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INTERVISTA. L’ex ministro del Lavoro: «Il Jobs Act ha fallito, non si è più competitivi facilitando i licenziamenti. Ci sono già troppi contratti a termine, non vanno aumentati. Schlein ha capito meglio di altri i nostri errori. Bonaccini? Se gli piace il vecchio manifesto perché ne ha votato uno diverso?». «No a scomuniche per chi vota contro le armi. I nostri elettori temono l’escalation militare»

 Andrea Orlando - LaPresse

Andrea Orlando, deputato Pd, ex ministro del Lavoro. Il governo si prepara a liberalizzare i contratti a termine, che già sono di gran lunga più utilizzati di quelli a tempo indeterminato.

Si tratta di una scelta da contrastare in ogni modo. Dopo la pandemia la ripresa dell’occupazione ha già sbilanciato il mercato del lavoro a favore dei contratti a tempo. La reintroduzione dei voucher e questo intervento porteranno ad un aumento della precarietà che già oggi è insostenibile a livello sociale e incompatibile anche dal punto di vista previdenziale: contratti brevi e con bassi salari contribuiscono a rendere insostenibile il sistema delle pensioni. Senza dimenticare che oggi la competizione si gioca sulla qualità del lavoro, l’illusione di favorire le imprese nel mercato globale svalutando il lavoro si è ampiamente rivelata infondata.

Il Pd è stato, con Renzi e anche prima, protagonista di una stagione all’insegna della flessibilità del mercato del lavoro. I conti con il Jobs Act li avete fatti o no?

Se l’obiettivo era produrre più lavoro stabile è chiaro che ha fallito. L’idea che rendere più facili i licenziamenti avrebbe reso più conveniente per le imprese assumere a tempo indeterminato si è rivelata sbagliata. Lo dicono i numeri, senza dimenticare gli interventi della Corte costituzionale che ha segnalato sperequazioni. Dunque per il Pd è tempo di ripensare completamente quella impostazione, senza furori ideologici ma senza rimozioni.

Ora il governo della destra si ispira alle scelte di Renzi.

Per la verità con il Jobs Act vennero introdotte alcune tutele. Ora si va solo nella direzione dello smantellamento, lo si fa però senza tenere conto di quello che è successo. L’idea di essere più competitivi comprimendo il costo del lavoro, senza toccare rendite e corporazioni e senza politiche industriali, si è rivelata inadeguata. Non solo ha creato questo alto livello di precarietà, ma quel modello che punta sulla dequalificazione del lavoro mette in discussione anche la tenuta delle stesse imprese.

Nel programma elettorale il Pd sembrava aver fatto passi avanti su questi temi. Ora invece nel congresso non se ne parla quasi più.

La rottura tra Pd e mondo del lavoro non avviene solo per colpa di Renzi, ma viene da più lontano. Da quando il centrosinistra ha deciso di chiedere molti più sacrifici ai lavoratori che al sistema di capitalismo relazionale italiano. La mancata ricostruzione e analisi di questi passaggi incombe sul nostro congresso. Va però detto che Schlein mostra una attitudine a riconoscere questo limiti, e a individuare delle correzioni. Sarebbe esiziale per il rapporto con il mondo del lavoro se, dopo aver detto delle cose chiare in campagna elettorale, le abbandonassimo.

E Bonaccini?

Anche lui riconosce il problema e propone di far costare di più i contratti a termine. Ma questi nodi non si risolvono solo in termini di monetizzazione.

Il messaggio che arriva dai vari candidati è contraddittorio. Il Jobs Act lo avete archiviato?

Ci sono settori del partito che provano nostalgia per il ciclo neoliberale, che non si rassegnano alla fine di quella stagione, che ormai è evidente per tutti, e non la criticano. Al massimo spunta qualche frase sulla lotta alle diseguaglianze, ma non si dice mai che sono figlie di un modello di sviluppo che non si vuole mettere in discussione.

Un Pd con una doppia anima. Crede che la convivenza sia ancora possibile?

I nostalgici degli anni 90 devono tenere conto che, così facendo, il Pd rischia di lasciare una autostrada al M5S. Di fronte alle tensioni sociali che aumenteranno, il partito di Conte rischia di essere visto come il riferimento più credibile per quel malessere. Lo dico io che sono stato spesso accusato di ecsessiva sintonia con il M5S: non merita questo regalo un partito che risponde al disagio sociale solo in termini di assistenzialismo. I fatti costringeranno chiunque vincerà il nostro congresso a fare i conti con i temi della de-globalizzazione, di cui discutono tutte le forze progressiste del mondo.Temi che anche la destra ha colto, come dimostrano le parole di Tremonti e del ministro Urso che ha convocato i sindacati per discutere di politiche industriali. Parole, per la verità, alle quali non sta seguendo nessun fatto. Lo dimostrano la vicenda Ilva e l’assenza di strumenti nella legge di bilancio.

Dopo l’approvazione del nuovo manifesto oggi il Pd ne ha due: quello del 2008 e del 2023. Sono molto diversi tra loro.

Direi che fa più testo quello appena approvato, anche senza abrogare esplicitamente il precedente. Ma ammetto che questa situazione è una spia delle difficoltà e delle incertezze del Pd. Spero che dopo il congresso si faccia finalmente la costituente.

Bonaccini dice che il manifesto del 2008 è ancora attuale.

In assemblea sono state dette cose diverse da tutti. Mi auguro, nell’interesse della credibilità del Pd, che si tenga fede a quanto detto. Perché altrimenti avrebbe votato anche lui un nuovo manifesto che dice cose diverse?

Forse si ritiene che questo passaggio alla fine non conti nulla. Che deciderà tutto il nuovo segretario legittimato dalle primarie.

Non voglio pensare che sia così, non fosse altro per il riguardo alle personalità del comitato degli 87 e a Letta. Questo partito avrà bisogno anche nei prossimi mesi di una interlocuzione con la società e con la cultura. Sarebbe un precedente molto negativo.

I nuovi arrivati di Articolo 1 sono sotto accusa per le posizioni contrarie all’invio di armi.

Risolvere la questione con scomuniche o richiami all’ordine mi pare un’idea balzana. Tra i nostri elettori ci sono molte preoccupazioni sull’escalation militare e perplessità di cui dobbiamo farci carico. Un pacifismo di sinistra e cattolico che fanno parte del nostro dna.

Nel ventennale della morte di Gianni Agnelli abbiamo assistito ad una sorta di beatificazione.

Non si è sviluppata alcuna capacità critica su una figura che è l’emblema di un rapporto non sempre sano tra stato e mercato. In rapporto che è stato la premessa al progressivo disimpegno del gruppo dall’Italia, nonostante il forte sostegno pubblico, anche recente. segno di una subalternità dell’Italia al gruppo. Cosa che non è accaduta in Francia, dove lo stato ha vincolato le risorse alla difesa della dimensione francese di Stellantis.

Il ministro dell’Istruzione Valditara propone stipendi differenziati per gli insegnanti da nord a sud e finanziamenti privati alla scuola.

Come si dice, tre indizi fanno una prova. Prima l’introduzione della parola «merito», poi l’idea che la scuola debba umiliare. Ora i privati e le gabbie salariali. E’ evidente che il governo intende smantellare la scuola pubblica

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COMMENTI. Enrico Mattei, un grande innovatore, non avrebbe apprezzato che il suo nome fosse speso per qualificare una delle operazioni energetiche più retrograde

Un governo fossile rinfrancato da una debole opposizione

L’hanno chiamata “Operazione Mattei”, cioè con il nome di uno dei più geniali industriali italiani del dopoguerra. Forse hanno pensato che quel nome avrebbe valorizzato il tentativo del nuovo governo italiano di fare dell’Italia un grande deposito di gas per distribuirlo poi nell’intera Europa, liberandola dalla sua cronica dipendenza da quello russo. Per questo motivo la presidente del consiglio Meloni è andata in Algeria, ovviamente accompagnata dal presidente dell’Eni a mendicare un aumento delle sue forniture, e per la stessa ragione il ministro degli esteri Tajani si è recato in Egitto, il paese che ha ucciso Giulio Regeni e tiene in ostaggio Patrick Zaki.

Dubito che Enrico Mattei avrebbe apprezzato che il suo nome fosse speso per qualificare una delle operazioni più retrograde come questa, anzi sono convinto che essendo un grande innovatore, oggi metterebbe la sua intelligenza e capacità imprenditoriale al servizio delle fonti di energia rinnovabile.

Al di là del nome l’intera operazione rafforza il sospetto che il paese del sole, del vento e con il più grande patrimonio idroelettrico europeo non utilizzerà queste sue materie prime ma rimarrà ancorato all’energia fossile che fa male al clima e costa cara per quanti soldi vengano buttati per contenerne il prezzo.

Scuole chiuse per neve dall’Emilia alla Basilicata, nelle Marche la Protezione Civile lancia l’allerta fiumi, più in generale il 2022 è stato l’anno più caldo dal 1800 e ha registrato un aumento del 55% degli eventi estremi rispetto al 2021.

Che c’azzecca col gas e il viaggio della Meloni?, avrebbe detto Di Pietro l’ex ministro delle infrastrutture, nonché uno dei magistrati che con “Mani Pulite” misero fine alla prima repubblica, ma non alla corruzione.

Ed invece le due cose sono in stretta relazione, connesse dal cambiamento climatico visto che se si continua a produrre energia bruciando il gas, il petrolio e il carbone il clima cambia e ci espone a conseguenze come quelle che questo paese sta vivendo con continuità, dalle inondazioni nelle Marche, alla frana di Ischia per citare le più recenti. Sarebbe un importante passo avanti se chi governa il paese capisse la relazione fra le due cose, soprattutto che il sistema mediatico smettesse di raccontare che non si tratta di catastrofi naturali ed imprevedibili, ma disastri annunciati da rapporti scientifici. Soprattutto aiuterebbe l’opinione pubblica a capire che continuare col fossile espone il paese a costi pesantissimi sia sul piano economico che su quello della sicurezza collettiva (caro bollette e inflazione, disastri climatici).

Al rientro i nostri strateghi hanno però confuso le acque, parlando di mix energetico dell’indispensabilità per il paese di sviluppare le fonti rinnovabili alle quali serve tempo, quindi senza rinunciare alle fonti fossili. Detta così sembra una constatazione di buon senso ed invece sono balle. Non c’è nessun mix. Premesso che nel 2022 le emissioni climalteranti del paese sono aumentate, bastano alcuni dati per far comprendere che non c’è nessun mix energetico che indichi che si sta accelerando sulle fonti rinnovabili e decelerando sul fossile.

Secondo il gestore della rete elettrica Terna, le fonti rinnovabili hanno coperto nel 2022 solo il 31,1 della domanda elettrica toccando il livello più basso degli ultimi anni (36 nel 2021, 38 nel 2020) Eppure il presidente dell’Enel Starace ci ricorda che sono fermi per le interminabili pratiche autorizzative fra i 70 e gli 80 GW fra solare e fotovoltaico (per capire la dimensione di quanto viene tenuto fermo nel 2022 la richiesta di elettricità è stata di 316 Gwh).

Le comunità energetiche, che darebbero un grande contributo di partecipazione cittadina oltre a ridurre le bollette, sono ferme per disinformazione e complessità degli iter burocratici. Si può proseguire con la ferma opposizione esercitata le settimane scorse dal governo alla direttiva comunitaria (definita una tassa patrimoniale occulta) che obbliga, entro il 2033, gli stati membri a intervenire per garantire un patrimonio abitativo virtuoso nei suoi consumi energetici (1/3 dei consumi energetici totali). Infine in continuità con Draghi il governo si oppone alla direttiva europea con cui si intende mettere fuori legge entro il 2035 le auto che vanno a benzina e gasolio.

Questo, ma lo era anche quello Draghi, è un governo ostinatamente fossile a cui manca però una opposizione che lo incalzi su queste scelte disastrose per il paese.

Comunità energetiche; accelerazione delle procedure per iniziare a installare almeno una parte dei progetti rinnova sostegno della direttiva comunitaria sull’efficientamento del patrimonio abitativo; rapida approvazione di un piano di adattamento al cambiamento climatico, ecco quattro obiettivi su cui cominciare a rendere visibile un’opposizione non solo in parlamento, ma anche nel paese

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Car* compagn* ed amic*,
Tommaso Speccher è uno dei soci di Anpi che ho avuto l'onore e il piacere di conoscere, già  libero docente presso le Università di Verona, Berlino e Friburgo, che attualmente opera come divulgatore,  traduttore e ricercatore presso alcune istituzioni museali berlinesi (Museo Ebraico, la Topografia del Terrore, la Casa della Konferenz Wannsee).
L'ultimo suo lavoro di ricerca, pubblicato da Laterza, si titola: "La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo".
Mi permetto di consigliarvene la lettura, molto interessante e, soprattutto, ben documentata.
Si scoprirà che se l'Italia ha ancora troppi problemi aperti con la propria storia con la quale  non ha fatto molti conti, anche per la Germania la battaglia per la memoria non è per nulla scontata ed è sempre sotto attacco.
In tempi di revisionismo storico e di rigurgiti di destra di ogni tipo, è una lettura molto utile.
Grazie per l'attenzione e mi scuso con coloro per i quali un mio consiglio può risultare molesto.
Franco Di Giangirolamo
 
 
L’erba del vicino è sempre più verde. O così sembra. Ma occorre osservare con attenzione al di là della siepe (nel nostro caso al di là del confine) per essere davvero certi che le cose stiano come la prima impressione suggerisce. Tommaso Speccher, oggi attivo presso alcune importanti istituzioni museali berlinesi quali il Museo ebraico, la Topografia del Terrore e La Casa della Conferenza di Wansee, nel suo recente volume edito da Laterza nella collana Fact checking: la storia alla prova dei fatti smonta, uno a uno, i luoghi comuni in base ai quali crediamo che il popolo tedesco abbia fatto prima e meglio di noi i conti col tragico passato. Il saggio ripercorre puntualmente i passi compiuti dalla Germania, o dalle due Germanie, mostrando come i dibattiti collettivi attorno ai crimini nazisti siano spesso caduti in momenti di vergognoso oblio se non di rimozione, o abbiano, attraverso discorsi pubblici, strumentalizzato politicamente il passato per orientare il futuro.
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Entro giovedì la LeonardoSPA si assicurerà un contratto plurimiliardario per l’invio di sistemi d’arma FSAF SAMP/T (Famiglia di Future Terra-Aria Terra-Aria Medio Raggio / Terrestre), un sistema missilistico terra-aria sviluppato dal consorzio europeo EUROSAM che usa missili con un raggio d’azione di 100 km per l’intercettazione di aerei e 25 km per quella dei missili. Il bottino dovrà essere diviso con l’azienda francese Thales.

I tempi di realizzazione dei sistemi d’arma SAMP/T sono lunghi (almeno 8 mesi) e contrastano con la disperata necessità dell’esercito ucraino di contrastare l’indiscusso dominio dei cieli delle forze areospaziali russe. Per questo gli Stati Uniti fanno fortissime pressioni sul governo Meloni affinché consegni immediatamente all’Ucraina almeno 2 sistemi d’arma, trovando forte resistenza da parte delle Forze Armate Italiane, non desiderose di coinvolgersi direttamente nel conflitto ucraino. Infatti come è per I carri armati Leopard 2, i soldati ucraini non sanno usare queste armi moderne quindi, se si vuole che i SAMP/T siano subito operativi sul fronte, occorre inviare personale militare italiano o francese. La loro presenza sarebbe un atto di guerra contro la Russia.

Il lavoro di lobby della LeonardoSPA è sotterraneo ma efficace. Il Partito Democratico e Renzi hanno formato una coalizione con Fratelli d’Italia per ottenere il via libera definitivo di Montecitorio entro giovedì per il decreto legge che prolunga per tutto il 2023 l’autorizzazione al governo di inviare armi all’Ucraina (compresi i SAMP/T). Un provvedimento già approvato al Senato nonostante che violi la Costituzione e la legge 185 del 1990 che proibisce l’esportazione ed il transito di materiali di armamento verso i Paesi in stato di conflitto armato.

Il lavoro di lobby sembra aver convinto anche i partiti di minoranza della coalizione di governo : Lega e Forza d’Italia mentre è tempo perso con il Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra che hanno dato ai propri parlamentari indicazioni di voto contrario.

Il via libera all’invio di armi oltre che far guadagnare contratti d’oro alla LeonardoSPA e altre ditte belliche italiane inviando armi che l’esercito russo sistematicamente distrugge o, addirittura, cattura per usarle contro gli ucraini (come testimoniano le prove presentate provocatoriamente dall’Ambasciata russa a Roma), dovrebbe confermare la compattezza della maggioranza di governo e del principale partito di opposizione (il PD) riconfermando l’autolesionistica sudditanza a logiche distruttive e guerrafondaie di Stati Uniti e NATO che sono aliene alla cultura di Pace sorta in Italia alla fine della guerra civile e la sconfitta dell’ultimo baluardo del Fascismo : La Repubblica di Salò.

Sul tema interviene Alessandro di Battista giornalista, ex esponente dell’ala movimentista e radicale del Movimento 5 Stelle, oggi leader dell’opposizione extraparlamentare. L’intevento che FarodiRoma riporta in versione integrale è stato pubblicato dal Di Battisata sulla piattaforma social Tik Tok.

«In Ucraina di armi, tra l’altro micidiali, ne stanno arrivando moltissime dal 2014 a seguito del colpo di stato di Maidan, dai britannici e dagli americani, che sono i due paesi tra l’altro che detengono le principali multinazionali che fabbricano armi ; le prime 5 al mondo sono americane e la sesta è la Bei System Britannica.

Io posso contestare o meno quello che hanno deciso altri Stati, però io sono italiano e quindi contest le scelte del governo, prima Draghi e oggi il governo Meloni perchè sta facendo la stessa identica cosa. Oggi Renzi ha “non faremo un’opposizione troppo dura in un certo senso alla Meloni perchè comunque è italiana”, ha detto Renzi che sta all’opposizione.

Il punto, ripeto, è chiaro. C’è una Costituzione, c’è l’articolo 11 e sopratutto l’Italia storicamente ha un rapporto con la Russia privilegiato dai tempi di Enrico Mattei, dell’Avvocato Agnelli che ha stretto degli accordi con Mosca. Il soft-power italiano quando venne trasmesso in epoca sovietica Sanremo in diretta sulla televisione di Stato russa.

L’Italia avrebbe dovuto giocare un ruolo di mediazione di un certo livello per la Pace ma oggi fondamentalmente ha deciso di seguire tutti I dickat della NATO e ha regalato il ruolo di mediatore di pace a Erdogan che tra l’altro è anche un nostro avversario geopolitico in Libia. Non dimentichiamoci che è quella dannatissima Guerra che anche degli esponenti dell’attuale governo Melone avallarono nel 2011 ha consegnato parte della Libia alle forze russe, o forze paramilitari russe , chiamiamole in questo modo, e parte anche a Erdorgan ».

Il conflitto in Ucraina per l’occidente è solo un immenso e sporco business. A conferma di ciò giunge la notizia data dal quotidiano britannico The Guardian che la Polonia chiederà all’Unione Europea il risarcimento del costo totale dei carri armati Leopard2 che intende inviare all’Ucraina. «Faremo richiesta di rimborso all’Unione Europea, sarà un’altra prova di buona volontà», ha detto il premier Mateusz Morawiecki in conferenza stampa.

Occorre sottolineare che il governo di destra polacco è stato in prima linea (assieme a Kiev e agli Stati Uniti) nel fare pressioni sulla Germania per l’invio di questi carri armati di fabbricazione tedesca e, dinnanzi al saggio rifiuto di Berlino, ha insistito per ottenere l’autorizzazione a inviare i Leopard2 acquistati, in quanto il loro invio era considerato un «dovere morale per difendere il popolo ucraino dall’invasore russo che deve essere adempito al di là di ogni considerazione politica o economica» secondo quanto dichiarato due giorni fa ai media polacchi dal Premier Morawiecki.

Fulvio Beltrami

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MEDITERRANEO. Una sequenza di eventi storici e contemporanei che dovrebbero essere noti a tutti

Il gas algerino «scoperto» da Giorgia Meloni Giorgia Meloni e Abdelmadjid Tebboune - LaPresse

Sono decenni che l’Italia cerca di diventare un hub del gas nel Mediterraneo, come ha «scoperto» ieri la presidente del Consiglio Meloni e prima di lei Draghi. Si tratta di una sequenza di eventi storici e contemporanei che dovrebbero essere noti a tutti.

1) La posizione privilegiata dell’Eni di Enrico Mattei in Algeria – ucciso nel 1962 nell’incidente aereo di Bascapé – fu ottenuta con il finanziamento della guerriglia dell’Fnl contro la Francia, potenza coloniale che da allora ci giurò ostilità eterna. L’inaugurazione del monumento a Mattei ad Algeri coincise con la visita del presidente Mattarella nel novembre 2021, prima della guerra in Ucraina, quando l’Algeria era già il nostro maggiore fornitore di gas con la Russia.

2) Negli anni’90, quando in Algeria ci furono 300mila morti in un massacro infinito, carabinieri, polizia e Servizi hanno sostenuto i generali algerini contro i gruppi islamisti armati fornendo intelligence, intercettazioni e apparati di sicurezza. Da allora l’Algeria si chiuse ermeticamente e neppure le manifestazioni del movimento Hirak hanno cambiato per ora la situazione.

3) Oltre al gasdotto algerino Transmed (che passa in Tunisia) ne abbiamo uno diretto con la Sicilia dalla Libia, il Greenstream, da 30 miliardi di metri cubi che funziona poco e male perché il Paese è nel caos di una guerra tra milizieinterne ed esterne, dopo quella Nato del 2011. Ma in Libia, divisa tra la Tripolitania (dove c’è la Turchia) e la Cirenaica (sotto influenza egiziana, russa e francese) c’è più gas (e petrolio) che in Algeria.

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4) L’Algeria ci darà il gas che le avanza perché prima deve soddisfare i consumi interni e i nuovi investimenti sia nel gas che su altre fonti hanno bisogno di tempo per diventare operativi.

5) Se non ci fosse stata la guerra in Ucraina continuavamo ad acquistare gas russo perché costa meno di quello offshore che si vuole estrarre da Cipro ed Egitto (e per il quale servono i rigassificatori perché i progetti di gasdotti da lì sono fermi).

6) Si straparla di gas dell’Azerbaijan (a spese della pace in Armenia e Nagorno-Karabakh) che ne ha poco e lo deve distribuire anche in altri Paesi europei oltre che in Turchia. Più che il gas azero è probabile che dalla Turchia arrivi nei tubi il gas russo visto che Ankara non ha mai messo sanzioni a Mosca.

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7)Il presidente algerino Tebboune ha ammonito ieri nel suo incontro con Meloni contro i soprusi di Israele nei confronti dei palestinesi, ma soprattutto gli algerini ci daranno gas se li sosterremo ancora sulla questione del Sahara occidentale per cui Algeri è in rotta di collisione con Marocco, Usa e Spagna. Nel 2020 Trump ha riconosciuto la sovranità del Marocco sulla regione nell’ambito della normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Marocco e Israele: l’Italia si è pronunciata per un compromesso tra le parti ma di fatto appoggerebbe il Polisario e la Repubblica Araba Saharawi il cui governo è in esilio a Tindouf in Algeria. L’Europa con l’accordo di libero scambio Ue-Marocco ha riconosciuto l’influenza di Rabat sulle acque davanti al Sahara occidentale ma in aperto contrasto con le risoluzioni della Corte di Giustizia europea (ecco perché i marocchini hanno pagato la rete di lobbyng di Panzeri).

8) Algeri resta il più forte alleato di Mosca nel Maghreb e la Sonatrach, partner dell’Eni, è anche in joint venture con la russa Gazprom nel settore energetico, un’intesa che ha spinto Putin a condonare 4,7 miliardi di debito algerino.
In conclusione tutto ha un costo, in primis politico e poi economico. La politica mediterranea implica prese di posizione precise e autonome dagli Usa e dagli alleati europei. Il resto è solo propaganda

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GUERRA O PACE . Il terribile conflitto armato in Ucraina è stato fin dal principio sfruttato per giustificare quello che nei fatti potrebbe diventare il più massiccio aumento di spesa militare globale degli ultimi 50 anni

 Il cancelliere tedesco Scholz parla ai soldati di fianco a un Leopard 2 - Ap

In queste ore la Camera ha iniziato la discussione finale (voto previsto a breve) sulla conversione del decreto-legge governativo di Dicembre che proroga l’autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore dell’Ucraina. Un dibattito che non dovrebbe portare novità di rilievo, non solo perché il voto al Senato ha già reso chiaro l’ampio consenso dietro questa norma ma soprattutto perché il governo Meloni ha deciso di allinearsi alle disposizioni già messe in pratica dall’esecutivo Draghi nei primi mesi di guerra. Bloccando il Parlamento in sterili discussioni generiche (più di posizionamento mediatico-politico) e privandolo di un vero ruolo di controllo, con il meccanismo di “secretazione” del decreto interministeriale che individua i sistemi d’arma da inviare a Kiev.

Per questo sono di sicuro più interessanti le diverse dichiarazioni del Ministro della Difesa Crosetto sui dettagli di tale lista e in un altro senso – più di prospettiva – la presentazione delle linee programmatiche del suo Dicastero davanti alle competenti Commissioni riunite, a partire da questo mercoledì. Poiché da tali linee potranno venire importanti indicazioni su come il cambiamento di scenario imposto dal conflitto in Ucraina verrà recepito per il futuro anche dalle Forze Armate e dal “sistema Difesa” del nostro Paese.

Va ricordato infatti come il terribile conflitto armato in Ucraina è stato fin dal principio sfruttato per giustificare quello che nei fatti potrebbe diventare il più massiccio aumento di spesa militare globale degli ultimi 50 anni. La Germania vuole arrivare a 100 miliardi annui, Macron vuole raddoppiare il budget militare francese dal suo insediamento, il Congresso USA ha appena votato un aumento annuo dell’8% (oltre 50 miliardi di dollari in più di quanto proposto da Biden), la Cina si è da tempo consolidata come secondo investitore armato mondiale. E anche l’Italia irrobustisce il suo percorso verso il fantomatico 2% del PIL, mettendo a budget per il 2023 ben 26,5 miliardi di euro complessivi.

In questo scenario è quasi persino ovvio che si continui ad insistere su una soluzione meramente militare della guerra in Ucraina (cosa ben lontana da una soluzione di Pace). E continua a risultare bizzarra la scelta italiana di non rivelare nel dettaglio le proprie forniture armate: decisione che apre peraltro la strada a possibili manipolazioni e “fake news”, come quelle recentemente diffuse dall’Ambasciata russa a Roma. Visto il coinvolgimento ormai chiaro di tutto il blocco occidentale nelle operazioni militari ucraine è difficile sostenere l’utilità di omettere i dettagli: la consapevolezza di quanto si sta inviando aiuterebbe invece a capire che tipo di mosse successive si dovranno mettere in campo in termini di ripristino magazzini, strutturazione dello strumento militare, strategie e posture, scelte di procurement conseguenti. Ma forse è proprio questo l’obiettivo.

Il dibattito parlamentare e politico italiano si colloca in una situazione apparentemente tesa a livello di schermaglie mediatiche (o sui social) in particolare per l’approccio non ancora formalizzato della Germania sull’invio (diretto o indiretto) dei carri armati Leopard. Ma in realtà dopo il summit di Ramstein la strada pare chiaramente tracciata. Washington ha annunciato nuovi aiuti militari per diversi miliardi, mentre il Consiglio degli Esteri UE ha deciso una nuova tranche di 500 milioni per la cosiddetta “Peace Facility” (in realtà lo strumento che copre finanziariamente l’invio di armi) che sale dunque a 3,6 miliardi di euro complessivi.

Il che porterà ad un aumento quantitativo, oltre che qualitativo, dei sistemi d’arma che arriveranno nei prossimi mesi nella disponibilità di Kiev. E che ci porta anche ad una valutazione dei costi per l’Italia: prima di queste ultime decisioni come Osservatorio Mil€x lo stimavamo in almeno 485 milioni, mentre di recente i Ministro degli Esteri Tajani ha parlato di “circa un miliardo” di forniture (anche se non è chiaro se si riferisca al costo diretto o al controvalore di magazzino).

Chiunque non si cibi solo della retorica interessata di chi magnifica l’importanza della guerra standone bene a distanza (tranne quando deve incassare vantaggi) non può che trarre gravi preoccupazioni da questa situazione. Da un lato non è chiaro come l’ennesima fornitura militare definita “cruciale” (oggi sono i Leopard, come prima sono stati i Javelin, gli Himars, i Patriot…) possa avvicinare la fine di un confitto in cui l’aggressore verso cui si sta facendo fronte comune è stato dato per spacciato già troppe volte. E la cui leadership sempre più pericolosamente utilizza minacce nucleari come strumento di ricatto definibile come “mafioso” (d’altronde war is a racket, scriveva giustamente il generale Butler…).

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Dall’altro non è nemmeno chiaro come questo seguire quasi pedissequamente la strategia di Washington (e quando anche timidamente una voce esce dal coro l’attacco a più livelli è pesante, come si è visto per Scholz) possa prefigurare una qualche prospettiva positiva per l’Unione Europea, anche solo dal punto di vista “di potenza” (militare e politica), tralasciando approcci di pace.

Diversamente dalle inconsistenti e strumentali retoriche spese a piene mani, l’Europa sta uscendo a pezzi a seguito del primo anno di invasione russa dell’Ucraina: la Francia continua a volersi ritagliare un ruolo di braccio militare in quanto unica potenza nucleare del continente, la Germania oscilla tra vari interessi con un difficile equilibrio politico interno, i Paesi dell’est hanno amplificato il loro approccio da falchi pro-NATO, è pure crollato il caposaldo della neutralità scandinava e in generale c’è poco coraggio da parte di governi o delle stesse istituzioni europee nel proporre percorsi di pacificazione. Gli elementi costitutivi dell’Unione vengono tralasciati e dimenticati, solo andando a traino dei pochi timidi tentativi diplomatici, mentre dalle parti di Bruxelles sono stati solo capaci di mettere soldi a disposizione dell’industria delle armi.

Un comparto, quello militare-industriale, che fin dal principio dell’invasione ha visto crescere le proprie aspettative di alto guadagno – lo dimostrano gli aumenti in borsa addirittura precedenti al 24 febbraio scorso – soprattutto per i giganti di oltre Atlantico. Una recente stima colloca in circa 22 miliardi di dollari il possibile aumento di vendite di armi statunitensi ai partner NATO come semplice effetto della necessità di mettere stock a magazzino a seguito dell’invio di aiuti armati a Kiev.

Se invece vogliamo tornare a quello che conta davvero, cioè alla vita e alla prospettiva di futuro delle popolazioni e comunità in Ucraina e di tutti gli altri luoghi del mondo in guerra, bisognerebbe smetterla di banalizzare ogni decisione come se si stesse solo asetticamente giocando ad un Risiko globale. Pericoloso per i più, ma vantaggioso in termini economici e politici per alcuni gruppi di potere. Non a caso sono quasi esclusivamente gli analisti “geo-politici” (o coloro che hanno vantaggi specifici di varia natura) a ragionare in tali termini, che invece raramente vengono proposti dai militari (ben più seriamente consci degli impatti negativi delle guerre).

Si potrà forse discutere all’infinto del ruolo delle forniture di armi nei mesi scorsi, ma ciò che è drammaticamente chiaro è la loro inefficacia nell’aiutare a risolvere il conflitto in una direzione di Pace reale. Perché – è altrettanto chiaro – sono stati sempre deboli, superficiali, interessati i (pochi) tentativi di costruzione di un percorso diplomatico che curi l’insicurezza globale che è la motivazione primaria e di base anche di questa guerra. Percorsi diplomatici invece vanamente invocati da popolazioni e società civili.

Clemenceau diceva che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari. Il problema è che la Pace è ancora più seria ed importante per lasciarla in mano a decisori politici che vedono le armi come unica soluzione.

* Coordinatore Campagne – Rete Italiana Pace e Disarmo

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