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INTERVISTA ALLO "SPITZENKANDIDAT" DEI SOCIALISTI EUROPEI. Von der Leyen e Meloni da Al Sisi? Un altro regime non democratico a cui si offrono soldi, come già in Tunisia. Ma nella strategia non sono inclusi i nostri valori europei e il rispetto dei diritti umani
Nicolas Schmit, foto Ap Nicolas Schmit - Ap

Incoronato il 2 marzo dal congresso del Partito socialista europeo (Pse) a Roma come Spitzenkandidat, ovvero candidato alla guida del prossimo esecutivo comunitario, Nicolas Schmit è esponente di lunga carriera del Partito socialista del Lussemburgo.

Classe 1953, già ministro del lavoro e poi degli Esteri nel Granducato, eurodeputato nel 2019 e da allora Commissario al Lavoro e agli affari sociali in carica.

A lui si devono due importanti provvedimenti dell’Europa sociale: la direttiva sul salario minimo del 2022 e la legge per la tutela dei lavoratori delle piattaforme (la cosiddetta “direttiva rider”), ora in via di approvazione finale.

Incontriamo Schmit nella sede del Parlamento europeo di Bruxelles a margine della due giorni “My Choice, My Voice” dei giovani socialisti europei a cui ha partecipato anche la segretaria Pd Elly Schlein.

Domenica scorsa la presidente della Commissione Ursula von der Leyen era in Egitto per stringere accordi con il presidente Al Sisi. Al suo fianco, come qualche mese fa in Tunisia, la premier Giorgia Meloni. Se l’esternalizzazione delle frontiere è la strategia migratoria messa in campo dall’Ue, è una buona scelta?

Non mi piace il modello: la presidente accompagnata da vari primi ministri, come era già accaduto in Tunisia. Di nuovo un regime non democratico a cui si offrono soldi. Eppure nella strategia non sono inclusi i nostri valori europei e il rispetto dei diritti umani, che dovrebbero essere garantiti a tutti i profughi.

L’Europa si sta precipitosamente armando per arginare la minaccia russa. Ci siamo proprio dimenticati delle possibili soluzioni diplomatiche?

Non penso che stia correndo verso il conflitto. Dobbiamo essere fermamente al fianco di Kiev, altrimenti il rischio di altre guerre si fa molto più alto. Lei parla di diplomazia, ma si può negoziare solo con chi vuole, e non è certo Putin. Il Cremlino vuole un’Ucraina fantoccio della Russia, non è accettabile. Dobbiamo sostenere Kiev anche per la nostra sicurezza, perché se Putin può vincere la guerra non si fermerà all’Ucraina e arriverà ai Balcani, alla Moldavia e non solo. La diplomazia arriverà quando sarà il momento.

Arrivare alla fine del conflitto a Gaza è una necessità. Come facciamo?

Dobbiamo aumentare la pressione su Israele. Questo governo è di estrema destra, anche gli Usa hanno problemi con loro. Netanyahu non ascolta nessuno ma quello che sta succedendo nella Striscia è – parola perfino debole – inaccettabile. Non parliamo più solo dei bombardamenti, ma di persone che muoiono di fame per colpa delle autorità israeliane che bloccano gli aiuti umanitari alla frontiera. Tel Aviv agisce oltre ogni regola internazionale e perfino contro l’interesse del popolo e dello Stato di Israele.

Il Consiglio europeo di questa settimana ha in agenda, anche su spinta del governo Meloni, il tema delle politiche agricole. Come si risolve il rebus: ascoltare le richieste del mondo rurale ma non buttare via il Green Deal?

Gli agricoltori sono le prime vittime del cambiamento climatico. La siccità in Catalogna o in Sicilia, le inondazioni che rovinano i raccolti, i roghi che mangiano ogni cosa sono esempi di come non possiamo contrapporre la transizione ecologica alla sopravvivenza della buona agricoltura europea. I problemi del mondo rurale non possono essere realmente legati al Green Deal, dato che non è ancora stato implementato. Il problema è nei loro guadagni troppo bassi e per superarlo dobbiamo certamente rivedere e mettere a punto alcune politiche europee in materia.

Lei è commissario in carica al lavoro della Commissione Von der Leyen e al tempo stesso candidato per i socialisti. Pensa di dimettersi in vista delle elezioni di giugno?

La decisione è già presa: non lascerò il mio posto ma separerò nettamente l’attività istituzionale da quella elettorale. D’altronde lo stesso vale anche per la presidente della Commissione, che resta in carica anche per evitare che si crei un vuoto di potere a Bruxelles