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BELMARSH TRIBUNAL A WASHINGTON DC. Lo scorso venerdì si è tenuto il terzo Belmarsh Tribunal a Washington (i primi due si celebrarono a New York e a Londra), in una sede simbolica: il National Press […]

Assange è un maestro di giornalismo, non un nemico pubblico

Lo scorso venerdì si è tenuto il terzo Belmarsh Tribunal a Washington (i primi due si celebrarono a New York e a Londra), in una sede simbolica: il National Press Club. Si tratta di una sorta di corte alternativa a quella londinese dove si sta decidendo in merito all’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti.

Com’è tristemente noto, il fondatore di WikiLeaks rischia oltre oceano una condanna a 175 anni di carcere. E in questi giorni il verdetto pare approssimarsi.

Il luogo prescelto è stato particolarmente significativo, perché lì Assange presentò tredici anni fa il video «Collateral murder», quel terribile materiale che documentava l’uccisione di civili innocenti in Iraq da parte di un elicottero statunitense Apache. Tra le vittime vi furono anche due giornalisti dell’agenzia Reuters e un padre che stava accompagnando i figli a scuola.

Quel video fece subito il giro della rete e suscitò tanto vaste reazioni critiche verso gli Stati Uniti, quanto un’immediata reazione coercitiva da parte di questi ultimi. Assange fu preso di mira e assurse al ruolo di nemico pubblico da buttare in una cella del peggiore penitenziario dell’amico americano.

Quel video fu come il fischio di inizio, dunque, della persecuzione messa in atto in sequenza dalla Svezia, dall’Australia, dalla Gran Bretagna e dagli stessi Usa contro un cronista scomodo per i poteri e le loro macchinazioni all’ombra di segreti impronunciabili.

 

Il National Press Club è a due passi dalla Casa Bianca e anche questo ci vuole raccontare qualcosa. Il presidente Biden, pur sollecitato dal collega brasiliano Lula e da quello della Colombia Gustavo Petro, nonché da alcune delle principali testate del villaggio globale che a suo tempo collaboravano con WikiLeaks, per ora tace.

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Il Tribunale si ispira agli omologhi voluti da Bertrand Russell e Jean-Paul Sartre, organizzati per indagare sui crimini americani nella guerra del Vietnam. La giustizia andava ricercata con rigore e precisione, fuori dall’ufficialità e dai suoi fariseismi. L’opinione pubblica va coinvolta e resa protagonista.

Dagli interventi è emersa nettissima la denuncia della falsa democrazia esibita da paesi che mascherano i propri misfatti con simulacri istituzionali, peraltro sempre più vacillanti.

Oltre ad Assange, sono ben 360 i giornalisti incarcerati nel mondo

Assange, infatti, è solo il primo di una lista di ben 360 giornalisti incarcerati in giro per il villaggio globale, cui vanno aggiunti coloro che hanno perso la vita.

L’informazione libera, capace di ficcare il naso negli arcani delle Cancellerie e delle guerre, va imbavagliata. Ecco l’ordine esibito. WikiLeaks è il capro espiatorio, l’ammonimento per coloro che intendono scrivere articoli o girare servizi in modo indipendente e tenendo la schiena dritta.

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Nel corso degli interventi si sono sentite le voci di chi sta sostenendo tale lotta emblematica come giornalista, avvocato o con durissime battaglie giudiziarie: Steven Donzinger, Jesselyn Radack, Bett Nedsger, Stefania Maurizi, Daniel Ellsberg, Srecko Horvat, Amy Goodman, Jeffrey Sterling, Margaret Kunnstler, Hrafnson Kristinn, Chip Gibbons, Kevin Gosztola, Katrina Vandel Heuval. Alcuni dei nomi.

Si è sentito Jeremy Corbyn, che ha sottolineato come la politica vada sottoposta a verifica attraverso la libera informazione, senza la quale è difficile evocare la democrazia.

Particolarmente emozionante è stato il discorso svolto con una voce stanca e flebile dal padre di Assange, che ha metaforicamente urlato contro l’abbandono della Magna Charta e dello stato di diritto.

Il Tribunale alternativo vuole essere la critica pratica dell’insufficienza degli organismi internazionali, che dovrebbero vigilare e difendere le garanzie per le persone, insieme agli spazi della legittima denuncia dei crimini potenti e dei potenti.

Chi ascolterà un simile angosciante grido di dolore? Parlamento italiano, batti un colpo, per favore

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CRISI UCRAINA. Dopo il vertice di Ramstein del «gruppo di sostegno» a Kiev, il dilemma americano e della Nato: fino a che punto bisogna armare l’Ucraina?

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Dopo il vertice di ieri a Ramstein del «gruppo di sostegno» a Kiev, resta il dilemma americano e della Nato: fino a che punto bisogna armare l’Ucraina? Soprattutto restano i dubbi nell’Alleanza di fronte a una escalation militare pericolosa ma che ormai sembra scontata. Forse troppo, mentre i tedeschi rifiutano ancora i loro Leopard all’Ucraina.

È vero che gli Usa hanno stanziato altri 2,5 miliardi di dollari di armi – Washington ha armato Kiev per circa 30 miliardi. Ma è anche vero che la questione dei Panzer tedeschi Leopard acuisce le divisioni tra una Nato «atlantica», quella di Berlino che per ora esita assai a inviare i suoi tank all’Ucraina, e una Nato «baltica» dove la Polonia scalpita per schierare i Leopard e addestrare gli ucraini.

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La Germania, come ha fatto capire il neoministro della difesa Boris Pistorius, potrebbe concedere l’export dei suo Leopard venduti alla Polonia (più di 300) e ad altri Paesi come la Finlandia (in attesa del via libero turco a entrare nella Nato) ma condiziona l’invio dei panzer tedeschi (non operativi prima di qualche mese) a un’analoga decisione Usa. Per altro gli stessi americani hanno escluso di dare a Kiev i loro sofisticati e potenti Abrams, che non vorrebbero mai vedere finire in mano a Mosca come accadde con gli iracheni a Baghdad nel 2003. Leopard che, pur veloci e potenti, senza un appoggio di protezione sono vulnerabili: l’Isis ne decimò qualche dozzina ai turchi nell’assedio della città siriana di Al Bab nel 2017. Sembrano guerre di un secolo fa ma sono i lampi sanguinosi e dimenticati del disordine mondiale arrivato fino a oggi.

Ma quando dovrebbe essere pronta la nuova armata ucraina? Entrando ieri a vertice di Ramstein con il segretario alla Difesa Lloyd Austin, il capo di stato maggiore americano Mark Milley ha dichiarato che «in primavera gli ucraini potrebbero essere in grado di riprendere i territori perduti 11 mesi fa». Il generale non ha fatto cenno alla Crimea, come invece è tornato a chiedere di recente Zelenski ponendo come condizione per le trattative il ritiro delle truppe russe alle frontiere del 1991. Come del resto lo stesso presidente ucraino all’inizio del conflitto aveva aperto la porta a uno status di neutralità dell’Ucraina e a un limite alla cooperazione militare con la Nato, mentre adesso punta esplicitamente a vincolare Kiev strettamente all’Alleanza Atlantica, come insiste Stoltenberg. Uno scacco che il Cremlino non sembra pronto ad accettare, soprattutto ora in una fase agitata e difficile da decifrare, caratterizzata dalla sostituzione del generale Sergei Surovikin con il capo di stato maggiore generale Victory Gerasimov e dall’ascesa del Gruppo Wagner e delle milizie cecene.

Il Pentagono, più della Casa Bianca, si è fatto promotore della diplomazia di Washington. Secondo le dichiarazioni di Milley delle scorse settimane durante l’inverno un allentamento dei combattimenti avrebbe potuto aprire «una finestra di opportunità per i negoziati». Per il momento non sembra sia così, anche se i militari americani hanno maturato la convinzione che nessuno dei due campi possa infliggere una sconfitta definitiva all’altro, pur evidenziando la rispettiva determinazione a proseguire i combattimenti. Parlando a novembre davanti all’Economic Club di New York il generale Milley era stato stato abbastanza esplicito: «Devono riconoscere entrambi che probabilmente non ci sarà una vittoria militare, nel senso stretto del termine, realizzabile per vie militari. E quindi è necessario volgersi verso altre opzioni».

Quale potrebbe essere allora, se esiste, la «strategia» del Pentagono? Forse il fallimento (o meglio il contenimento) di tutte e due le offensive, trasformando il conflitto in una guerra di logoramento e creando le condizioni di un congelamento delle operazioni militari con un successivo cessate il fuoco.

Vengono in mente gli esempi della guerra di Corea, Cipro o del conflitto Iran-Iraq, quando gli Usa adottarono la politica del «doppio contenimento»: nessuno doveva vincere sullo Shatt el Arab. Il problema oggi è che la Russia ha tentato con la forza di ridisegnare le frontiere violando gravemente la Carta dell’Onu e la sua condanna è stata generale anche da parte di potenze legate a Mosca come Cina, India e Iran.

E veniamo a noi europei. L’osservazione più interessante forse l’ha fatta ieri su France Inter il collega Pierre Haski (da noi tradotto su Internazionale). Quale paese europeo avrà l’esercito più potente nei prossimi anni? In condizioni normali la risposta sarebbe la Francia, unica potenza nucleare dopo l’uscita di Londra dall’Unione. Ma le cose cambiano. Se mettiamo da parte il nucleare, l’esercito principale dell’Unione sarà presto quello della Polonia che di recente ha investito 15 miliardi di euro nella difesa.

Ma non è l’unica conseguenza della guerra in Ucraina. A cambiare profondamente sono tutti gli equilibri interni della Ue, con uno sbilanciamento a favore del fronte orientale. Anche di questo dovranno parlare Scholtz e Macron quando dopodomani celebreranno a Parigi i sessanta anni della riconciliazione franco-tedesca del 1963. C’è poco da festeggiare. E quanto all’Italia cosa farà? Il ministro della difesa Crosetto ha confermato che aiuteremo l’Ucraina nei sistemi di difesa antimissile (Eurosam) aggiungendo però che «tutto, come prima, resterà secretato». Passano le stagioni, cambiano i governi ma i metodi restano gli stessi

 

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CRISI UCRAINA. Respinto il ricorso, condanna a un anno per aver rifiutato la leva. Segue il caso il Movimento Nonviolento, presente in aula con un avvocato. L’appello delle reti internazionali antimilitariste e nonviolente

 Una manifestazione per la pacedi fronte al Bundestag a Berlino - Getty Images/John MacDougall

Si aprono le porte del carcere per Vitaly Alekseienko, obiettore ucraino di fede evangelica che ha rifiutato la mobilitazione. La Corte d’Appello di Ivano-Frankivsk ha respinto il ricorso e la condanna ad un anno è diventata esecutiva.

«Ho infranto la Legge dell’Ucraina, ma sono innocente secondo la Legge di Dio. Non ho paura, nemmeno della prigione», ha dichiarato. Classe 1976, viveva a Slovyansk, nella regione orientale di Donetsk, al momento dell’invasione russa nel febbraio 2022. Si è rifugiato a Ivano-Frankivsk a maggio e l’Ufficio reclutamento lo ha convocato il 2 giugno.

Ha detto loro che non poteva prendere le armi per le sue convinzioni religiose di cristiano, chiedendo di prestare un servizio alternativo: richiesta respinta perché non prevista dalla legge marziale.

Il Movimento Nonviolento, nella campagna Obiezione alla guerra, segue il caso. L’avvocato Nicola Canestrini, su mandato del Movimento, si è recato in Ucraina per l’udienza di dicembre scorso, come osservatore per i diritti umani, per interloquire con l’imputato e i rappresentanti della Corte, ottenendo il supporto dall’Ordine degli Avvocati ucraini: «Il governo ucraino dovrebbe salvaguardare il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, anche in tempo di guerra, rispettando gli standard della Corte europea».

Pronto l’appello delle reti internazionali antimilitariste e nonviolente che chiede di revocare subito la condanna che viola l’articolo 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, inderogabile anche in tempo di emergenza pubblica.

Il caso di Alekseienko è il primo in cui la Corte adotta una linea dura. Per altri quattro casi era stata concesso la sospensione della pena detentiva e la libertà vigilata. Prima delle Legge marziale 5mila giovani ucraini avevano chiesto di svolgere un servizio civile alternativo a quello militare.

*Presidente del Movimento Nonviolento

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INNOVAZIONE. I modelli di linguaggio di ChatGPT, sono “pappagalli stocastici”, replicano ogni discorso ascoltato, senza associare alle parole significato o comprensione

Scrivi cosa vuoi, l'intelligenza artificiale lo disegna

È impossibile ignorare il rumoroso dibattito sull’intelligenza artificiale causato dal lancio di ChatGPT, uno strumento che OpenAI, ha reso pubblico lo scorso novembre. Si può interagire con un bot che risponde a domande scritte, instaurando una conversazione plausibile su temi anche complessi, eseguendo ordini per realizzare testi scritti, componimenti, poesie, sceneggiature o piccoli saggi, con bibliografia inventata inclusa. Il bot commette errori stupidi, mentre fornisce repliche a questioni scientificamente difficili in modo semplice e pertinente, mischiando risposte giuste e sbagliate. È un sistema sintattico, non sa ciò di cui parla, ma è convincente nel simulare interazioni testuali.

Siamo costretti a svolgere lo scomodo ruolo di correttori della macchina che si presume intelligente, ma è inaffidabile. Nonostante le imprecisioni, la chat ha conquistato l’interesse di Microsoft che vorrebbe integrarla nel suo motore di ricerca Bing, e per questo investirà nel progetto altri 10 miliardi di dollari, portando la valutazione di OpenAI a 29 miliardi.

I modelli di linguaggio generativi a cui appartiene ChatGPT, sono “pappagalli stocastici”, o nuove versioni della ninfa Eco, capace di replicare ogni discorso ascoltato, senza associare alle parole significato o comprensione. Molte delle nostre attività intellettuali passano per la scrittura di testi e il sistema può simulare una capacità linguistica associata a livelli cognitivi medio-bassi o in formazione. La questione dei compiti a casa, infatti, è una delle maggiori preoccupazioni.

Come sarà possibile accertare che i compiti assegnati come temi o risposte a domande scientifiche siano davvero il frutto del lavoro cognitivo degli studenti? Il dato è tratto: bisognerà conviverci anche a scuola, immaginando strategie, selezionando attività e progettando metodi per lo sviluppo della creatività degli studenti. Il problema non è tanto la capacità reale dei bot, ma la tendenza a delegare loro funzioni umane, compresa quella artistica.

I modelli generativi per la riproduzione del linguaggio, oltre che delle immagini (Dall-E, Midjourney, Stable Diffusion e altri), sono complessi sistemi sociotecnici che hanno al loro interno diversi strati di attività svolti direttamente dall’intelligenza umana. Ad alto livello troviamo i programmatori che definiscono regole e vincoli per analizzare enormi quantità di dati, disponibili nei corpora testuali delle pagine web realizzate da persone, o nelle immagini usate per l’addestramento.

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Ci sono anche altri interventi umani come segnala un articolo di Billy Perrigo del 18 gennaio scorso su The Time: lavoratori kenioti pagati meno di 1.50 dollari all’ora, impegnati, per conto di OpenAI, a etichettare discorso di odio, espressioni di violenza sessuale e altro materiale esplicito per insegnare alla macchina a non riprodurre certe frasi. L’educazione sentimentale della macchina, potremmo dire. Lavoratori sfruttati, parte integrante del complesso sistema industriale che ha contribuito ad automatizzare il servizio.

Altri soggetti umani intervengono per i controlli di qualità, compresi noi che interroghiamo il Chatbot e restituiamo il nostro feedback, a sua volta analizzato da personale specializzato. Non si tratta, quindi, di un apparato autonomo e indipendente, ma della cattura di un processo di intelligenza collettiva, standardizzata, e intrappolata in un sistema che la restituisce nella forma di una mimesis prefabbricata e ripetitiva. Il meccanismo calcola la probabilità statistica che a una certa parola o insieme di parole (token) ne segua un altro. Per questo predilige affermazioni convenzionali, banali, normali.

ChatGPT ci potrebbe aiutare a distinguere tra differenza e ripetizione nel linguaggio. Le formule retoriche inutili, contro le parole che non abbiamo mai pensato, imprevedibili. Potremmo confinare alla macchina i convenevoli noiosi. Ma per farlo dovremo governare la politica del processo di automazione. Viviamo tempi di interregno, come suggerisce Benedetto Vecchi, nel suo libro postumo Tecnoutopie (DeriveApprodi, 2022), citando Gramsci: il vecchio non è ancora morto e il nuovo stenta a nascere.

Non ci sono esiti deterministici nell’adozione delle tecnologie. Occorre, però, gestire i processi e non esserne gestiti, pena il percorso a ritroso dalla liberazione che la scienza moderna ci ha offerto, con il rientro nella minorità dalla quale i Lumi ci avevano faticosamente estolto. Che ne sarebbe della scrittura se il sistema dovesse addestrarsi solo su testi che ha autoprodotto, e le persone non sapessero più leggere o scrivere?

Potremmo entrare, forse, in un’era in cui creazione e trasmissione della conoscenza non dipenderebbero solo da una agency umana, né dovrebbero per forza avvenire in forma testuale. Potremmo sperare in una eterogenesi dei fini delle macchine, che le sottrarrebbe al loro destino normativo e prevedibile, ma è improbabile. La scrittura è una tecnologia inventata poco più di cinquemila anni fa, e potrebbe finire come metodo per esternalizzare la memoria umana. Il futuro sarà il risultato di decisioni che prenderemo insieme.

Billy Perrigo Exclusive: OpenAI Used Kenyan Workers on Less Than $2 Per Hour to Make ChatGPT Less Toxic The Time, 18 Jan 2023

 

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INTERVISTA. Gianfranco Viesti, economista all'università di Bari, tra i principali critici della "secessione dei ricchi" e promotore della proposta di legge contro il progetto Calderoli: "Le destre creeranno un’Italia irriconoscibile: un potere statale ridotto al lumicino e città schiacciate da Regioni-stato che andrebbero ciascuna per conto proprio"

 Gianfranco Viesti (Università di Bari)

Gianfranco Viesti, economista dell’Università di Bari, lei è uno dei principali critici dell’«autonomia differenziata». Sulla rivista «Il Mulino» ha scritto un articolo in cui sostiene che il Pd è responsabile quanto la Lega della «secessione dei ricchi». Perché?
Cerco di avere un atteggiamento costruttivo e auspico che il futuro sia diverso dal passato. Però se guardo al passato vedo un ruolo decisivo dell’Emilia Romagna, e del suo presidente Stefano Bonaccini, oggi candidato alla segreteria del Pd, nel fare diventare le richieste estreme del Veneto e della Lombardia, governate dai leghisti, una materia su cui discutere seriamente. Ho ricostruito nel dettaglio queste vicende dal 2017 a oggi. Da allora il Pd ha molte difficoltà a esprimersi su un tema di assoluta rilevanza politica. Sicuramente al suo interno ci sono idee anche molto diverse. Io non partecipo alle loro vicende congressuali e ho rispetto dell’importanza della discussione in corso. Ma mi auguro che prendano una posizione forte e unitaria su una questione che interessa il futuro della scuola e dell’università, della sanità e dei trasporti, delle politiche ambientali, dell’energia o dei beni culturali. Decidere chi fa queste politiche significa dire quale Italia si vuole.

In cosa si differenzia la proposta di Bonaccini da quella leghista di Calderoli?
Prendo atto con piacere che Bonaccini dichiari di non volere, al contrario di altre regioni, più risorse a danno di altri territori. E non vuole regionalizzare la scuola. Però nelle carte trovo tanti riferimenti anche per l’Emilia a fondi speciali.

Cosa sono?
Vorrei saperlo anch’io. Cosa si intende per «fondo integrativo per il personale sanitario»? La sostanza è proprio nei dettagli. E finora l’Emilia ha accettato la logica per cui si fanno intese generali e poi la definizione dei dettagli è demandata a commissioni paritetiche Stato-regioni.

E chiede per sé molte competenze…
Sì, non sono tutte, ma sono molto pesanti. L’Emilia Romagna vuole la regionalizzazione dei musei statali, ad esempio. Cosa accadrebbe se lo facesse anche il Lazio? Ci piacerebbe un paese senza una rete di istituzioni culturali nazionali?

Bonaccini le ha risposto su twitter che ha la posizione del Pd. Peppe Provenzano ha ribattuto che non è così: il Pd ha criticato le pre-intese del 2018 e il lavoro del «Conte 1». E sono d’accordo sulla definizione dei Lep. Elly Schlein, l’ex vice di Bonaccini e candidata alla segreteria Pd, ha detto che vogliono discuterne in Parlamento. Invece di un’autonomia diversamente differenziata non dovrebbero opporsi all’intero progetto?
Secondo me sì. Un conto è parlare di decentrare alcune competenze amministrative; ma allora ci si deve chiedere: perché solo ad alcune regioni? Se invece parliamo, come in questo caso, di competenze legislative, allora il discorso cambia. Davvero vogliamo dare alle regioni potere sovrano sulle politiche energetiche? O cancellare quello che resta del Servizio sanitario nazionale?

Ha capito che tipo di regionalismo vuole il Pd?
Di base, da una forza di centro-sinistra, mi aspetterei un regionalismo bene organizzato, equilibrato, e una battaglia per fare funzionare lo Stato. Prima di parlare di differenziazione, bisognerebbe mettere a posto il regionalismo varato nel 2001. Funziona malissimo. Mancano le leggi cornice che sono compito dello Stato. Tutta la parte finanziaria è inattuata. Ci vuole una riflessione sul riparto delle competenze. Penso alle grandi infrastrutture di rete e all’energia per cominciare. Le proposte sull’autonomia, e oggi il testo di Calderoli, non risolvono questi problemi e ne aggiungono altri.

Se passasse il progetto delle destre che tipo di paese avremo?
Sarà irriconoscibile, diverso da qualsiasi altro nel mondo, con un potere statale ridotto al lumicino, le città schiacciate dalle regioni e Regioni-stato che andrebbero ciascuna per conto proprio.

Ci sarà lo scambio tra Meloni che vuole il presidenzialismo, e i leghisti che si giocano tutto sull’autonomia?
Lo vedremo. Storicamente hanno visioni quasi opposte. Non dimentichiamo che nel 2014 Giorgia Meloni è stata prima firmataria di un progetto di legge di riforma costituzionale che voleva abolire le regioni.

Lei è uno dei promotori della proposta di legge di iniziativa popolare di riforma degli articoli 116 e 117 della Costituzione. In cosa consiste, perché firmarla e a cosa servirà?
Ho aderito all’iniziativa di Massimo Villone. Firmarla serve per costringere il Parlamento a discuterne, animare il dibattito politico su questi temi che è sopito per intelligente scelta dei cosiddetti secessionisti. Gli italiani infatti non ne sanno niente e loro su questo ci marciano. Nel merito la proposta tende non a cancellare il terzo comma dell’articolo 116 ma a introdurre due principi importanti: ci deve essere una motivazione chiara del perché una regione chiede una competenza specifica; bisogna lasciare la parola finale agli italiani prevedendo la possibilità di un referendum. Oggi è impossibile.

Perché?
Questa legge è rinforzata. Significa che non può essere oggetto di consultazione popolare, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale. Se il Parlamento ratifica un’intesa grazie al testo Calderoli l’autonomia differenziata sarà irreversibile. Pensiamoci

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REGIONALI. Dietro la candidatura di D’Amato c’è il potere della sanità, migliore di quello della Lombardia, ma fondato sull’intreccio tra la burocrazia delle grandi Asl e gli interessi privati

Nella partita delle regionali non tutte le sconfitte sono uguali Illustrazione di Ludovica Valori

Alcuni autorevoli sottoscrittori dell’Appello last minute per un accordo Pd-M5S alle elezioni nel Lazio, di fronte all’insuccesso dell’appello esprimono pubblicamente, anche su questo giornale, la tentazione di astenersi dal voto, attribuendo pari responsabilità ai due contendenti e considerando la partita persa comunque. La delusione e lo sconcerto sono più che comprensibili, ma la gravità della situazione esige un approfondimento dell’analisi degli avvenimenti accaduti e delle prospettive che abbiamo davanti, in Italia oltre che nel Lazio.

Le vicende del mancato accordo le ha qui descritte il 7 gennaio Stefano Fassina, che, come Fratoianni, ha cercato per mesi di renderlo possibile. Il fatto è che dietro l’indiscutibilità della candidatura di D’Amato – non a caso avanzata da Calenda – c’è il peso del sistema di potere della sanità nel Lazio, certo più efficiente di quello della Lombardia, ma anch’esso fondato sull’intreccio tra la burocrazia delle grandi Asl e i fortissimi interessi privati del settore. Così come dietro il megaincineritore di Santa Palomba c’è un Sindaco che si fa Commissario straordinario per poter superare il Piano regionale dei rifiuti e consentire agli apparati del Campidoglio di gestire insieme a grandi imprese private un affare da centinaia di milioni. Dimostrando che il Pd, anche nel Lazio, è soprattutto apparati di potere che distribuiscono appalti e concessioni riprendendo una non-politica del territorio fondata su cemento, automobile e “grandi opere”.

Anche per questo, nel Lazio tutti i sondaggi degli ultimi due anni hanno dato la destra vincente anche sulla coalizione Pd-M5S. Mentre in Lombardia, dove da decenni il Pd è fuori dal sistema di potere della Regione e della Sanità, riesce a prevalere l’originaria matrice progressista del partito, portando alla candidatura Maiorino e all’accordo con sinistra e M5S, con qualche chance di vittoria per la spaccatura della destra.

Invece nel Lazio, con la legge elettorale vigente, il massimo che si è riusciti a fare è una coalizione tra un Polo progressista, composto da forze di sinistra ed ecologiste, e il M5S. Con scarse chance di vittoria, ma la concreta possibilità di un risultato complessivo che veda il Presidente di destra privo della maggioranza in Consiglio regionale, come Zingaretti cinque anni fa. In tal caso, anche per le divisioni interne alla destra, si apriranno spazi di iniziativa e di manovra all’opposizione di sinistra su questioni importanti, a partire dall’autonomia differenziata.

Anche sul piano nazionale le prospettive sono abbastanza chiare. Un governo di destra a guida postfascista sta preparando una controriforma della Costituzione centrata sull’autoritarismo presidenzialista e sulla frantumazione dell’ordinamento giuridico ed economico-sociale indotta dall’autonomia differenziata, in parallelo ad un indirizzo neocorporativo che aumenta le disuguaglianze attaccando le condizioni di vita e di lavoro dei ceti popolari. Le elezioni del 25 settembre hanno dimostrato che il Pd del “ma anche” non convince l’elettorato perché sulle questioni fondamentali della guerra e dell’”agenda Draghi” in economia ha le stesse posizioni della destra, e su molte altre se ne discosta di poco. Perciò, anche un “campo” comunque allargato, se guidato da questo Pd o da uno simile, sulla linea del “ma anche” non ha alcuna possibilità di reggere un attacco che porta a compimento tendenze di lungo periodo, appoggiate dai grandi interessi privati e dai loro media.

L’alternativa è la costituzione di un fronte di difesa della Costituzione e di piena attuazione dei suoi principi, composto anche da forze del versante progressista del Pd, per come usciranno da questo Congresso. Per offrire rappresentanza agli ampi settori dell’elettorato popolare e di ceto medio che oggi si astengono dal voto, attraverso un programma radicalmente opposto a quello della destra, che ne sappia interpretare le esigenze ed i bisogni reali.

Per realizzare tale obiettivo occorre che questo fronte, il più ampio possibile, faccia perno su un polo progressista con le idee chiare e la capacità di comunicarle. E una buona affermazione del fronte progressista in Lombardia, nel Lazio e nel Friuli sarà un primo passo in questa direzione. In ogni caso, un fatto è certo: un elettore di sinistra che, nel Lazio o altrove, si astiene o vota liste sicuramente a perdere, è come se votasse a destra. Il punto centrale, qui ed ora, sta in questa considerazione oggettiva, che non può non prevalere sugli stati d’animo soggettivi, di delusione, sconcerto, rancore, per quanto comprensibili possano essere

 

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