Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

TV. Rasa al suolo la Rai3 di Gugliemi, debole (almeno finora) la reazione delle forze progressiste

La destra invade la Rai al grido di una «nuova narrazione» In arrivo i nuovi palinsesti della Rai - foto di Ap

L’«operazione speciale» della destra sulla Rai ha fatto ieri un salto di qualità. Si sono incrociate notizie diverse, ma unite da uno scuro filo conduttore: la presa del potere sulla e nella azienda pubblica da parte del nuovo establishment, guidato da Fratelli d’Italia con gli alleati della maggioranza e con i gruppi dell’universo comunicativo che sentono arrivati i propri quindici minuti di celebrità, dopo gli anni della presunta (molto presunta) egemonia culturale della sinistra.

LA NEPPURE TROPPO DELICATA moral suasion inversa, che ha facilitato l’uscita– con tutte le differenze del caso- di Fabio Fazio, Lucia Annunziata, Maurizio Mannoni, fino all’annuncio di Bianca Berlinguer e la situazione di precarietà di altre e di altri, rientra nel percorso annunciato più volte dall’ex direttore del Tg2 e ora ministro della cultura Gennaro Sangiuliano: il cambio di narrazione. Come se il palinsesto di un’emittente complessa come la Rai fosse assoggettabile ad una bacchetta magica.

Il servizio pubblico, pur con gli svariati difetti che ne hanno accompagnato la storia, ha -comunque- creato una forma di estetica e ha conquistato successi di ascolto non facilmente replicabili se l’ingranaggio venisse rotto con modalità di violenza simbolica. Ed è proprio un caso di scuola la volontà di chiudere l’esperienza della terza rete rinnovata da Angelo Guglielmi e Sandro Curzi, le cui vestigia creative sono state uno dei pochi baluardi della programmazione.

SE IL CAMBIO DI narrazione assomigliasse a quello sperimentato giorni fa al museo Maxxi di Roma dalla conclamata direzione conservatrice del neopresidente Giuli con Sgarbi e Morgan, allora ci sarebbe poco da sperare. Ci si aspetta una reazione forte da parte delle anime progressiste, politiche e sindacali, più di quanto sia avvenuto nelle ore passate, malgrado le prese di posizione coraggiose, a partire dalle dichiarazioni della federazione della stampa, del sindacato interno e del consigliere di amministrazione rappresentante dei lavoratori Riccardo Laganà.

A PROPOSITO DEL CONSIGLIO, va ricordato che ieri la sua maggioranza (con i voti contrari del citato Laganà e l’astensione della esponente del PD Francesca Bria) ha varato il testo del contratto di servizio 2023-2028, che ora viaggerà per l’approvazione definitiva nelle stanze del ministero delle Imprese e del Made in Italy, nonché nell’aula della commissione parlamentare di vigilanza. Stupisce il favore attribuito all’articolato dalla presidente Marinella Soldi, che non pare proprio attenta a perseguire il ruolo di garanzia per cui fu eletta. Infatti, si era espressa con forti preoccupazioni su di un dispositivo assai lacunoso, inzeppato di spunti di cattiva ideologia sulla natalità e la famiglia, oltre ad aprire il vulnus sul giornalismo di inchiesta relegato alle varie ed eventuali. Pure il consigliere espresso dal M5S Alessandro di Majo aveva manifestato un dissenso, a quanto pare poi rientrato.

IL CONTRATTO DI SERVIZIO è un affare complesso, che dovrebbe sfuggire alle sciabolate buone per le campagne elettorali. Andrà esaminato bene, appena il testo sarà disponibile. Tuttavia, è utile ricordare che il documento (ora all’ottava puntata, dopo il primo siglato nel 1994) costituisce l’attuazione operativa della Convenzione che regola i rapporti tra lo Stato e la Rai. Sulla base degli assunti contenuti si inverano senso e missione del servizio pubblico, essenziali per giustificare la legittimità del canone di abbonamento. Non sarà sfuggito che proprio su tale imposta da mesi è in corso un balletto, essendo passata (fin qui) l’ipotesi di svincolarne la riscossione sulla bolletta elettrica.

NON SOLO. QUALE FUTURO prossimo venturo si disegna, per un apparato sballottato ai margini dell’infosfera, e di cui sfuggono le coordinate per rifondarsi come Digital Media Company di servizio pubblico, secondo le parole spese (invano?) dall’attuale ad Roberto Sergio audito dalla sede parlamentare? Non basta la parola. Il prossimo 7 luglio a Napoli verranno presentati i nuovi palinsesti: se ne leggono di cotte e di crude. Pier Silvio Berlusconi pare aver colto la falla che si è aperta nella vecchia blasonata ammiraglia del sistema e -forse- intende scompaginare l’antica dialettica del duopolio. La campagna acquisti è in corso. Una bizzarria: l’indagine Qualitel appena varata dalla apposita direzione con il consorzio specializzato in materia ha attribuito un 8 a quasi tutte le realtà produttive. Già, il merito

Commenta (0 Commenti)

DEFINIZIONI. L'Odg nazionale e quello del Lazio adottano la definizione di antisemitismo dell'Ihra, che colpisce anche chi critica le politiche dello stato israeliano

 Una manifestante israeliana durante una protesta contro il governo Netanyahu - Michele Giorgio

Una guerra di parole contro lo stato di Israele? Fiamma Nierenstein (Il Giornale, 27 giugno) lancia un’accusa assai veemente contro chiunque oggi metta in dubbio la definizione di antisemitismo proposta dall’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance). Definizione recentemente sottoscritta dall’Ordine nazionale dei Giornalisti, e da quello del Lazio in particolare.

Un fatto grave, che ci riguarda tutti come cittadini: una sorta di autocensura preventiva che viola il nostro diritto all’informazione. L’Ihra, fondato nel 1998, è un’organizzazione intergovernativa cui aderiscono 35 stati (quasi tutti quelli europei più Israele, Stati uniti, Canada, Australia e Argentina).

La «definizione operativa» di antisemitismo fu adottata in seduta plenaria a Bucarest nel 2016; secondo il sito dell’Ihra, 38 paesi l’hanno adottata, tra questi anche l’Italia. Sotto la lente dei suoi critici, sempre più numerosi, non sono tanto le pur vaghe due frasi che ne costituiscono il corpo («L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, che può esprimersi come odio verso gli ebrei. Le manifestazioni di antisemitismo sono dirette contro individui ebrei o non e/o contro la loro proprietà, contro le istituzioni e i beni religiosi della comunità ebraica»), ma alcuni degli 11 esempi che sostanziano la definizione, sette dei quali si riferiscono a Israele, e in particolare quelli che equiparano all’antisemitismo la critica del sionismo politico, inteso come ideologia che giustifica il carattere etnico dello stato «ebraico» di Israele e ispira la politica dei suoi governi.

Già dire «Palestina libera», a questa stregua, è antisemita, perché mette in questione l’esistenza di Israele. A parte il fatto che con le nuove centinaia di migliaia di coloni che l’attuale governo promette di insediare nel poco che resta di Cisgiordania, se c’è qualcuno che sta vanificando la soluzione a due Stati non sono certo i palestinesi, a cui non è rimasta letteralmente la terra per averne uno.

Ne ha preso atto anche una delle riviste internazionali più prestigiose, Foreign Affairs, che nel numero di maggio/giugno pubblica un saggio a firma di Michael Barnett, Nathan Brown, Marc Lynch e Shibley Telhami, Israel’s One-State Reality: «Una soluzione a uno stato…esiste già, comunque la si pensi. Tra il Mediterraneo e il Giordano, un solo stato controlla l’entrata e l’uscita delle persone e dei beni, presiede alla sicurezza, e ha il potere di imporre le sue decisioni…a milioni di persone senza il loro consenso».

Ma poi, perché mai auspicare la liberazione di un popolo sarebbe auspicare la distruzione di un altro? Per dirla, ancora una volta, con gli autori di Foreign Affairs, «una realtà a uno stato potrebbe, in linea di principio, basarsi sul principio democratico e uguali diritti di cittadinanza», anche se non è questo lo stato presente.

«Tra l’identità ebraica di Israele e la democrazia liberale, Israele ha scelto la prima. Ha blindato un sistema di supremazia ebraica, dove i non-ebrei sono strutturalmente discriminati o esclusi in uno schema a strati: alcuni non ebrei hanno la maggior parte, ma non tutti, i diritti che hanno gli ebrei, mente la maggioranza dei non ebrei vive in condizioni di grave segregazione, separazione, e soggezione».

Appunto. Se l’Onu e le altre agenzie internazionali hanno prodotto la montagna di risoluzioni che i governi di Israele hanno violato, primo tra tutti il diritto al ritorno dei palestinesi cacciati dalle loro terre, una ragione ci sarà. Una norma universale che valga un po’ sì e un po’ no è ancora una norma? Ma la norma dell’eguaglianza in dignità e diritti, purtroppo, è irrimediabilmente lesa.

Non dal sionismo in generale, dato che tante versioni ce ne sono state, ma certo da quello cui si ispira la Legge dello Stato-nazione, approvata nel 2018 («emblema stesso del sionismo» la definì il portavoce della Knesset), con la sua distinzione tra due categorie di cittadini – quelli che godono, e quelli che non godono, dei diritti «nazionali». Riferendosi alla quale Netanyahu poté affermare che «lo stato di Israele non è lo stato di tutti i suoi cittadini ma del popolo ebraico esclusivamente».

Ecco: ma deve forse esserlo, è nella sua natura discriminare all’interno categorie di cittadini e all’esterno espandere sempre di più l’occupazione illegale di terre non sue? Uno si aspetterebbe che la risposta non antisemita sia: no, certo! Tanto più adesso, quando i coloni compiono pogrom nei villaggi palestinesi e leader al governo si esprimono con linguaggio genocidario e molti israeliani esprimono il loro dissenso dall’attuale governo.

Ma la perversa logica della definizione accusa di antisemitismo proprio la posizione critica, secondo cui la postura identitaria etnica non è l’essenza di Israele, ma riguarda solo le pessime politiche dei suoi governi, e di questo in particolare. E come può un’agenzia di verità come dovrebbe essere la stampa far proprio un simile decreto, fatto per zittire tutte le posizioni critiche, e ledere il nostro diritto all’informazione?

Commenta (0 Commenti)
EDITORIALE. I giochi per il riassetto degli equilibri europei, che saranno sanciti dalle elezioni del 2024, sono ormai aperti nei singoli paesi e a livello continentale. E in Italia si incrociano le spade soprattutto tra gli alleati del governo di destra
 

I giochi per il riassetto degli equilibri europei, che saranno sanciti dalle elezioni del 2004, sono ormai aperti nei singoli paesi e a livello continentale. E in Italia si incrociano le spade soprattutto tra gli alleati del governo di destra. Una competizione che può avere conseguenze non solo sui decibel della propaganda, ma anche sulle scelte concrete. E se Matteo Salvini fa squadra con l’estrema destra di Le Pen e dell’Afd, Giorgia Meloni non ha certo abbandonato al loro destino gli “amici” sovranisti.

La settimana scorsa a Bruxelles la premier, che non aveva esitato a definire «memorabile» l’intesa sui migranti contenuta nella bozza di conclusioni del Consiglio europeo, si è ritrovata subito nei guai. Il capitolo sui migranti è stato espunto dalle conclusioni perché il polacco Morawiecki e l’ungherese Orbán hanno contestato i contenuti e la modalità con cui era stato approvato il Patto sulle migrazioni che prevede il pagamento di 20 mila euro per ogni migrante non ricollocato dai singoli Paesi. E il tentativo di mediazione di Meloni è stato un buco nell’acqua. «Siamo d’accordo nel non essere d’accordo», aveva commentato Morawiecki, augurando buona fortuna alla leader di Fd’I. Il che è suonato come uno sberleffo a suggello della spaccatura del fronte sovranista.

Eppure la stessa Meloni, ieri sul Corriere della Sera, ha ripetuto proprio quella frase per minimizzare l’accaduto nella prospettiva di una alleanza in Europa tra il gruppo dei conservatori europei (Ecr) di cui è presidente e che comprende il Pis di Morawiecki, e il Ppe.

«Nel consiglio ognuno rappresenta gli interessi della propria nazione e ognuno fa bene a difendere i suoi. La posizione di Polonia e Ungheria non cambia nulla nei nostri rapporti» e appunto «siamo d’accordo nel non essere d’accordo su questa questione marginale. Tradotto significa ’è normale che ciascuno faccia il proprio interesse’». In sostanza la presidente del consiglio italiano difende il preminente «interesse nazionale» altrui anche quando questo va contro l’interesse della propria «nazione». Contraddizione apparente, perché il ragionamento corrisponde precisamente all’idea di Europa della leader di Fd’I: l’Europa delle nazioni, cioè dei nazionalismi. Anche a costo di entrare in conflitto con il nazionalismo dei più stretti alleati, ammesso che quello di Bruxelles sia stato il caso o che lo sia stato fino in fondo.

Perché la premier chiarisce anche che secondo lei il Patto migrazione e asilo che pure l’Italia ha votato non è una «soluzione efficace». Per Meloni la «priorità è fermare i flussi illegali prima che partano» e non «gestire gli arrivi». Non a caso parlando di «intesa memorabile» la premier italiana non si riferiva ai ricollocamenti da lei sempre considerati non prioritari, ma alla cosiddetta «dimensione esterna». Quella politica sulle migrazioni che appunto si preoccupa non di accogliere chi arriva in Europa, ma di impedire con ogni mezzo gli arrivi. Una linea ormai prevalente nella Ue e ancor più condivisa in tutto e per tutto dall’attuale governo italiano, la Polonia e l’Ungheria: la «fortezza Europa».

Se davvero spaccatura è stata, venerdì a Bruxelles Meloni troverà il modo di ricucire soprattutto con Morawiecki (con il quale l’alleanza è saldissima anche sul fonte della difesa dell’Ucraina): i due si incontreranno nei prossimi giorni a Varsavia per il seminario dell’Ecr e l’italiana saprà spendersi a sostegno delle rivendicazioni della Polonia (e dell’Ungheria) anche sul fronte dei contributi europei per l’accoglienza dei profughi ucraini e delle procedure d’infrazione aperte dalla Ue. A Varsavia non mancherà l’occasione di duettare su questioni come la “famiglia” (rigorosamente eterosessuale) o i tumulti francesi (tutta colpa dell’immigrazione irregolare…).

Nonostante l’inciampo di Bruxelles l’asse ideologico sovranista resta insomma solido. Malgrado le apparenze non è mai cambiato e mai cambierà. La Giorgia Meloni «mediatrice» prudente dai toni pastello risulta molto poco credibile: tanto più ora che in casa Matteo Salvini ha dato il fischio d’inizio della partita per le Europee 2024 e la sfida apertamente

 
 
Commenta (0 Commenti)

INTERVISTA. Parla Yurii Sheliazenko, leader del Movimento nonviolento a Kiev «Rischio la vita, ma non mi faccio intimidire dai guerrafondai. Putin e Zelensky restano supremi negazionisti della pace e cercano la vittoria sul campo. Manca l’immaginazione nel costruire ponti, quindi li fanno letteralmente saltare»

Pacifista in Ucraina, il mestiere più duro: «Mi chiamano traditore» Yurii Sheliazenko

Lavora come consulente legale freelance, giornalista e scrittore, è stato ricercatore e docente di Diritto alla Krok Univesity, vive a Kiev. Barba e capelli lunghi, sempre un po’ trafelato, è il punto di riferimento in Ucraina del movimento pacifista internazionale. La sua organizzazione nonviolenta fa parte di EBCO/BEOC, l’Ufficio Europeo per l’obiezione di coscienza e della War Resisters International. Tra i suoi progetti, tradurre e diffondere in Ucraina i testi sulla nonviolenza di Gandhi e Capitini.

Yurii, come va? Che vita stai facendo da quando è iniziata la guerra?

Mi chiamano traditore, mi vengono rivolte minacce, rischio la vita, viene fatto pubblicamente il mio nome come nemico. Non mi lascio intimidire da tutto questo. Io mi esprimo contro i guerrafondai, contro tutti coloro che vogliono fare la guerra. La mia casa a Kiev è stata scossa dalle esplosioni di missili russi nelle vicinanze e le sirene dell’allarme aereo mi ricordano, giorno e notte, che la morte vola sopra la testa. Tuttavia, con il nostro movimento aiutiamo i civili a sopravvivere, continuiamo a sostenere l’abolizione del servizio militare obbligatorio, portiamo avanti studi sulla pace e cooperiamo con il movimento internazionale per la pace.

Che succede dopo lo scontro di potere tra Putin e Prigozhin?

Prigozhin non si è indebolito, ha salvato le sue sanguinose fortune, ha consolidato il suo esercito di mercenari e gli è stato permesso di trasferirsi in un luogo considerato sicuro. L’accordo ha aumentato anche il potere di Putin. Egli ha bisogno di eserciti di mercenari per le guerre ombra russe in tutto il mondo, e anche i suoi alleati cinesi potrebbero averne bisogno. Però questa vicenda ha dimostrato che anche due criminali di guerra rivali sono riusciti a negoziare una tregua tra loro e indica che i negoziati sono sempre possibili.

Qual è stato il vero ruolo di Lukashenko, secondo te?

La Bielorussia è una società ancora più militarista rispetto alla Russia. Prigozhin operava già in Bielorussia e questo nuovo accordo significa solo che la Bielorussia diventerà il suo quartier generale formale. Significa anche che Lukashenko ha intenzione di usare il suo esercito privato. La Bielorussia è una sorta di offshore per gli oligarchi di Putin, una giurisdizione nominalmente indipendente in cui è possibile salvare i propri soldi.

Al Vertice di Vienna per la pace in Ucraina, hai attaccato i «negazionisti della pace».

Nemmeno la distruzione della diga di Nova Kakhovka e l’alluvione di dimensioni bibliche hanno convinto Putin e Zelensky a fermare la guerra e a collaborare per salvare le vittime. Entrambi rimangono supremi negazionisti della pace, cercano la vittoria sul campo di battaglia e si rifiutano di prendere in considerazione qualsiasi possibilità di riconciliazione. Manca l’immaginazione nel costruire ponti, e quindi fanno letteralmente saltare i ponti!

A chi dice che la sola alternativa è tra vittoria o resa, cosa rispondi?

Alcuni dicono che è immorale smettere di armare l’Ucraina per l’autodifesa, ma io credo che sia immorale alimentare la guerra con la fornitura di armi. L’unica speranza di uscire dal circolo vizioso è imparare a resistere agli aggressori e ai tiranni senza violenza, senza riprodurre i loro metodi e la loro follia militarista. Putin ha aggredito militarmente, ma noi non possiamo agire come se la difesa nonviolenta e la diplomazia non esistessero.

E ora come evolverà il conflitto?

La continua ecalation tra Russia e Ucraina rende ora impossibile pensare ad un cessate il fuoco. Putin insiste nell’intervento militare per liberare l’Ucraina da un regime fascista che uccide il proprio popolo. Zelensky mobilita l’intera popolazione per combattere l’aggressione e afferma che i russi si comportano come nazisti che colpiscono i civili. I media ucraini e russi usano la propaganda militare per chiamare l’altra parte nazisti o fascisti. Tutti i riferimenti di questo tipo servono a giustificare che si sta combattendo una «guerra giusta»: devi essere ossessionato dall’idea che «noi» dobbiamo combattere e «loro» devono morire.

In Italia ti accuserebbero di non saper distinguere tra aggressore e aggredito.

La guerra di Putin è senza dubbio malvagia, ma durante i sette anni prima dell’invasione russa in Ucraina, sia i russi che gli ucraini hanno violato l’accordo di cessare il fuoco in Donbass, in cui migliaia di persone sono state uccise. La verità è che molti ucraini non sono così innocenti, così come i russi. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e altri paesi dell’Occidente hanno potenziato la Nato che si sta espandendo verso Est. Entrambe le parti corrono il rischio di far scoppiare una guerra nucleare che può portare alla distruzione della vita sul nostro pianeta

Commenta (0 Commenti)

Quinta notte di rivolta francese, sale a 1.300 il numero dei fermi. E la giustizia di Parigi sceglie i processi per direttissima: garanzie ridotte e decine di udienze al giorno. Nel giorno dei funerali di Nahel, Macron cancella il viaggio in Germania e pensa a nuove misure

FRANCIA. Riforma del lavoro, gilet gialli, età pensionabile, violenza della polizia: gli ultimi sei anni, da quando Macron è stato eletto presidente come barriera a Le Pen, la Francia non fa che sollevarsi. E lui si fa scudo con le forze dell'ordine

 Poliziotto delle Bri a Parigi - Ap/Aurelien Morissard

L’antica saggezza orientale prescrive di fare attenzione ai propri desideri perché potrebbero realizzarsi. E il risultato non sarebbe quello aspettato. Dovrebbero ricordarsene, in Italia, i sostenitori del presidenzialismo come soluzione di tutti i mali perché l’esempio francese sta lì, diviso dal nostro Patrio Suolo soltanto dal tunnel del Monte Bianco. E non è un bello spettacolo.

Il presidenzialismo voluto dal generale De Gaulle nel 1958 ha creato quella che gli studiosi di scienza politica chiamano «monarchia repubblicana» perché, in fin dei conti, tutto fa capo al presidente. Non solo la politica estera e quella militare ma sostanzialmente ogni scelta importante, dalle sovvenzioni agli agricoltori fino ai concorsi per le grandi opere pubbliche come la nuova sede della Bibliothèque Nationale voluta a suo tempo da François Mitterrand.

Il primo ministro fa da capo di gabinetto, risolutore dei problemi e all’occorrenza parafulmine per

Commenta (0 Commenti)

COMMENTI. l viceministro Cirielli, senza vergogna, ai giovani di Fd’I: «L’Italia nei suoi cento anni di colonie in Africa ha costruito», perché «abbiamo una cultura civilizzatrice»

L’eterno mito degli italiani brava gente e il falso Piano Mattei L’aviazione, considerata arma privilegiata, durante la guerra in Abissinia, è impiegata per bombardare anche con ordigni all'iprite e gas ustionanti

Disquisendo del ruolo dell’Italia meloniana nel «globo terracqueo» ieri il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, intervenuto alla festa giovanile di Fratelli d’Italia, ha riproposto un grande classico della falsificazione della storia nazionale. «Sia nel periodo pre-fascista sia durante il fascismo – ha detto Cirielli- l’Italia nei suoi cento anni di colonie in Africa ha costruito e realizzato» perché «abbiamo una cultura civilizzatrice». La goffa uscita del vice-ministro non rappresenta soltanto un tentativo, già grave di per sé, di riqualificare le politiche coloniali ed imperialiste dello Stato liberale e del regime fascista ma punta, attraverso l’uso propagandistico del passato, a legittimare le scelte del governo del presente.

IL PRESENTE SAREBBE il cosiddetto «Piano Mattei» propagandato dal governo post-fascista fin dal suo insediamento e strutturato su tre grandi rimossi sia della storia d’Italia sia della stessa vicenda personale del fondatore dell’ENI. Il primo rimosso riguarda una foto simbolo cara a tutto il Paese democratico.

È il 6 maggio 1945 e nella Milano liberata sfilano le formazioni partigiane che hanno sconfitto i nazifascisti guidate alla testa del corteo dai comandanti del Corpo Volontari della Libertà: Mario Argenton, Luigi Longo, Ferruccio Parri, Raffaele Cadorna, Giovan Battista Stucchi ed Enrico Mattei.

Dalla radice storica dell’antifascismo muove, dunque, il primo passo della vicenda umana, politica ed istituzionale dell’allora esponente della Resistenza cattolica e futuro presidente dell’ENI.

Il fondamento della Repubblica, l’antifascismo, che ancora oggi la Presidente del Consiglio Meloni ed il suo partito non riconoscono, come d’altro canto fece il loro «padre» politico Giorgio Almirante che nei giorni della Liberazione, al contrario di Mattei, scappava, travestito da partigiano, dall’uscita secondaria della Prefettura di Milano insieme ai gerarchi di Salò.

IL SECONDO RIMOSSO riguarda l’eredità del fascismo rispetto ai crimini di guerra compiuti in Africa nel corso della nostra «missione civilizzatrice» che alla fine della seconda guerra mondiale, pur meritevole di un processo di Norimberga sulla falsariga di quello celebrato contro i nazisti, venne rappresentata attraverso il falso mito auto-assolutorio degli «italiani brava gente».

Un mito evidentemente ancora caro a Cirielli che «senza vaneggiamenti» ne ha voluto rinverdire i fasti: «l’italiano è da sempre una persona che rispetta il prossimo. Noi non siamo, per natura, gente che va a depredare e a rubare al prossimo». Sarà stato per questa nostra innata bontà d’animo che l’aviazione fascista, nella ricerca del «posto al sole» voluto da Mussolini, scaricò nella sola «battaglia dello Scirè» del febbraio-marzo del 1936 oltre 200 tonnellate di esplosivo, bombe all’iprite e gas asfissianti (vietati dalle leggi internazionali) contro la popolazione civile. Una verità che solo nel 1996 e solo grazie agli studi storici di Angelo Del Boca (che subì per questo il linciaggio mediatico da parte dei noti «liberali» e «maestri di giornalismo» nostrani) venne ufficialmente ammessa dallo Stato italiano. Crimini di guerra sistematici confermati ormai da una mole ingente di documenti che illustrano la campagna di occupazione di Addis Abeba e le stragi di centinaia di migliaia di civili e partigiani etiopi insieme ai massacri ordinati da Rodolfo Graziani gerarca fascista, vicerè d’Etiopia, criminale di guerra e ministro delle Forze Armate dell’esercito collaborazionista di Salò a cui la Regione Lazio, guidata da Renata Polverini, nel 2012 ha costruito un mausoleo nella cittadina di Affile.

PROBABILMENTE per celebrare «la nostra cultura antica» che secondo il viceministro Cirielli di Fd’I «non ci fa essere un popolo di pirati che vanno in giro a depredare il mondo». La stessa cultura che spinse Graziani ad ordinare il 19 febbraio 1937, a seguito di un attacco contro di lui realizzato dalla Resistenza etiope, uno sterminio di massa (14.294 ribelli uccisi e passati per le armi e 50.000 case incendiate) culminato con la strage dei monaci coopti di Debrà Libanòs.

IL TERZO RIMOSSO del Piano Mattei della Meloni è l’autentico Piano Mattei pensato e praticato dal presidente dell’ENI fino al suo assassinio. Un’azione politica, economica e diplomatica interamente proiettata verso l’obiettivo dell’autonomia strategica dell’Italia sul piano energetico. Una scelta che pose Mattei in una condizione di scontro e rottura frontale non solo con gli interessi delle compagnie petrolifere delle «Sette sorelle» anglo-americane ma anche con il sistema delle relazioni internazionali di cui l’Italia faceva ed ancora oggi fa parte: l’Alleanza atlantica.Questo fattore rappresenta il rimosso più evidente e scomodo, e per questo più taciuto, della vera eredità di Mattei. Un lascito che mal si acconcia con la postura ultra-atlantista del governo post-fascista che ne usurpa il nome

Commenta (0 Commenti)