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MELONOMIC. L’ottimismo distribuito in questo ultimi mesi a piene mani, governo Meloni in testa, sulla rapidità della ripresa dell’economia italiana, ha subito una prima autorevole smentita con l’uscita del nuovo bollettino economico

Bankitalia smonta l’ottimismo del governo

L’ottimismo distribuito in questo ultimi mesi a piene mani, governo Meloni in testa, sulla rapidità della ripresa dell’economia italiana, ha subito una prima autorevole smentita con l’uscita del nuovo bollettino economico di Bankitalia. La presunta lepre dell’economia europea – così gli apologeti l’avevano definita – non si è ancora trasformata in un bradipo, ma certamente la sua corsa appare azzoppata.

Bankitalia ridimensiona le previsioni di crescita del nostro Pil portandole per l’anno in corso a +1,3%, a +0,9% per il 2024 e a 1,0% per il 2025. Non vi sarebbe da stupirsi per chi avesse seguito l’andamento della produzione manifatturiera del nostro paese che, oltre che evidenziare gli irrisolti problemi strutturali, qualitativi e dimensionali, ha risentito di un quadro internazionale ed europeo tutt’altro che favorevole. Dato il livello di integrazione del nostro settore produttivo con le maggiori economie europee era difficile aspettarsi un quadro differente. Se la Germania entra in recessione tecnica le conseguenze per la produzione industriale italiana non tardano a farsi sentire.

È vero, c’è stata la terribile esondazione delle acque in Emilia Romagna, una delle regioni più legate all’economia d’oltralpe tanto da potere essere considerata un’articolazione del sistema economico produttivo tedesco. Tuttavia, come osservano gli estensori del Bollettino, la produzione manifatturiera delle zone direttamente colpite dall’alluvione incide in modo relativamente contenuto su quella nazionale. Quindi sarebbe deviante considerare quel disastro ecologico come una delle cause determinanti del calo della produzione manifatturiera italiana.

Gli analisti di Bankitalia vedono una seconda causa della frenata della ripresa italiana nell’andamento meno brillante dei consumi rispetto all’attesa.

Anche qui, nessuno stupore se solo si pensa che le retribuzioni in due anni sono diminuite del 15% causa inflazione. Secondo Confcommercio nel bimestre aprile-maggio l’indicatore dei consumi non segna variazioni quantitative, quanto nella loro composizione. È cresciuta la spesa per servizi, mentre è diminuita quella per l’acquisto di beni. Il che trova un riscontro anche nei dati sull’occupazione, ove l’elemento di crescita, o meglio del recupero rispetto ai livelli pre-pandemici, porta marcatamente il segno del lavoro precario e dei contratti atipici. Tanto più, alla luce di questi dati, appare odiosamente di classe la decisione delle destre di affossare con un emendamento interamente soppressivo la proposta presentata dalle sinistre parlamentari sul salario minimo orario di nove euro. Una sorta di “guai ai vinti” che meriterebbe un’adeguata risposta a livello di lotta sociale.

Sull’inflazione i dati che Bankitalia ci fornisce sono quelli di 6% medio per quest’anno, con una previsione di diminuzione fino al 2,3% nell’anno successivo, per raggiungere il mitico 2% nel 2025. La curva discendente sarebbe garantita dal ribasso dei prezzi delle materie prime energetiche. E su questo è lecito elevare più di un dubbio. Non solo perché qualunque riferimento al quadro internazionale deve fare i conti con l’andamento, in intensità e durata, della guerra russo-ucraina, ma anche sulla considerazione, confortata dai dati empirici, che i costi energetici sono da noi assai vischiosi, ovvero alla loro discesa non corrisponde un automatico abbassamento dei prezzi. Sia perché il superprofitto è sempre cosa ambita, sia perché chi controlla i prezzi vuole immagazzinare anticipatamente negli stessi gli eventuali aumenti salariali. Anche quando questi non ci sono. Infatti gli unici sommovimenti in campo salariale potrebbero derivare nella seconda metà dell’anno – afferma la stessa Bankitalia – dall’erogazione di aumenti previsti nelle clausole di indicizzazione presenti in alcuni accordi nazionali per una quota più che contenuta di lavoratori. I contratti appena conclusi, come quello assai sofferto della scuola – con la non firma della Uil – riguardano addirittura un triennio del tutto trascorso (2019-2021). Parlare quindi di imprevedibilità della dinamica salariale a giustificazione del non abbassamento dei prezzi è una offesa al buon senso.

In effetti il comunicato che sintetizza i contenuti del Bollettino economico termina con l’assicurazione, evidentemente rivolta al mondo imprenditoriale, sul carattere del tutto aleatorio del rischio di una rincorsa tra prezzi e salari, D’altro canto anche il Fondo monetario internazionale considera come causa assolutamente determinante la poderosa crescita dei profitti, protagonisti di una corsa con pochi precedenti, qui sì da lepri, in un mondo squassato dalla pandemia e poi dalla guerra, senza soluzione di continuità. Il fallimento della Melonomics è quindi squadernato e con esso si chiarisce per l’ennesima volta che l’economia di guerra fa bene solo ai profitti

 

 

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NUOVO PD E RECALCATI. Lo psicanalista dalle pagine dalla Stampa definisce “massimalisti” coloro che ancora si rifanno all’ eredità costituzionale, mentre definisce “riformisti” coloro che da tempo hanno imboccato la strada “controriformistica” incostituzionale sancita dal job act

 

La vera doppia anima è tra Costituzione e neoliberismo

 

In un recente articolo su “La Stampa” Massimo Recalcati scrive, a proposito del PD, dell’inconciliabilità fra “riformismo” e “massimalismo”, accusando di strabismo e psicosi Elly Schlein per voler tenere assieme queste due anime.

Ma il discorso dello psicoanalista muove da un depistaggio linguistico e cognitivo che peraltro lo allinea con il senso comune mediatico da tempo diffuso. Infatti è chiaro che quando parla di “riformisti” si riferisce a coloro che da anni sostengono che per affrontare i problemi sociali del nostro tempo non metta conto di criticare né il capitalismo né la sua forma neo-liberista, bensì piuttosto di governare la globalizzazione procedendo nelle riforme utili a meglio cavalcarla: e cioè tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni, passaggio dal welfare al workfare, incentivi alle imprese, flessibilità, innovazione e promozione del merito e dell’eccellenza.

Nel nuovo millennio si è iniziato tossicamente ad utilizzare la parola riformismo per indicare questi orientamenti che, dal punto di vista della tradizione storica riformista – che evidentemente Recalcati evoca quando la contrappone al massimalismo – erano da derubricarsi come controriforme.

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Schlein porta il Pd a Ventotene «per svelare le bugie della destra»

Il riformismo, infatti, contrapposto al massimalismo, da Filippo Turati fino alle riforme di struttura di Riccardo Lombardi, si riferiva all’idea di una trasformazione del capitalismo attraverso un metodo graduale e democratico, nella direzione di un equilibrio di forze fra capitale e lavoro, tale da limitare le diseguaglianze e garantire a tutti i soggetti dignità e benessere. Il massimalismo si distingueva dal riformismo non per una differenza di valori, bensì per l’idea che fosse necessaria una rottura radicale per conseguire quel risultato, da spingere fino a un effettivo superamento del sistema capitalistico. Riformisti e massimalisti si ritrovarono assieme nell’antifascismo, nella resistenza e poi nella costituente.

La Costituzione repubblicana è il frutto del compromesso fra riformisti di stampo radical-democratico, cristiano-sociale e socialista e massimalisti social-comunisti (anche se Togliatti non avrebbe accettato la qualifica) che, con la resistenza dei settori liberali puri, ormai minoritari, scrissero una costituzione che, oltre al rispetto e alla promozione di tutte le libertà civili e del pluralismo politico, sostiene la necessità dell’intervento dello stato nell’economia e nella società, la progressività fiscale, la possibilità di esproprio salvo indennizzo per motivi di utilità pubblica, la centralità del lavoro (e non del capitale e dell’impresa), il ripudio della guerra che non sia per la difesa della patria. Questo perché il fascismo era stato appunto protagonista della repressione violenta dell’autonomia popolare che, a cavallo della Grande Guerra, spingeva in avanti i processi di democratizzazione del paese.

Recalcati, invece, definisce “massimalisti” coloro che ancora si rifanno, in modo più o meno adeguato, all’ eredità costituzionale, mentre definisce “riformisti” coloro che da tempo hanno imboccato la strada “controriformistica” incostituzionale sancita infine dal job act e dalla costituzionalizzazione del pareggio del bilancio, per fare solo due esempi eclatanti.

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Se quelli che Recalcati chiama ”massimalisti” sono dunque coloro che dentro il PD hanno sia pur flebilmente mantenuto, o stanno recuperando, il richiamo al vero riformismo, alla costituzione e all’antifascismo, i massimalisti sono ormai in Italia fuori dal gioco politico, o interni alle piccole formazioni a sinistra del PD. Per trovare del massimalismo all’opera con una qualche incidenza politica bisogna guardare fuori dai confini nazionali, ad esempio in quelle repubbliche curde minacciate dall’alleato turco della Nato.

Il vero dramma del PD e dell’opposizione (compresa quella dei cinque stelle) non è la divisione fra “riformisti” e “massimalisti”, come dice Recalcati, bensì fra chi ha mantenuto l’ancoraggio alla costituzione repubblicana e chi invece da tempo ha abbracciato il riformismo neoliberista (ovvero il controriformismo) oggi peraltro al governo (nella versione neoconservatrice) senza più alcun contrappeso e pudore.

Questa è la vera inconciliabilità che passa dentro i due principali partiti del centrosinistra (anzi, per rubare il mestiere a Recalcati, spesso dentro i singoli dirigenti e militanti) ma anche nel campo largo, dato che il terzo Polo, va ovviamente classificato come un attore della grande rivoluzione passiva neoliberale (nella versione, seppur blandamente, liberal-progressista)

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CRISI UCRAINA. Titolo del Nyt ieri: «L’unità nella Nato è diventata più difficile da sostenere». E su cosa? Ammettere l’Ucraina ora, come vogliono polacchi e baltici, significa «entrare in guerra con la Russia»

I problemi «a grappolo» del vertice Nato di Vilnius Cluster bomb - foto Ansa

Al vertice Nato di Vilnius problemi a grappolo, come le «cluster bomb» che gli Usa intendono fornire a Kiev contro il parere dei più importanti membri dell’Alleanza, tra cui l’Italia, che hanno aderito, insieme a oltre 100 stati, alla convezione di Oslo per bandirle. Il primo caso è l’ingresso dell’Ucraina, esplicitamente rinviato dal presidente americano Biden a dopo la fine della guerra. Ci sarà probabilmente l’abbandono del requisito del Piano d’Azione per l’Adesione (Membership Action Plan, Map) per facilitare la candidatura dell’Ucraina, un contentino.

Ma incombe pure l’adesione della Svezia, appesa al veto della Turchia: Erdogan non perde l’occasione per alzare la posta e legare l’ingresso di Stoccolma a quello della Turchia nell’Unione europea congelato dal 2005 per la violazione dei diritti umani e l’occupazione militare turca di Cipro Nord: «La maggior parte dei 31 membri della Nato – dichiara – lo sono anche dell’Unione, quindi vogliamo anche noi la porta aperta per Bruxelles».

Erdogan, rieletto per la terza volta alla presidenza ma al ballottaggio, alza la posta perché la politica estera è il suo punto di forza (sull’economia ha dovuto fare marcia indietro alzando i tassi di interesse). All’Ue chiede più soldi per tenersi in casa i profughi siriani e passaporti per i cittadini turchi, a Biden, che incontra in un bilaterale a Vilnius, la fornitura di caccia F-16 e il via libera a massacrare i curdi a piacimento. In cambio offre la sua mediazione per rinnovare l’accordo Russia-Ucraina sull’estensione della Black Sea Grain Initiative, che scade il 17 luglio, da cui dipendono con l’export nel Mar Nero del grano e dei fertilizzanti, il 12% delle calorie mondiali. Dalla sua ha la garanzia dei colloqui con Zelesnki e la diplomazia «telefonica» con Putin, che tra un mese andrà in Turchia a incontrare il “reiss” del fianco sud-orientale della Nato.

La Nato è un’alleanza militare difensiva – nei principi anche se assolutamente non nei fatti – che si è progressivamente sovrapposta all’Ue, la quale non solo ha mancato di elaborare una politica estera e di difesa comune, come prefigurava già il Manifesto di Ventotene del 1944, ma che con l’allargamento a Est della Nato ha anteposto gli obiettivi economici e di cassa (in particolare della Germania) a quelli politici ed etici. Non solo: ha lasciato che l’allargamento a Est della Nato si sovrapponesse a quello dell‘Unione e alla fine la superasse. E ora i nodi, a grappolo appunto, vengono al pettine: dalla Turchia all’Ucraina, ai bilanci sulle spese militari commisurati all’obiettivo del 2% del Pil (bilanci sempre più rigonfi a scapito degli investimenti sociali), alla stessa guida della Nato dove il mandato del norvegese Stoltenberg è stato prorogato di un anno per evitare tensioni, mentre si rincorrono le voci di una futura candidatura della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, ovvero di una tedesca, eventualità ritenuta dalla Gran Bretagna un «insulto» al patto d’acciaio tra Londra e Washington che non appare più inossidabile come un tempo, nonostante l’incontro di ieri tra Biden e re Carlo nella pompa degli onori militari di Windsor.

Questo vertice di Vilnius appare anche l’anticamera alla Nato «asiatica» temuta dalla Cina (dove è appena terminata la visita della Yellen). La Nato che si era già schierata in Afghanistan per vent’anni dove il disastroso ritiro americano dell’agosto 2021 aveva discreditato la stessa Alleanza (parole del generale Giorgio Battisti nel suo libro Fuga da Kabul, adesso rilancia puntando al quadrante asiatico. A questo vertice di Vilnius partecipano i leader di Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Giappone.

Non sono in pochi a ritenere che la Nato stia cercando di espandersi nella regione indo-pacifica dove ribolle la questione Taiwan. La partecipazione di questi Paesi a Vilnius non è certo un semplice invito di cortesia ma – come sottolineava Lamperti su il manifesto del 9 giugno scorso – il tentativo di approfondire una cooperazione che ha preso lo slancio con la guerra in Ucraina. Un processo che preoccupa la Cina, che si è più volte scagliata contro la creazione di una «Nato asiatica». Prima della guerra ucraina, nel mirino di Pechino c’erano soprattutto il Quad (la piattaforma di sicurezza che comprende Usa, Australia, Giappone e India) e Aukus, il patto di sicurezza tra Usa, Regno unito e Australia che prevede il dispiegamento di sottomarini nucleari nel Pacifico.

Ma anche qui ci sono problemi a grappolo. Non tutti sono d’accordo con l’allargamento all’indo-pacifico. Tra questi non c’è solo la Cina, ma anche alcuni paesi membri come la Francia. Già scottata dall’accordo Aukus che le è costato un ingente cifra di sottomarini da inviare in Australia, Parigi considera un «grande errore» la possibile apertura dell’ufficio in Giappone, per la quale c’è bisogno dell’unanimità al Consiglio Nato.

Alla resa dei conti di questo vertice lituano c’è la sostanza, che il titolo del New York Times di ieri che sintetizzava con chiarezza: «L’unità nella Nato è diventata più difficile da sostenere». E su cosa? Sul semplice e brutale fatto che ammettere ora nella Nato l’Ucraina, come vorrebbero polacchi e baltici, significa «entrare in guerra con la Russia». Forse sull’allargamento Nato ai confini della Russia bisognava pensarci prima: il diplomatico americano George Kennan nel 1997 lo definì l’«errore più fatale della politica americana dopo la fine della guerra fredda»

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COMMENTI. Sulla Lectio magistralis del Presidente Mattarella non emerge il diktat al mondo di quell’11 settembre, né la lezione di civiltà del personale dell’ambasciata d’Italia a Santiago

Le ambiguità della memoria sul golpe dell’11 settembre 1973 a Santiago Santiago, Mattarella depone una rosa per le vittime della dittatura in Argentina - foto Ap

Gli articoli di giornale e i lanci delle agenzie del 6 luglio scorso, con cui si riferisce sulla Lectio magistralis del Presidente Mattarella in Cile, aprono con l’affermazione secondo cui «anche un politico ligio e attento come Aldo Moro violò la prassi. E da ministro degli Esteri autorizzò per iscritto l’ambasciata italiana a Santiago ad accogliere gli esuli cileni che cercavano rifugio dalla dittatura di Augusto Pinochet».

Difficile, per chi ha respirato la speranza di cambiamento di quegli anni, non ricordare la frenesia e la tragicità della mattina dell’11 settembre 1973 a Santiago: i carri armati nelle strade, l’aviazione che bombarda il Palazzo della Moneda, lo sbaragliamento di qualunque disorganizzato tentativo di resistenza popolare, la caccia all’uomo, i detenuti trascinati a forza nello stadio dove saranno in gran parte torturati e uccisi, la ricerca affannosa di una via di fuga da parte di coloro che durante il governo di Unidad Popular avevano partecipato alla vita politica, sindacale, culturale. Tutto sotto l’occhio impietoso della televisione, utilizzato ad arte come moltiplicatore della decisione a schiacciare la volontà del popolo cileno con l’uso della forza e del terrore.

Facile immaginare – in quell’Italia che tanto somigliava politicamente al Cile, con un Pci in crescita che appariva destinato a entrare in area di governo – l’accavallarsi delle telefonate tra i soggetti politici, quelli della sinistra in primo luogo ma anche con la Dc e poi, soprattutto, le chiamate, le visite, i contatti informalmente esplicativi tra l’ambasciata Usa e la Farnesina.

Tutto questo, mentre anche l’ambasciata d’Italia era presa d’assalto, come tutte le altre a Santiago, da un’alluvione di disperati in fuga per la vita. E cosa avrebbero mai dovuto fare i nostri funzionari in quei momenti, davanti alla propria coscienza, al proprio senso dello Stato, all’opinione pubblica italiana di quegli anni, se non spalancare i cancelli, agevolare l’entrata, aiutare a salvarsi quanta più gente possibile, anche, è importante ricordarlo, mettendo in certe occasioni a rischio la propria vita?

La frase riportata all’inizio degli articoli e dei lanci di agenzia, alquanto infelice, in verità, sembra in fin dei conti evidenziare come, oscillando tra la montante pressione dell’opinione pubblica italiana, l’incalzare degli eventi e la cosiddetta solidarietà occidentale, non senza tentennamenti, la Farnesina abbia dovuto legittimare il fatto compiuto, pur consapevole delle turbative che ne sarebbero derivate nei rapporti bilaterali con i golpisti cileni e i dissapori con la superpotenza a monte.

Da quel momento, tuttavia, il non detto della politica italiana verso il Cile deve essere stato uno solo: agire per così dire di sponda, fare in modo da poter cambiare rotta, ricucire lo strappo salvando le apparenze, esibire mediaticamente sdegno e allo stesso tempo far capire che lo si faceva non senza rammarico…in una parola, tendere verso una normalizzazione strisciante con il macellaio di Santiago, il generale Pinochet, che era pur sempre, scusate la franchezza, «il nostro figlio di puttana».

Così è stato, anche se ci sono voluti mesi e mesi, sostituzioni, partenze, una sapiente opera di dosaggio e diluizione del nucleo di personale originariamente in servizio quell’11 settembre a Santiago, nella disgiuntiva in cui veniva uccisa la speranza di un nuovo umanesimo nel mondo occidentale. Con una brutalità spinta al massimo, in quanto strumento indispensabile per piegare un popolo libero ad accettare il neoliberismo, come sarebbe poi stato fatto anche in Argentina. Perché, diciamocelo, il neoliberismo era, ed è, brutalità, economica in primis, ma non solo, radicalmente incompatibile con la normativa a tutela dei diritti umani, che pure all’epoca era la bandiera ideologica del mondo occidentale.

Ci vorrà oltre un anno, prima che il giro di boa possa venir completato. L’accordo verrà raggiunto nel dicembre 1974: i rifugiati verranno accolti in Italia; l’ambasciata alzerà il muro e vi installerà la concertina; i militari cileni aumenteranno la sorveglianza esterna; l’ultima porta verrà garbatamente chiusa a Santiago. E i rapporti diplomatici bilaterali verranno gestiti senza pena e senza gloria a livello d’Incaricatura d’Affari, in attesa di tempi migliori.

Gli articoli di giornale e i lanci d’agenzia sulla Lectio magistralis del Presidente Mattarella non sembrano dare compiutamente atto alla complessità del passaggio nodale imposto alla storia dell’umanità quell’11 settembre, così come sorvola sulla lezione di civiltà silenziosamente e spontaneamente impartita dal sommerso personale dell’ambasciata d’Italia a Santiago in quei momenti, che nulla ha chiesto e nulla ha avuto, tranne l’enorme privilegio di salvare vite umane.

Va tuttavia detto che la fine del testi giornalistici contiene un riferimento storicamente, a mio avviso, importante, nel riconoscere che quello di Allende fu un nobile, nobilissimo suicidio, che lo pone all’altezza degli eroi shakespeariani della Roma antica: con l‘unico fine di non permettere che la persona del Presidente democraticamente eletto dal popolo cileno finisse nelle mani macchiate di sangue del tiranno made in Usa.

* Ex diplomatico italiano, è stato console a Buenos Aires negli anni ’70 del secolo scorso. Nel settembre del 1974, poco dopo il primo anniversario del golpe di Pinochet, veniva inviato in missione per tre mesi presso l’ambasciata d’Italia a Santiago, che all’epoca ospitava 250 rifugiati cileni.
Rientrato presso il Consolato a Buenos Aires, assisteva al montare della violenza che sarebbe sfociato, il 24 marzo del ’76, nel sanguinoso golpe di Videla. Lasciava l’Argentina nel maggio del 1977

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Il generale Figliuolo nominato dal governo commissario per la ricostruzione. Scelta centralistica e d’emergenza minimizzando il ruolo del cambiamento climatico

Per una nuova Romagna un uomo solo al comando non basta Conselice, Romagna, 25 maggio - Giuditta Pellegrini

Con colpevole e ingiustificato ritardo il governo ha nominato il generale Figliuolo commissario per gestire la ricostruzione della Emilia Romagna, anzi di un’area ben più vasta ora che si sono aggiunte anche Marche e Toscana. Non voglio polemizzare né con chi è stato chiamato a ricoprire questo incarico gravoso, né con i presidenti delle tre regioni che lo affiancheranno. Ciò che non convince è il carattere centralistico della scelta e soprattutto il ricorso a una figura istituzionale tipica dell’intervento straordinario.
Da quanto si capisce per ora dispone di pochi soldi, poca conoscenza dei territori in cui dovrà operare e soprattutto non è chiaro come spenderà le limitate risorse di cui dispone.

Colpiscono negativamente due aspetti: il clima culturale in cui è maturata la decisione e l’evidente assenza di priorità. Per quanto riguarda l’impianto culturale è prevalso il tentativo di minimizzare il rapporto fra il cambiamento climatico in corso e ciò che è accaduto. Anzi la connessione fra le due cose è di fatto ignorata e si preferisce mettere le e gli ambientalisti al centro dell’attenzione, non per le loro idee e progetti, ma per essere proprio con i loro continui no la causa di tutti i disastri che stanno colpendo questo nostro paese, soprattutto quelli climatici. I no più gettonati sono quelli di aver impedito di scavare l’alveo dei fiumi, ostacolato la cementificazione dei loro argini e infine di essersi opposti allo sterminio delle nutrie che, con le loro innumerevoli tane, rendono gli argini fragili e facilmente aggredibili da una piena.

Si distinguono in questa opera di denuncia noti negazionisti del cambio climatico, spesso gli stessi che attaccarono l’obbligo di vaccinarsi contro il Covid. La rozzezza degli argomenti e di chi li scrive non merita una replica. Più meritevole di attenzione è Il Foglio di qualche giorno fa con l’intervista di Gianluca De Rosa allo scrittore Maurizio Maggiani. Andrebbe ricordato agli sprovveduti ecologisti, sostiene l’intervistato, che se si avverasse la loro invocazione di un salvifico ritorno alla natura non significherebbe più sicurezza per la popolazione, ma solo tornare alla vita grama di un tempo non lontano, con un delta del Po esteso da Venezia a Rimini, e con la sommersione con acqua paludosa e malsana delle tante terre che furono bonificate grazie al genio e alla fatica degli “scarriolanti” per renderle non solo coltivabili, ma soprattutto edificabili. La conclusione a cui arriva Maggiani è la stessa a cui giungono le e gli ambientalisti: non bisogna ricostruire la Romagna che c’era, ma inventarne una nuova. Il punto è proprio questo.

La recente alluvione mette di fronte a una scelta molto drastica: o la nuova Romagna, o più in generale un nuovo paese, viene disegnato e realizzato da noi umani, o lo farà il cambiamento climatico e allora non sarà molto diverso da quello descritto nel bel libro di Telmo Pievani e Mauro Varotto “Viaggio nell’Italia dell’Antropocene”. Nel libro, con dovizia di particolari, viene proposta la geografia del nostro futuro se si continuerà a non far nulla per fermare la corsa del cambiamento climatico.

Infine la questione delle priorità. Partire dalla Romagna è imposto da ciò che è successo, meno certo è il che fare. Ci si può limitare a risarcire il più possibile i danni enormi che l’alluvione ha provocato, cioè tentare di ripristinare ciò che c’era prima dell’alluvione o, viceversa, si può scegliere di mettere in sicurezza quei territori e dare priorità a tutti gli interventi in grado di garantire alle popolazioni che, se si ripetesse un evento simile a quello che è accaduto, questa volta i danni sarebbero gestibili. Per la prima strada affidarsi a un commissario è parzialmente giustificato.

Se invece ci si incammina sulla seconda la scelta «dell’uomo solo al comando» per quanto bravo ed onesto sia, è poco credibile. Per una nuova Romagna serve uno sforzo collettivo, culturale in primo luogo, una mobilitazione straordinaria di competenze con la ricostruzione dei servizi tecnici dello Stato, una nuova cultura del territorio, con la consapevolezza che si colpiranno interessi corposi e si imporranno scelte impopolari per decolonizzare intere aree a rischio.

La nomina del commissario produrrà la ricostruzione di sempre e certamente non si vedrà una nuova Romagna e tantomeno una Romagna meno fragile a questi eventi. Buon lavoro Generale

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CRISI INTERNAZIONALE. Doveva scoppiare in Russia, poi è esplosa la crisi francese. Mentre resta strisciante in tante realtà del mondo. Dove emerge il fronte sociale interno, la lotta di classe inevasa

Il palio delle guerre civili nel mondo Nanterre - Ap

Chi vincerà il “palio” delle guerre civili nel mondo? Perché tutti aspettavano la guerra civile in Russia e invece ora tutti guardano tesi gli avvenimenti da guerra civile in Francia.

Con la rivolta delle banlieue per l’uccisione del giovane Nahel, con altre quattro vittime, una estensione della protesta in tutta la Francia e una repressione presidenziale – l’unica, violenta forma di sopravvivenza di Macron – che è arrivata a più 4mila arresti e all’istituzione di sbrigativi processi per direttissima. Mentre ora, scendono in piazza le ronde dichiaratamente fasciste contro «gli stranieri» e la società francese appare sempre più dilaniata – la colletta per la famiglia della vittima arriva a 200mila euro, quella per il poliziotto che ha ucciso Nahel supera il milione.

COMUNQUE FINIRÀ, il primo messaggio che arriva è che le guerre civili interrotte dalla repressione, poliziesca o militare che sia, sembrano appuntamenti solo rimandati. Vale anche per gli Stati uniti, che ora alle prese con i processi intentati a Trump, si trovano di fronte l’irrisolta immagine dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 quando sostenitori dell’ex presidente e milizie a lui ispirate irruppero manu militari nel sancta sanctorum della democrazia americana, dove una litania di uccisioni e mass shooting con decine di migliaia di morti l’anno testimoniano di un fronte interno sociale devastato.

VALE NATURALMENTE per la Russia di Putin che, per la guerra d’aggressione che ha provocato ha avuto bisogno di privatizzare la forza con un corpo mercenario che ha sostenuto le battaglie più importanti, fino alla ribellione della Wagner guidata dall’ex fido Prigozhin. Anche questo – i mercenari più impegnati in combattimento, con più vittime degli eserciti regolari – è nella tradizione delle guerre occidentali degli ultimi 30 anni, per la difficoltà di motivare fino in fondo le «ragioni» della guerra: con la Black Water e altre formazioni mercenarie in Iraq e Afghanistan, con lo sviluppo e ruolo di questa «necessaria» e ingombrante presenza.

E VALE ANCHE per la stessa Ucraina che, nell’ultima fase della guerra civile interna dal 2014 al 2022, ha incorporato formazioni militari irregolari (Battaglione Azov, Pravy Sector e altri) nelle forze armate – realtà che spesso hanno la stessa estrazione identitaria, neofascista e ipernazionalista, delle formazioni mercenaria del nemico russo; e vale per Israele dove Netanyahu per restare al potere, di fronte ad una società israeliana spaccata sulle sue scelte autoritarie e invece unita nell’occupazione militare dei Trritori palestinesi, ha concesso all’estremista suprematista Ben Gvir, diventato ministro della Sicurezza nazionale, la costituzione di un pericoloso corpo armato separato, la Guardia nazionale.

ECCO DUNQUE CHE la guerra civile, più o meno latente, torna con evidenza a proporsi come uno degli elementi della crisi contemporanea. Ed obbliga ad una riflessione di fondo. Quello che viene definito come il «dominio» mondiale dopo l’implosione dell’Urss, mostra una sua gigantesca fragilità nel campo sia alleato che nemico.

Così la vera strategia geopolitica in campo resta quella di destabilizzare l’avversario, fin all’esplosione di una guerra interna all’«altro». Madeleine Albright, segretario di Stato Usa, minacciava l’ex Jugolsvia di Milosevic di «sfogliare ad una ad una le margherite», le contraddizoni etniche e storiche della Serbia, se non avesse accettato le imposizioni di Rambouillet, prima di scatenare la guerra di bombardamenti aerei «umanitari» della Nato nel marzo 1999. E così sembra riproporsi ora la partita, come se fosse possibile un paragone tra la piccola e marginale Serbia e la Russia potenza atomica.

Sempre, naturalmente, pronti alla missione «civilizzatrice» di una alleanza militare occidentale: come in Somalia nel 1993 che doveva “Restore hope”, ridare speranza, e che invece vive ancora nella condizione di una guerra civile strisciante – domenica scorsa per l’eccidio del Ceck Point Pasta del ’93 sono stati ricordate le nostre vittime militari, ma nemmeno una parola per le decine e decine di vittime civili da noi provocate.

CHE DIRE POI DEL DISASTRO libico dove l’intervento della Nato, in primis della Francia, insieme alla morte di Gheddafi ha provocato una frammentazione della Libia stessa contesa in una guerra civile da due eserciti e da centinaia di milizie armate, dietro cui si nascondono nuovi governi inventati, nuovi alleati e nemici potenti; per non tacere del disastro provocato in Siria, una destabilizzazione non riuscita ma che ha fatto terra bruciata di un Paese. Dunque la guerra civile è l’occasione per ogni intervento militare esterno. Ma emerge un’altra questione che sposta il discorso dalla inflazionata geopolitica alla dinamica sociale e politica. Ne sanno qualcosa milioni e milioni di spostati sociali, donne e uomini in fuga, da miseria, carestia, conflitti per procura, devastazioni ambientali e crisi climatiche, che chiamiamo «migranti».

LE DIFFERENTI FORME di guerra civile che ci troviamo di fronte propongono infatti l’attenzione sul fronte interno, sul conflitto sociale inevaso in ogni realtà nazionale. Vale per Putin che, per proseguire nella sua guerra suicida per il popolo russo, è costretto a mobilitare sempre più diseredati dalle periferie della Federazone russa; vale per l’Ucraina dove in otto anni di guerra civile che hanno preparato la tragedia che abbiamo sotto gli occhi, ben pochi si sono accorti del fatto che nelle trincee del Donbass c’erano, e ci sono ancora, lavoratori contro lavoratori, spesso gli ultimi, le facce nere dei minatori ridotti alla fame ma armati ed aizzati dai rispettivi oligarchi.

E VALE PER GLI STATI UNITI, dove una analisi ed un coinvolgimento alternativo tarda a venire di quella «pancia profonda» di settori popolari di emarginati e poveri, diventati massa di manovra del nuovo suprematismo americano e della destra repubblicana. Anche noi dovremmo spostare l’attenzione dalla sola geopolitica alla lotta di classe: la guerra è sempre più, come dimostra l’Italia meloniana e l’Ue che riarma, un esplosivo blocco sociale d’interessi.

Per dirla con Marx, dietro le guerre del capitale si muove un’altra guerra civile: quella di un movimento reale di individui al lavoro, in punti opposti del mercato mondiale che, in rapporto di tensione con il potere che li connette, determinano nuove condizioni di possibilità per l’emancipazione

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