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IL PORTO DELLE NEBBIE. Dal 2015 la propaganda ha parlato di Toti come “l’uomo del fare”. Anni di fuochi d’artificio, profumi di basilico diffusi nei vicoli, focacce più lunghe del mondo. Anni di sanità svenduta ai privati, di una viabilità grottesca, di infrastrutture assenti e quartieri abbandonati

 

Appena un mese fa, l’11 aprile, l’emittente televisiva regionale più seguita in Liguria, Primocanale, dedicava ampio spazio a una diretta in stile vagamente nordcoreano da Villa Zerbino, dove si svolgeva la grande cena di finanziamento annuale per Giovanni Toti. Presenti seicento persone tra parlamentari, imprenditori, sindaci liguri; un biglietto d’ingresso da 450 euro, grandi lodi al menu, entusiasmo per i numeri che, secondo lo staff della presidenza della Regione, «stanno cambiando la faccia delle principali città e dei porti». Lo stesso presidente parlava di una nuova Liguria, opposta a quella vecchia «del pessimismo, dell’invidia e dell’odio sociale».

Oggi, l’ospite d’onore di quella cena si trova agli arresti domiciliari, e alcuni degli invitati nonché l’editore stesso di Primocanale sono finiti nella stessa maxi inchiesta.
È difficilissimo commentare queste gravi accuse senza pensare ai lunghi anni di una propaganda che dal 2015 ha parlato di Toti come «l’uomo del fare». Anni di fuochi d’artificio, tappeti rossi, luci di Natale, profumi di basilico diffusi nei vicoli, focacce più lunghe del mondo, scivoli gonfiabili. Anni in cui solo poche voci inascoltate hanno parlato di una sanità distrutta e svenduta ai privati, di una viabilità grottesca, di infrastrutture assenti e quartieri abbandonati.

Anni in cui il cosiddetto «Modello Genova», nelle veline diligentemente ripetute, diventava un appello al rilancio delle grandi opere in tutta Italia, mentre passavano sottobanco sponsorizzazioni inopportune, concessioni, autorizzazioni pubbliche, rapporti opachi con la stampa.
Un modello che spendeva con disinvoltura seicentoventicinquemila euro per il Capodanno genovese con Al Bano, Orietta Berti e Fausto Leali, spacciato come un motivo di lustro per la città, o che per esaltare l’elettorato campanilista bruciava mezzo milione di euro per portare un mortaio di pesto gonfiabile lungo il Tamigi.

Le gravi accuse che hanno portato il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Genova a misure coercitive e interdittive dovranno ovviamente passare per i tre gradi di giudizio, ma sono fin d’ora caratterizzate da una modalità piuttosto inconsueta nel Nord Italia. Non sono precedute da avvisi di garanzia e arrivano di colpo, come una bomba, facendo pensare a una situazione molto più grave di quanto non possa apparire a prima vista. Un’inchiesta che coinvolge i vertici non solo politici, perché di fatto offre un ipotetico quadro molto più ampio, nel quale si intrecciano rapporti affaristici e illeciti con imprenditori, stampa e mafie molto potenti nel territorio.

Possiamo già prevedere che, anche se le accuse verranno confermate, la reazione politica confonderà e rimescolerà le acque come suo solito, spingendo metà elettorato a sminuire fatti e dettagli, ribaltando le questioni e buttando la palla in tribuna. Del resto in Italia l’elettorato sembra già da tempo educato alla risposta preconfezionata: lo mostrano i social in queste ore, dove tra i cittadini che hanno eletto l’ultimo governo regionale ligure fioccano solo due tipi di commenti, le solite due difese d’ufficio: «siamo garantisti e vedremo cosa c’è di vero» da una parte, e «la magistratura agisce politicamente», dall’altra.

Resta però il fatto che, davvero, sarà una strana impresa ritrovarci nei prossimi mesi, dopo questa tempesta, a contare i resti di una regione che abbiamo visto riempirsi di supermercati, cemento e spiagge private, giorno dopo giorno, proclama dopo proclama, diventando sempre più a misura di turista invece che di cittadino.
E sarà interessante riprendere in mano con il senno di poi alcune dichiarazioni di Giovanni Toti, come per esempio quella del 7 aprile 2020, in piena pandemia, quando il presidente dichiarava: «Via codice degli appalti, via gare europee, via controlli paesaggistici, via certificati Antimafia, via tutto. Almeno per due anni».

E dovremo dircelo e ricordarcelo, di quell’appello caduto nel vuoto da parte del Siap, il Sindacato italiano appartenenti alle forze di polizia, per istituire con urgenza una Commissione Antimafia in Liguria. Era ancora il 2020, l’anno in cui si tenevano anche le regionali che avrebbero dato il secondo mandato a Giovanni Toti, e il dirigente nazionale del sindacato Roberto Traverso usava parole durissime contro il silenzio su questo argomento in una regione «dove le mafie non sono più solo infiltrate ma bensì fanno parte integralmente del tessuto sociale». La sua conclusione era lapidaria, precisa: «Chi non vede la mafia in Liguria non può meritare di governarla».

*autori della serie di romanzi ambientati a Genova con protagonista il vicequestore Paolo Nigra