiosa vigilia» durante un cosiddetto «appuntamento con la nazione» a Roma. Appuntamento spostato dalla data iniziale (prevista per il 14 dicembre, due giorni dopo le bombe) a seguito della richiesta di annullamento presentata dal segretario repubblicano Ugo La Malfa per evitare ciò che il deputato socialista Eugenio Scalfari aveva già definito, il 9 dicembre, «un appuntamento molto pericoloso. Perché ci si ritrova con qualche banda di bastonatori di professione, e questa certo non è la nazione».

Nel racconto di Vincenzo Vinciguerra, ex dirigente di Ordine Nuovo a Udine e autore della strage di Peteano del 1972, quella manifestazione del Msi (e i gravi scontri che ne sarebbero derivati con l’assalto alla sede nazionale del Pci di via delle Botteghe Oscure) avrebbe funto da definitivo innesco per la proclamazione dello stato d’emergenza nel Paese ovvero la sospensione della Costituzione.

L’adunata si aprì con «i saluti deferenti» di Almirante rivolti a Junio Valerio Borghese (presente al comizio e nel frattempo impegnato a preparare il tentativo di golpe del 7-8 dicembre 1970) e ai militanti ordinovisti appena rientrati nel Msi.

Su tutte queste vicende la Presidente del Consiglio dovrebbe dar seguito alle sue parole. Invece i fatti raccontano di un convegno del 14 aprile 2022 organizzato da Fratelli d’Italia in Senato dedicato al generale Gianadelio Maletti, ex capo dell’ufficio D dei servizi segreti condannato per favoreggiamento dell’ordinovista Marco Pozzan, coinvolto nell’inchiesta su Piazza Fontana e fatto fuggire all’estero. Maletti, morto latitante in Sudafrica, secondo l’allora deputato Federico Mollicone fu «un uomo dello Stato che ha sempre osservato l’appartenenza alla divisa». Su di lui quindi «il giudizio va sospeso». Mollicone intervenne già nell’ottobre 2020 alla Camera, sostenendo un falso ovvero che la strage di Bologna del 2 agosto 1980 fosse legata «alla sinistra internazionale terrorista». Oggi Mollicone è stato promosso da Meloni Presidente della Commissione Cultura della Camera.

Nel frattempo a Brescia, città colpita dalla strage ordinovista del 28 maggio 1974, è stata intitolata a Pino Rauti (che per quel massacro fu ritenuto dalla pubblica accusa responsabile morale ma non penale) la nuova sezione di Fratelli d’Italia.

L’intento è chiaro e ricalcherà senza dubbio la linea dettata da Meloni nel 2019: verità e giustizia sulle stragi.