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L'UNIONE. La sinistra europea mostra un’immagine pallida, stinta, è spaventata dalla sua stessa ombra. Il cambio di maggioranza è un’eventualità niente affatto remota

 Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen a Tunisi foto Ap

Prima ancora che la campagna elettorale per le elezioni di giugno venisse ufficialmente aperta, il Parlamento e le istituzioni europee si erano affrettati a mettere al sicuro i temi più scottanti e decisivi.

Così gli accordi sulla politica migratoria, sul sostegno militare senza limitazioni all’Ucraina, il patto di stabilità, non saranno più argomenti di discussione nella contesa elettorale. C’è chi dice «meglio così!» visto che il prossimo Parlamento dell’Unione sarà decisamente più a destra di quello attuale. Fatto sta che, in particolare sullo spostamento fuori dai confini dei richiedenti asilo e sulla politica di accordi con i regimi che li dovrebbero trattenere, ovverosia imprigionare (ultimo aggiunto l’ameno Libano), ne sono stati ampiamente anticipati i prevedibili umori, così come con l’indecorosa e vile marcia indietro sul green deal.

La destra arriva all’appuntamento europeo con il vento in poppa e con una fisionomia precisa e riconoscibile. Nonostante le contraddizioni e competizioni interne al suo schieramento, diviso nei due campi dell’Id e dell’Ecr, nel discorso politico e nella direzione di marcia l’aria di famiglia e i fattori comuni emergono con immediata evidenza. Intento largamente condiviso è quello di accrescere il peso già considerevole degli stati nazionali negli orientamenti e nel governo dell’Unione.

Uno slogan come «l’Italia cambia l’Europa» manifesta spudoratamente, oltre a una stridula presunzione, l’intenzione di privilegiare la sovranità nazionale su quella europea, l’interesse patriottico su quello comunitario. Cambiare l’Europa in questa accezione non significa naturalmente contrastarne i dogmi liberisti, ma tagliare le unghie dell’Unione privandola della possibilità di intervenire sulla torsione autoritaria dello stato di diritto e sulle politiche demagogiche e clientelari che la preparano e la accompagnano in diversi paesi del Vecchio continente.

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Sul terreno le posizioni sono decisamente favorevoli agli schieramenti reazionari e nazionalisti. Molti gli stati nazionali già conquistati dalla destra con il contributo delle sue componenti più radicali al sud come al nord, all’est come all’ovest. Dalla Scandinavia, già socialdemocratica, all’Italia e la Grecia, passando per gran parte dell’Europa dell’Est e stati benestanti dell’Europa centrale. Inoltre, nei principali paesi dell’Unione l’estrema destra è in ascesa e le attuali coalizioni di governo arrancano.

Questa destra esibisce un’immagine nitida e univoca di cosa è e di che cosa intenda fare, sia per chi desideri affidarvisi, sia per chi la guarda con paura e avversione. Altrettanto non può dirsi dello schieramento che dovrebbe contrastarla e che, secondo una ricetta screditata da innumerevoli fallimenti, cerca quando può di sottrarle argomenti assimilandoli in versione borghese. La sinistra europea mostra un’immagine pallida, stinta, è spaventata dalla sua stessa ombra. Ma soprattutto da quella diffusa diffidenza popolare per l’Europa che il suo stesso fiancheggiamento del dogma liberale non ha fatto altro che alimentare.

Ragion per cui non si può nemmeno immaginare, dopo le arcigne lezioni di austerità subite a maggior gloria della rendita finanziaria, che qualcuno possa esprimere un auspicio, in fondo ragionevole, come «l’Europa deve cambiare l’Italia» governata da una destra postfascista. A conferma del fatto che un antifascismo restio a qualunque critica non insignificante del capitalismo reale è destinato all’impotenza.

Confinati a bordo campo, esibendo qualche striscione ispirato ai principi dell’89, i socialisti restano spettatori della partita che può definitivamente estrometterli. Reggerà o non reggerà la barriera, cosiddetta tagliafuoco, che separa i conservatori dalla destra radicale? Resisterà o meno il «soffitto di cristallo» che sbarra la strada alla destra sciovinista in Francia? Tutto gira intorno alle convenienze del Partito popolare europeo, come testimonia l’indecente opportunismo di Ursula von der Leyen, che senza problemi si rivolgerebbe a destra pur di conservare la sua poltrona di presidente della Commissione.

L’argine verso la destra estrema è ovunque fragile e attraversato da inquietanti crepe. In diversi paesi non proprio irrilevanti come Svezia, Finlandia e Italia, per non parlare dell’Est, formule di governo che poggiano sull’alleanza tra conservatori e destre xenofobe e nazionaliste sono in fiorente attività. I democristiani tedeschi mostrano per il momento solo lievi cedimenti essendo l’Afd ai limiti dell’incostituzionalità. Ma sullo scacchiere europeo le cose potrebbero presentarsi molto diversamente. E siccome le convenienze del Ppe sono anche quelle dei poteri economici dominanti, la domanda da porsi è se questi ultimi possano sentirsi ostacolati dalle fantasie nazionaliste della destra più radicale. Sembrerebbe proprio di no. Il cambio di maggioranza a Bruxelles è dunque una eventualità tutt’altro che remota