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GENOVA 23 ANNI DOPO. La sconfitta del movimento di Genova ha prodotto il senso della mancanza di futuro e la distruzione della speranza che hanno dato vita ai fascismi postmoderni

Chi ha prodotto i mostri sovranisti La manifestazione per la libertà di movimento dei migranti del 19 luglio 2001 che diede il via ai tre giorni di Genova contro il G8 - Reuter

Circola, in questi giorni torridi del ventiduesimo anniversario del G8 di Genova, una velenosa operazione di revisionismo storico. Recita più o meno così: va bene, all’epoca ci furono gravi violazioni dei diritti umani e violenze contro i manifestanti, ma quel movimento coltivò alcuni tratti perversi dello scenario attuale, le paranoie cospirazioniste, le schizofrenie rossobrune, gli egoismi dei sovranisti.

Questa ricostruzione, portata avanti da firme di giornali di primo piano, è totalmente fuorviante. Ciò che è avvenuto esattamente il contrario. Dalla repressione spietata e dalla sconfitta del movimento (globale) di Genova ha prodotto la frustrazione, il senso della mancanza di futuro e la distruzione della speranza che hanno dato vita al doppio agghiacciante dei movimenti altermondialisti: i fascismi postmoderni.

Negli anni del movimento globale l’incontro tra culture postcoloniali e pensiero critico ci ha consegnato una lezione di metodo sul capitalismo contemporaneo: bisogna rifuggire il tempo lineare e le trappole a due dimensioni, che ci costringono a scegliere solo tra andare avanti o tornare indietro. Criticare lo sviluppo significa costruire un’altra forma della modernità, non illudersi di tornare a un mitico passato. Allo stesso modo, sapevamo bene che criticare le ingiustizie del mercato globale rimpiangendo età auree mai esistite degli stati nazione, equivaleva a ricadere in schemi complottardi quando non esplicitamente reazionari. Lo spazio pubblico di discussione e conflitto era terapeutico, una via di fuga dalle asfissianti congetture delle destre.

Il tema, del resto, è ancora attuale. Tant’è vero che la globalizzazione neoliberista oggi si nutre dei sovranismi, ha bisogno di confini e gerarchie per selezionare e comandare la forza lavoro, per imporre con più ferocia il suo comando. Lo osserviamo quando uno dei suoi organismi principali, il Fondo monetario internazionale, dettando le sue condizioni in Tunisia incrocia l’azione dell’Europa per fermare i migranti. Lo notavamo anche all’epoca: dentro Palazzo Ducale, nella città assediata dai movimenti, assieme agli altri potenti del mondo c’era anche un certo Wladimir Putin

 

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COMMENTI. Con Figliuolo tutto tace. Non piove più, ora incombe la siccità. E la somma destinata dal governo Meloni non copre neanche la metà delle spese previste nella lista di Bonaccini

La Romagna alluvionata dimenticata e senza fondi Le macerie del Ponte della Motta - foto Ansa

Ma dov’è finita la Romagna e la tragica alluvione che ha messo in ginocchio la sua popolazione? Da quando è stato nominato il commissario, il generale Figliuolo, non se ne parla più, non si trova neppure un piccolo trafiletto nelle pagine interne dei giornali, né qualche commento in coda ai telegiornali. Il commissario Figliuolo sembra il classico comandante senza esercito.

L’ultima notizia è che il presidente della regione Bonaccini gli ha consegnato la lunghissima lista dei danni, elaborata dai sindaci delle città colpite, per lo più molte case da rimettere a posto o ricostruire, strade da riparare, argini da rinforzare, casse di espansione in cui laminare le prossime piene, frane da contenere e tanti rimborsi ad agricoltori, allevatori e industrie colpite dalle acque. Da un rapido calcolo i conti però non tornano perché la somma che il governo Meloni ha messo a disposizione di Figliuolo sembra non riesca a coprire neanche la metà delle spese previste in quella lista. A ben guardare non è questo però il problema principale. Ritardi e risorse scarse si sono viste in tutte le ricostruzioni, anzi in alcune fra le più antiche, come quella del terremoto del Belice c’è ancora gente che vive nei container.

É prevedibile quindi che il generale si farà sentire e il governo Meloni troverà altre risorse, così con un po’ di ritardo, la Romagna tornerà quella di prima, un poco inquinata ma fiorente. L’interrogativo che mette ansia è se sarà anche un territorio meno fragile. Ovviamente il governo dirà di si. Questa però è solo propaganda altra cosa è la realtà

Cosa si intende quando si parla di sicurezza, rispetto a cosa la si calcola? Il governo ad esempio esclude

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SCENARI INTERNAZIONALI . L’accordo sul grano tra Mosca, Kiev, l’Onu e la Turchia aveva contribuito a calmierare i prezzi. Ma per l’Onu il 47% dell’export agricolo ucraino è andato a Paesi ad alto reddito
Guerra ucraina e non solo. Ecco come si affama il mondo

Con la guerra viviamo in un mondo sempre più affamato e diseguale. L’accordo sul grano tra Mosca, Kiev, l’Onu e la Turchia aveva contribuito a calmierare i prezzi. Ma secondo l’Onu, il 47% dell’export agricolo ucraino era andato a Paesi ad alto reddito. Come Spagna, Italia e Olanda, il 26% a Paesi “di reddito medio” come Cina e Turchia, solo il 27% a “Paesi poveri” come Egitto, Kenya e Sudan.

C’è il forte sospetto come ha detto ieri al vertice Ue-America Latina il presidente brasiliano Lula da Silva che la guerra in Ucraina «ha aumentato le disuguaglianze e le spese militari e invece di eliminare la povertà e la fame, si sono spesi più di due miliardi per finanziare una macchina di guerra che porta solo morte, distruzione e ancora più fame».

QUELLO DI LULA è più di un sospetto. La crisi del grano per la guerra in Ucraina ci dice tre cose: 1) il conflitto colpisce in particolare i Paesi più poveri 2) la sicurezza alimentare è centrale per la sopravvivenza di interi continenti e rende ancora più importante il summit di Roma del 24 luglio con la partecipazione di 193 Paesi 3) la guerra – ma non solo la guerra – innesca le speculazioni sui prezzi e crea voragini nei bilanci degli Stati più poveri.

È quanto emerge anche dallo “Stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo” (SOFI 2023), il rapporto pubblicato il 12 luglio 2023 e redatto congiuntamente dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), dal Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (IFAD), dal Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), dal Programma Alimentare Mondiale (WFP) e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

IL RAPPORTO RIVELA che nel 2022 la fame ha colpito una media di 735 milioni di persone. Il dato rappresenta un incremento di 122 milioni di persone rispetto al 2019, l’anno precedente la pandemia Covid. Nonostante i progressi compiuti nella lotta alla fame in Asia e in America latina, nel 2022 il fenomeno appariva ancora in crescita nell’Asia occidentale, nei Caraibi e in tutte le sotto-regioni dell’Africa, in primo luogo il Sahel, dove una persona su cinque è afflitta dalla fame, ossia più del doppio della media globale. Poi chiedetevi perché ci sono i migranti nel Mediterraneo.

STANDO AL RAPPORTO, la situazione della sicurezza alimentare e della nutrizione è stata sconfortante nel 2022, con circa il 30% della popolazione mondiale, pari a 2,4 miliardi di persone, che non ha avuto accesso costante al cibo, e circa 900 milioni di persone sono state esposte a insicurezza alimentare grave.

Al contempo, la capacità di accedere a un’alimentazione sana è peggiorata a livello mondiale: nel 2021, il 42% della popolazione del pianeta, ossia oltre 3,1 miliardi di persone, non ha potuto permettersi un’alimentazione sana.

SULLA FAME si specula. Eccome. Il quotidiano panafricano “The Continent” (Sudafrica) rilevava qualche tempo fa che l’Egitto importa la maggior parte del suo grano. Nel 2011 un forte aumento del prezzo del pane fu una delle cause delle proteste che finirono per rovesciare Mubarak. Ad aprile del 2022 l’agenzia egiziana responsabile dell’acquisto di questo cereale ne ha comprate 350mila tonnellate al prezzo di 450 dollari a tonnellata. A febbraio l’aveva pagato 252 dollari a tonnellata. Nell’intervallo tra questi due mesi, la Russia aveva invaso l’Ucraina. I due paesi sono tra i più importanti produttori di cereali al mondo. Guerra e sanzioni implicano che questi prodotti saranno sempre più scarsi.

Ma è davvero così? Altri paesi si sono mossi per colmare il vuoto e ne stanno coltivando di più. Questo significa che sono diversi i fattori che fanno salire il prezzo. Un’indagine del collettivo di giornalisti Lighthouse reports, a cui ha partecipato anche The Continent, ha rivelato che una delle cause principali dell’aumento dei prezzi alimentari è la speculazione sfrenata. A beneficiarne sono alcuni investitori.

Ed ecco il paradosso: la produzione mondiale di cibo è aumentata. Le riserve globali di cereali attuali sono superiori di un terzo rispetto a quanto è necessario per nutrire tutti. E questo nonostante le guerre e i cambiamenti climatici.

UN INDICATORE DI COSA sta succedendo arriva dal mercato del frumento di Parigi, la più grande borsa dei cereali in Europa. Nel 2018 circa un quarto dei contratti alimentari che venivano stipulati erano di natura speculativa. Oggi sono i tre quarti. Questi mercati permettono di vendere la fornitura futura di prodotti alimentari, sono i ben noti “futures”. Consentono agli agricoltori e ai compratori di cereali di proteggersi dai rischi e di rendere le loro entrate stabili. Ma la speculazione oramai raggiunge un livello eccessivo che va oltre la legge della domanda e dell’offerta. E siccome i prezzi di questi contratti sono usati come parametro di riferimento per quelli effettivi del grano, questo influisce sul prezzo del cibo.

LA DOMANDA e l’offerta non sono più i principali arbitri del prezzo ma i fondi alimentari predatori. Sono loro, oltre a Putin, dice Olivier De Schutter, relatore speciale dell’Onu sulla povertà estrema, che “scommettono sulla fame”. I silos sono pieni, vuote le nostre volontà

 

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L'ANALISI. Il caldo è un’invenzione e che la crisi climatica è inesistente, come sostengono i negazionisti? Certo che no, ma mettere l’accento su «Caronte» e altri anticicloni serve a poco.

Sbagliano i negazionisti ma anche i Caronte

Hanno ragione i giornali della destra negazionista climatica: anche cinquant’anni fa d’estate si toccavano i 40° all’ombra. Nell’ultimo secolo la temperatura media del globo è aumentata di poco più di un grado, un decimo ogni decennio cioè quasi nulla su scala umana. Perciò l’abbondanza di servizi e reportage dalle città che soffocano di caldo (con gli immancabili termometri delle farmacie) possono davvero risultare stucchevoli, provocare saturazione e aiutare soprattutto le vendite dei condizionatori.

D’altra parte la mediatizzazione del meteo – cosa diversa dal clima – è un fenomeno reale. L’incredibile progresso delle capacità previsionali ha consentito di trasformare il meteo in uno showbiz. Sui media tradizionali – e soprattutto quelli digitali – si è affermato un sempre più concitato infotainment meteorologico. Lo sanno bene le tv statunitensi che mobilitano telecamere e ore di diretta quando i meteorologi con buona accuratezza segnalano un uragano in arrivo, lì particolarmente frequenti e catastrofici. Significa che il caldo è un’invenzione e che la crisi climatica è inesistente, come sostengono i negazionisti?

Certo che no, ma mettere l’accento su «Caronte» e altri anticicloni serve a poco. Mentre la temperatura globale è cresciuta inesorabilmente ma lentamente, negli ultimi decenni le città si sono trasformate assai più rapidamente in “isole di calore” per colpa di cemento e aria condizionata che aggiungono gradi ulteriori al trend generale (il record a Roma: +3,6 gradi dal 1960, riporta Legambiente nel suo report del 2020 Città sempre più calde). Inoltre, l’invecchiamento ha aumentato la percentuale di popolazione vulnerabile, un fenomeno che ha colpito l’Italia più di altri Paesi e ha fatto segnare qui il record europeo di morti di caldo (diciottomila) nel 2022. Queste sono le emergenze odierne.

I climatologi più seri da tempo sostengono che più che il «riscaldamento globale» occorra sottolineare i cambiamenti climatici. L’aspetto più preoccupante non è infatti quel decimo di grado in più, un numero che sanno interpretare soprattutto gli esperti, ma le sue cause e i suoi effetti. Cioè, la gigantesca quantità di energia assorbita per effetto serra dall’aria e dal mare, con effetti sistemici assai più articolati. Come si impara al liceo, variazioni termiche impercettibili provocano alterazioni macroscopiche nell’evaporazione e nella fusione dell’acqua, nelle correnti oceaniche e negli spostamenti delle masse d’aria. E da questi fenomeni dipendono bazzecole come siccità, alluvioni e disponibilità di acqua dolce.

Il caldo estivo non deve dunque trasformarsi in un’arma di distrazione di massa. Spingere sull’allarme e sulla paura è un utile stratagemma per vendere qualche copia in più e per simulare un’effimera attenzione engagé. Ma può rivelarsi paralizzante e controproducente per la lotta al cambiamento climatico.

Abusare della leva emotiva provoca infatti una veloce assuefazione e si presta a un facile ribaltamento: i media che oggi negano il cambiamento climatico saranno i più lesti a usare la stessa facile retorica quando si presenteranno eventi meteorologici estremi (sempre più frequenti) ma con il segno opposto, alimentando confusione e disinformazione. E ridurre la lotta al cambiamento climatico a un battibecco da talk show sarebbe davvero imperdonabile

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AVEVA 70 ANNI. La scomparsa di Andrea Purgatori, morto ieri a Roma, è stata come un fulmine a ciel sereno. Anziano ma neanche troppo, aveva 70 anni, lo si vedeva settimanalmente nella trasmissione […]

Morto Andrea Purgatori, le sue inchieste da Ustica al caso Orlandi

 

La scomparsa di Andrea Purgatori, morto ieri a Roma, è stata come un fulmine a ciel sereno. Anziano ma neanche troppo, aveva 70 anni, lo si vedeva settimanalmente nella trasmissione Atlantide su La7, in grande spolvero. Anzi, in una seconda giovinezza. Grazie al cronista cresciuto nel Corriere della sera nel lungo e complesso periodo che va dal 1976 al 2000 (quando in via Solferino di Milano accadde di tutto, ivi compresa la loggia P2) e poi sceneggiatore, scrittore, conduttore televisivo e persino attore, si sono rotti diversi muri di omertà e svelati segreti indicibili.

Quanti esempi virtuosi: la trasmissione di Purgatori contribuì a riaprire il caso dell’uccisione di Pier Paolo Pasolini, o quello di Emanuela Orlandi diventato una serie su Netflix; oppure, e qui siamo davanti ad un gioiello da studiare nelle scuole, l’omicidio di Mino Pecorelli a suo tempo derubricato a brutale regolamento di conti, mentre un’analisi puntigliosa lo inquadrava in un contesto che toccava Giulio Andreotti, il rapimento e la fine di Aldo Moro, fino all’enigmatico trapasso di Giovanni Paolo I° avvenuto poco dopo l’invio in Vaticano di una lettera compromettente per le alte gerarchie.

Insomma, siamo al cospetto di un giornalismo carico di deontologia (la verità è un obbligo per chi racconta) e -insieme- di passione.
Un maestro ci lascia in un momento infelice per l’informazione, attraversata da editori impuri e attacchi all’arma bianca di una destra bulimica, e fondata su un precariato dilagante esposto alla crudele moda delle querele temerarie.

Purgatori ha indagato su questioni drammatiche e a lungo irrisolte: da Ustica (sua la sceneggiatura del film «Il muro di gomma»), all’esecuzione del giovane giudice Livatino («Il giudice ragazzino»), al rapimento da parte della Cia con la complicità di settori dei servizi segreti italiani di Abu Omar, alla camorra di Fortapàsc, all’epopea criminale di Renato Vallanzasca.

A guardare la biografia non si finisce mai di stupirsi per la varietà di un lavoro che ha sconfinato con notevole brillantezza nel cinema, nella scrittura di libri, nella partecipazione ironica ed efficace alle finzioni di Corrado Guzzanti o di Carlo Verdone o della serie di culto Boris.

È stato pure organizzatore culturale, contribuendo alla nascita dell’associazione 100Autori. Inoltre, ha fatto parte dell’Accademia del cinema italiano e dell’omologa europea, della Siae. Ha presieduto le Giornate degli Autori connesse alla Biennale di Venezia. Ha diretto dal 2014 al 2020 Greenpeace Italia, con un impegno civile rilevante e riconosciuto.

Emerge un filo rosso inequivoco, vale a dire l’incessante desiderio di servire lettrici e lettori, spettatrici e spettatori non attraverso il ricorso ad espedienti da brutto avanspettacolo -come, purtroppo, si usa in certi talk-, bensì con un giornalismo di precisione.

La cifra (e l’eredità difficile) che ci lascia Purgatori sta proprio qui: non si improvvisa, si studia, si approfondisce, ci si espone protetti dalla attendibilità e dalla propria coscienza.

Abbiamo conosciuto una persona gentile e generosa, disponibile a partecipare sempre a incontri e dibattiti, pur se non blasonati o di immediato successo. La qualità professionale ne ha sempre connotato l’attività, spesso in viaggio nelle zone di confine dove va compresa la differenza tra il segreto di stato intangibile (un’eccezione) e l’apertura – invece- degli armadi chiusi dei poteri innominabili. E lì il pericolo corre sul filo, perché la libertà di cronaca è insidiata dall’ondata di regime che percorre il quadro politico e istituzionale.

Seguire l’esempio di Purgatori è, oggi, una scelta di campo, secondo la quale non ci si arrende ai richiami autoritari e ai pensieri unici. Lo spirito critico è essenziale per preservare i principi democratici.

Il destino ci ha privato troppo presto di una grande figura, il cui valore si coglierà nella sua assenza

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Arrestato ancora, condannato a tre anni, portato via davanti a madre e fidanzata: Patrick Zaki torna in carcere, l’Egitto di Al Sisi ora ha un ostaggio. Significa basta con Regeni, facciamo business con Eni, Leonardo e Fincantieri, se un ministro verrà al Cairo gli racconteremo altre balle

ITALIA-EGITTO. La condanna a tre anni dello studente egiziano, ostaggio di al Sisi, uno schiaffo al governo italiano che ha continuato a fare affari con il suo regime

Zaki nelle mani del «nostro» Al Sisi Il ministro degli Esteri Tajani con il suo omologo egiziano Shoukri al Cairo lo scorso gennaio - Ap

I regimi fanno il loro mestiere, i dittatori anche, la democrazia italiana con i suoi improbabili governanti appare invece alquanto inefficace. Quasi un caso psicanalitico. Dalla tragica vicenda di Giulio Regeni, torturato e ucciso dai poliziotti egiziani, a quello di Patrick Zaki, in Egitto, l’Italia non riesce a trovare giustizia. «Il nostro impegno per una soluzione positiva del caso di Patrick Zaki non è mai cessato, continua, abbiamo ancora fiducia», ha dichiarato la premier Giorgia Meloni.

Fatto sta che questo governo – come quelli precedenti – ha fatto un buco nell’acqua, al punto che Zaki, dopo i 22 mesi che ha già scontato, dovrà ancora passare 14 mesi di carcere. Hai voglia ad avere fiducia. La sorte di Zaki è nelle mani dei legali e soprattutto di Al Sisi che può decidere uno sconto di pena o la grazia.

Con buona pace per la preziosa laurea conseguita da Zaki a Bologna, gli articoli di giornale, le interviste e un’esposizione mediatica importante per difenderlo. Perché come ci ricorda spesso Amnesty International, Zaki è imputato in un paese nel quale essere sul banco degli accusati vuol dire essere condannato. In Egitto la giustizia è uno strumento del sistema repressivo dominante, che azzera il dissenso politico, le voci indipendenti degli attivisti dei diritti umani, e dove le sparizioni sono all’ordine del giorno come la tortura. Occorrerebbe una vera diplomazia, ma la diplomazia del nostro governo attuale, così subalterna agli

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