GOVERNO. La prima premier della destra radicale arriva al traguardo tra cambi di rotta, passi falsi e un obiettivo: rassicurare i potenti. Più che del Msi, l’eredità sembra quella della peggior Dc. Ma per essere democristiani ci vuole abilità e di quella, sinora, il governo Meloni non ha dato prove di sorta
Giorgia Meloni esce dal Quirinale dopo il giuramento nelle mani del presidente Mattarella - LaPresse
La pagella dei 100 giorni è un gioco e come tutti i giochi ha il suo fondo di verità. Ma come si fa ad assegnare il voto a un governo che ha fatto in realtà pochissimo? Le zuffe, sale della politica, ci sono ma sempre e solo intorno a parole spesso contraddittorie, a promesse doverosamente vaghe, ipotesi senza data di scadenza, segnali privi di sostanza. Quando ha provato a muoversi davvero, come sul contante, sui rave o sulla benzina, Giorgia Meloni ha per lo più fatto danno, dovendo poi impiegare tempo ed energie per disfare correggendo lo svarione di turno.
LE ATTENUANTI per l’immobilismo ci sono. È il primo governo che ha visto la luce in autunno, col fiato della finanziaria già sul collo e anche su quel fronte con margini di manovra ridotti all’osso. Un barlume, una scelta indicativa, un passo coraggioso sarebbero comunque stati possibili. Invece, in quella che a tutt’oggi rimane la sola legge rilevante, il governo Meloni ha scelto di giocare di rimessa. Ha seguito pedissequamente le orme e forse anche la cortesi indicazioni di Mario Draghi. Per il resto non è andato oltre il livello dei “segnali”: carburante per i talk show ma nel concreto materia poco significativa. Dove ha osato prendere una decisione incisiva, cioè sulle accise e il prezzo della benzina, la premier si è infilata in un pantano dal quale sarà difficilissimo uscire. Peccato veniale. La coperta era effettivamente corta e sborsare un miliardo e passa al mese non era scelta che si potesse fare a cuor leggero. Nessun calcolatore di cassa imponeva però di provare a rimediare con una mossa sgangherata come il decreto “antispeculazione”: un passo falso certamente inutile, probabilmente controproducente, che ha solo fatto imbufalire parte della sua base elettorale. Era già successo con la retromarcia sul contante. Rischia di capitare di nuovo, a breve, con le concessioni balneari.
LA FORMULA della presidente del consiglio Meloni, nei casi di conflitto interno alla sua maggioranza o, peggio, con l’elettorato che dovrebbe rappresentare, non è precisamente innovativa: rinviare, rinviare, rinviare. Alla scadenza dei primi 100 giorni la premier decisionista è impegnatissima a non decidere sui balneari, sull’autonomia differenziata, sul Pnrr e lì il guaio rischia di essere grosso, sul presidenzialismo o almeno sulla strada da imboccare per raggiungere quel traguardo. Parlamento o disegno di legge governativo, questo è il dilemma! L’esito è sconcertante: un dibattito politico a tratti acerrimo ma articolato sul nulla. È possibile che il pubblico votante non se ne accorga ma la rissa quotidiana sulla giustizia, tormento eterno, si accende tutti i santi giorni intorno a una riforma che ancora non esiste. Lo stesso intervento sulle intercettazioni, pietra attuale dello scandalo, è al momento solo fumo: parole pronunciate dal ministro della Giustizia Carlo Nordio e puntualmente contraddette a stretto giro dal guardasigilli Carlo Nordio. C’è tempo.
NON SI PENSI tuttavia che la prima presidente del consiglio proveniente dalla destra radicale se ne stia con le mani in mano. In realtà è attivissima. Solo che l’obiettivo del suo darsi da fare sembra essere non il mantenere le promesse fatte all’elettorato di destra bensì il dimostrare ai poteri nazionali e soprattutto internazionali che quelle ruggenti promesse erano chiacchiere da campagna elettorale. Finirà per dover strillare dal palco di qualche comizio: «Yo no soy Giorgia». Sul fronte più nevralgico, quello dei rapporti con la Ue, più che di frenata si tratta di inversione di marcia repentina. Chi se la sarebbe immaginata, appena un anno fa, sorella Giorgia trasformata in vestale del rigore, dei conti pubblici prima di tutto, addirittura dell’austerità?
SU ALTRI FRONTI, invece, si registra solo la frenata a tavoletta. Il blocco navale contro gli immigrati si è sbriciolato in una serie di norme odiose ma fortunatamente quasi inapplicabili. Il terremoto sulla giustizia si sta stemperando nell’impegno solenne a combattere per «una giustizia giusta e veloce». Sic. Per fortuna dei governanti un fronte sul quale bastonare senza scontentare i potenti, incassando anzi i loro applausi, c’era e lì non si è guardato in faccia a nessuno: il reddito di cittadinanza è stato sbrigativamente cassato, trasformato addirittura in una sorta di salario minimo al ribasso.
L’EREDE di Giorgio Almirante sembra avere in mente un modello preciso, però in negativo: il governo gialloverde del 2018. Per quanto in modo spesso sgangherato e dilettantesco, quel governo provava davvero a realizzare quanto promesso in campagna elettorale dai due partiti che lo componevano: quota 100 contro la legge Fornero, il reddito di cittadinanza e il decreto Dignità contro la povertà, le sceneggiate di Matteo Salvini e gli sciagurati decreti Sicurezza nella guerra santa contro gli immigrati e le Ong. Mal gliene incolse. Giorgia Meloni ha imparato la lezione e naviga decisa in direzione opposta: rassicurare i potenti, se del caso rivalendosi su chi di potere non ne vanta alcuno. Più che del Msi, l’eredità sembra quella della peggior Dc. Ma per essere democristiani ci vuole abilità e di quella, sinora, il governo Meloni non ha dato prove di sorta
Commenta (0 Commenti)GERUSALEMME. Nel quartiere a più alta tensione, Mohammed Aliwat, 13 anni, ha sparato contro coloni ferendone due. L'attacco è avvenuto a 12 ore dall'attentato a Neve Yaacov in cui sono stati uccisi sette israeliani.
Gerusalemme, il luogo dell'attentato nel quartiere di Silwan - Ap
Mohammed Aliwat ha solo 13 anni, poco più di un bambino. Ieri mattina poco dopo le 10, con in tasca una pistola, è uscito di casa nel suo quartiere, Silwan, e si è nascosto dietro un’automobile. Ha atteso il passaggio di un gruppo di israeliani e ha fatto fuoco ferendone due: un soldato di 22 anni non in servizio e suo padre di 47 anni. Entrambi sono in condizioni gravi ma stabili. Ferito non grave anche il giovanissimo attentatore, arrestato rapidamente dalla polizia che di solito presidia Silwan con decine di agenti. Questo quartiere ai piedi della città vecchia è uno dei punti di maggiore tensione tra coloni israeliani e abitanti palestinesi nel settore Est, occupato, di Gerusalemme. A Silwan, luogo dove secondo il racconto biblico sorgeva la cittadella di re Davide, il movimento dei coloni da oltre trent’anni porta avanti una lenta ma costante penetrazione. Gli scontri con gli abitanti palestinesi perciò sono quotidiani.
La tensione è ancora più alta in questi giorni per l’uccisione da parte della polizia di Wadih Abu Ramoz, un 16enne che avrebbe lanciato una molotov durante le proteste per il raid sanguinoso dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin in cui giovedì sono morti nove palestinesi tra cui un’anziana. Le autorità e buona parte dei media israeliani hanno descritto l’attacco di Mohammed Aliwat come il risultato «dell’istigazione alla violenza condotta dalle organizzazioni terroristiche» sui palestinesi più giovani. Per gli abitanti di Silwan invece i colpi sparati dal ragazzo 13enne sono la conseguenza dell’oppressione israeliana, soprattutto dei palestinesi più giovani, oltre che una reazione all’uccisione di Wadih Abu Ramoz, cugino di secondo grado di Aliwat. In rete accanto ai post di approvazione dell’attacco a Silwan qualche palestinese ha posto interrogativi sul possesso di una pistola da parte di un ragazzino.
La sparatoria a Silwan è avvenuta poco più di 12 ore dopo l’attacco armato compiuto venerdì sera da Alqan Khairi a NeveYaacov alla periferia nord di Gerusalemme. Le raffiche sparate dall’attentatore davanti a una sinagoga hanno ucciso sette israeliani e ferito numerosi altri, due dei quali restano in condizioni critiche: un ragazzo di 15 anni e un giovane di 24. Si è trattato dell’attentato più grave a Gerusalemme negli ultimi 15 anni. Tra i morti c’è anche una donna ucraina e da Kiev il presidente Volodymyr Zelensky ha espresso solidarietà alle vittime e condannato «il terrorismo ovunque, in Israele come in Ucraina». Il presidente israeliano Isaac Herzog da parte sua ha lanciato un appello alla coesione nazionale. «Attacchi del genere – ha detto Herzog – ci ricordano una semplice e dolorosa verità. Al di là dei dissensi che possiamo avere fra di noi, di fronte ai nostri nemici che vogliono farci del male dobbiamo mantenere la nostra unità». Parole che forse rappresentano un monito a non intensificare ulteriormente la protesta rivolto alle migliaia di israeliani che si riuniscono ogni sabato a Tel Aviv contro la riforma della giustizia avviata dal governo di estrema destra di Benyamin Netanyahu. In piazza Kaplan ieri la manifestazione di protesta è stata preceduta da un minuto di silenzio in memoria delle vittime dell’attentato a Gerusalemme.
Il governo è chiamato dagli ultranazionalisti ad agire subito con pugno di ferro contro i palestinesi. Netanyahu è sotto pressione e persino un leader della destra più estrema, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, è finito sotto accusa perché non avrebbe messo in atto le politiche radicali annunciate in campagna elettorale. La previsione di molti è che si andrà verso una escalation con l’aumento dei raid dell’esercito israeliano nelle città in Cisgiordania, in particolare a Nablus e nel campo profughi di Jenin, le roccaforti della militanza armata palestinese. Un altro battaglione dell’esercito è stato inviato in Cisgiordania e la polizia ha schierato a Gerusalemme anche le unità speciali Yamam che tra venerdì e sabato hanno arrestato oltre 40 palestinesi. A quanto si è saputo, saranno puniti i parenti di Alqan Khairi anche se non sono coinvolti nell’attentato. L’espulsione dei familiari degli attentatori, la chiusura delle loro case e la concessione facile del porto d’armi, sarebbero alcune delle misure che si attendevano ieri in tarda serata al termine della riunione del Consiglio di difesa presieduto da Netanyahu.
Dai Territori occupati fonti palestinesi riferiscono forti pressioni statunitensi ed europee sul presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen affinché condanni l’attentato a Gerusalemme e torni a cooperare con Israele nella sicurezza dopo l’interruzione annunciata in risposta alla strage a Jenin. Il presidente palestinese, per ora, non sembra intenzionato a fare retromarcia. E ieri in un comunicato ha accusato il governo di Israele di essere «pienamente responsabile di questa pericolosa escalation» a causa della sua «continua attività criminale contro il popolo palestinese che ha portato a 31 morti questo mese, così come la costruzione di insediamenti, l’annessione di terre, la demolizione di case, gli arresti, una politica di apartheid e la profanazione dei luoghi sacri e della Moschea di Al-Aqsa». Parole che raccolgono consenso tra i palestinesi e nelle città della Cisgiordania si rafforza l’unità tra Fatah, il partito di Abu Mazen, e le altre formazioni palestinesi. Sviluppi politici che il segretario di stato Usa Blinken intende bloccare in modo da persuadere la leadership dell’Anp a riprendere la collaborazione con Israele quando tra qualche giorno sarà in visita ufficiale a Gerusalemme e a Ramallah. Intanto l’Ue pur riconoscendo quelle che descrive come «le legittime preoccupazioni d’Israele in materia di sicurezza» esorta lo Stato ebraico ad usare «la forza letale» solo come ultima risorsa
Commenta (0 Commenti)VERSO LE PRIMARIE. Da Gori a Nardella. Alla convention di Bonaccini i rottamatori del 2013 si fingono nuovi. Spunta l’ex 5S Giarrusso e scoppia la polemica: «Prima ci chieda scusa»
Alla convention milanese di Stefano Bonaccini, in un «talent garden» a pochi passi da porta Romana, sembra di precipitare nel 2013. In un format che fa tanto Leopolda, decine di interventi da tre minuti a testa col gong finale (tanto che Irene Tinagli sbuffa: «sembra di essere alla corrida»), stacchetti musicali by Cesare Cremonini, tutta la prima fila del renzismo sfila per l’intera giornata per dire che «bisogna cambiare la classe dirigente».
Da Pina Picierno, vicesegretaria in pectore che fa la padrona di casa, a Simona Bonafè, Dario Nardella, Giorgio Gori, Simona Malpezzi, Debora Serracchiani, i renziani non pentiti si preparano a scalare il partito dietro i rayban fiammanti di Bonaccini, che fu uno dei primi sostenitori di Renzi. In prima fila Lorenzo Guerini, burattinaio nell’ombra di tutta l’operazione: da settimane non dice una parola sul congresso, la sua influenza è opposta alla sua visibilità.
MANCANO SOLO MATTEO e Maria Elena, col primo che da casa ironizza sui social sulla presenza in sala dell’ex grillino Dino Giarrusso, improvvisamente convertito sulla via di Bonaccini dopo essere passato dall’alleanza con Cateno De Luca in Sicilia, accolto dal gelo della platea e dalle proteste di Gori: «Siamo troppo inclusivi, serve un limite».
E Renzi fa finta di arrabbiarsi: «Giarrusso? Finalmente smetteranno di dire che Bonaccini è renziano, sono felice per lui». Il fiorentino in realtà è un po’ arrabbiato perché l’amico Stefano, venerdì davanti ai cancelli di Mirafiori, ha osato dire che «intervenire sull’articolo 18 è stato un errore» e che «è tempo di superare il Jobs Act».
PICCOLI BUFFETTI, CHE NON scalfiscono la sostanziale identità delle piattaforme, all’insegna di quel «riformismo» che si limite a evocare genericamente la «lotta alle diseguaglianze», senza mettere in discussione le scelte di questi 15 anni. A partire dalla vocazione maggioritaria e dall’equidistanza tra lavoratori e imprenditori.
E così spunta Gori che grida «ricchezza, ricchezza», e non si capisce se sia un dato autobiografico o un programma politico. Arriva l’assessore di Roma Alessandro Onorato (sembra uscito da una convention di Forza Italia), e scomoda a sproposito Giuseppe Di Vittorio per dire che «è necessaria la collaborazione tra lavoratori e imprenditori». E aggiunge: «Certo che vanno messe da parte le persone che hanno fallito, qualunque azienda lo farebbe».
Ancora Gori: «Nel nuovo manifesto del Pd non c’è la parola crescita, ma guardate che non è una parolaccia». Serracchiani si infervora: «Siamo partiti con una fase costituente e siamo arrivati a alla liquidazione del Pd, questo è inaccettabile». Poi una stilettata a Schlein: «L’idea che il primo che passa possa fare il leader non mi convince».
I DIECI ANNI PASSATI sembrano una fastidiosa polvere da mettere sotto il tappeto. Il cuore del dibattito è la selezione della classe dirigente: «Ho fatto uno studio: più i nostri parlamentari sono produttivi, meno sono rieleggibili, bisogna cambiare i criteri», dice Irene Tinagli. Il sindaco di Bari Antonio Decaro è ancora più duro: «In questi anni ho visto persone assolutamente incapaci che hanno fatto i ministri grazie alla corrente giusta. La gente ci vota nei comuni nonostante siamo del Pd. Stefano aiutaci a cambiare questo partito!».
E via sfuriate contro il «partito romano» contrapposto a sindaci e amministratori. «Non ne possiamo più, noi le elezioni le sappiamo vincere, governiamo il 70% dei comuni, ma nessuno è mai venuto a chiederci come si fa». Sarcastica la replica di Orlando: «Almeno ai tempi di Renzi la rottamazione era invocata da giovani. Adesso sono persone tra i 50 e i 60 anni, è abbastanza comico».
IL LEIT MOTIV DI FONDO è questo: «Sui territori sappiamo coniugare il sogno e i fatti concreti, noi abbiamo la semplicità di parlare alla gente al bar», dice Nardella. «Siamo il popolo di chi si rimbocca le maniche per parlare con la gente». Cercando qualcosa di progressista, si trovano scuola e sanità pubbliche, difese a oltranza, e anche la transizione ecologica che però non deve disturbare troppo la crescita.
SECCA LA RETROMARCIA sull’autonomia differenziata, che pure è uno dei talloni d’Achille di Bonaccini, tra i primi a proporla con i colleghi leghisti Zaia e Fontana. «La Lega vuole dividere l’Italia, questo paese deve essere ricucito», tuona Matteo Ricci. E Piero De Luca, responsabile mezzogiorno della mozione: «Il progetto di Calderoli è irricevibile».
A METÀ MATTINA SUL PALCO si materializza Dino Giarrusso, l’ex jena tv che ha lasciato da pochi mesi il M5S di Conte al grido di «è diventato lo zerbino del Pd». «Entro in punta di piedi, negli anni ho criticato la sinistra perché le voglio bene. Credo nel progetto di Bonaccini». E cita De Gregori: «Sempre dalla stessa parte mi troverai..».
La platea è sbalordita, parte qualche fischio. «Prima dovrebbe scusa», s’infuria Fassino. «Ci ha infangato fino a ieri», gli fa eco Paola De Micheli. Nardella prima dice che «se c’è una persona che ci ha attaccato per anni e poi viene qui, è una nostra vittoria. Noi non abbiamo cambiato idea e non portiamo rancore». Poi si corregge: «Guai se qualcuno volesse salire sul carro del vincitore».
Ovazione per Gori che invita a metterlo alla porta. Provenzano, sostenitore di Schlein, è gelido: «Forse Bonaccini è stato mal consigliato». Secca anche Schlein: «Ognuno sceglie la sua squadra». Calenda si dice «allibito»: «Un sincero ringraziamento da parte del terzo polo…». Oggi gran chiusura col governatore emiliano
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BENZINA SUL FUOCO. Nuovo colpo di scena nella farsa sul decreto «anti-speculazione». Per l'Antitrust non solo è inutile, ma peggiora la situazione e non è «trasparente». I cartelli che espongono il prezzo medio regionale dei carburanti inducono in confusione gli automobilisti e contribuiscono ad aumentare i prezzi
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni - LaPresse
Il governo Meloni è un pugile suonato. Al centro del ring continua a prendere sberle sul decreto «trasparenza» che avrebbe dovuto rimediare all’aumento dei prezzi dei carburanti provocato dalla sua decisione di rimuovere il bonus sulle accise nella legge di bilancio.
IERI, durante le audizioni alla commissione Attività produttiva della Camera il provvedimento è stato demolito dal presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust), Roberto Rustichelli. A finire nel mirino è stata una delle misure principali che, secondo l’esecutivo, avrebbe dovuto fermare la «speculazione» fatta dai benzinai: i cartelli che dovrebbero esporre il prezzo medio regionale dei carburanti. La trovata è inutile, indurrebbe in confusione gli automobilisti, è tutt’altro che «trasparente» e contribuisce ad aumentare ancora di più i prezzi.
PREOCCUPATI di rilanciare la palla avvelenata nel campo del governo Assopetroli e Unione Energie per la Mobilità (Unem) la pensano allo stesso modo . I petrolieri e i raffinatori sostengono che gli aumenti dei carburanti «sono contenuti nell’ambito dell’aumento dell’accisa» ripristinata dal primo gennaio. Per l’Unione nazionale consumatori la pubblicazione del prezzo medio regionale sarebbe dannosa e avrebbe più senso «ritirare il decreto» perché la nuova formulazione è «annacquata», a cominciare dalle multe salate subito ritrattate ai benzinai che non espongono i famosi cartelli. L’associazione dei consumatori Adoc ha invece contestato l’Antitrust: non farebbe l’arbitro, ma giocherebbe con i petrolieri. Per eliminare questi dubbi teologici l’Antitrust ha annunciato un’«indagine conoscitiva» sulla filiera dei carburanti. In attesa dell’enigmatico responso resta il caos prodotto da chi, ignaro dei misteri gloriosi della «concorrenza» e dei suoi effetti sui prezzi, ha pensato di trovare un capro espiatorio nei benzinai da denunciare in diretta Tv.
MELONI & CO. hanno fatto una manovra diversiva. Accade non solo alle destre, ma anche alle sinistre neoliberali. Fanno di tutto per spostare l’attenzione dalla responsabilità del capitale. E dalle proprie. La «speculazione» avviene all’origine della rete, e non solo e non tanto a valle. È strutturale al mercato delle multinazionali interconnesso con quello finanziario. Non si riflette tanto nelle differenze dei prezzi in una zona, ma soprattutto sul differenziale fra il prezzo internazionale del petrolio ora in calo e il prezzo del carburante alla pompa che invece sta aumentando.
PER ANNI il differenziale è costato 14-15 centesimi in più ai «consumatori» a bordo delle quattro e delle due ruote. E, con la guerra russa in Ucraina ha fatto un balzo, attutito dal governo Draghi con i bonus pagati comunque dai contribuenti. E non è finita. Gli auto e moto-muniti sentiranno di più il costo della guerra, cioè la speculazione, dal 5 febbraio, quando entrerà in vigore le sanzioni al gas russo.
IL GOVERNO potrebbe avere due strade chiuse da percorrere, cercando di evitare di schiantarsi. La prima è cercare i fondi dal bilancio per tornare a pagare gli sconti sulla benzina e il diesel (variante Draghi), ma ha già detto di non avere trovato soldi a sufficienza nel fondo-cassa lasciato dall’ex banchiere. Inoltre, il nuovo ciclo dell’austerità impedirebbe di fare extra-deficit. Oppure potrà ingegnarsi a cercare altri capri espiatori. Dopo i benzinai potrebbe pensare agli alieni. Del resto la pubblica opinione, che un tempo si diceva votasse con il portafoglio, oggi sembra addormentata sugli altari dei feticci «identitari» e paccottiglia varia. Aspettarsi da questa politica una critica dell’economia capitalistica è francamente grottesco. Ma il senso del ridicolo potrebbe aiutare a non esagerare dal prenderla troppo sul serio
Commenta (0 Commenti)Ricorso contro il 41bis, la Cassazione anticipa l’udienza al 7 marzo. Il medico: «Non basta». Mauro Palma: «La tutela della salute di chi è nella disponibilità dello Stato, in quanto privato della libertà personale, è responsabilità della Amministrazione che lo ha in carico»
Dopo l’appello lanciato dalla dottoressa Angelica Milia sulla gravità delle condizioni di salute cui è ormai giunto il suo paziente, l’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame dal 20 ottobre come forma di protesta contro il regime di 41bis con il quale è recluso nel carcere di Bancali, a Sassari, ieri la Cassazione ha anticipato dal 20 aprile al 7 marzo l’udienza nella quale tratterà il ricorso contro il carcere duro disposto nei confronti del detenuto per altri tre anni e quattro mesi. Il ricorso ai giudici del Palazzaccio è stato presentato dall’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini dopo che il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva rigettato la richiesta di revoca del 41bis imposto otto mesi fa dall’allora ministra Cartabia perché l’uomo è stato giudicato ancora un ideologo del Fai, l’organizzazione anarchica in nome della quale nel 2012 Cospito gambizzò l’Ad di Ansaldo, Roberto Adinolfi, e nel 2006, insieme alla sua compagna Anna Beniamino, piazzò un ordigno davanti alla caserma allievi carabinieri di Fossano senza produrre vittime. Recentemente il legale ha depositato una nuova istanza al Guardasigilli Nordio sulla base di «nuovi fatti emersi dalla sentenza di assoluzione della Corte d’Assise di Roma sulla cosiddetta operazione Bialystok» riguardante una cellula eversiva anarco-insurrezionalista e i presunti (ma dichiarati inesistenti dai giudici) legami fattuali con il detenuto Cospito.
«UN FATTO POSITIVO – ha commentato Milia, la dottoressa che lo tiene in cura – ma si tratta di aspettare ancora 30 giorni, e nelle condizioni di Cospito può succedere di tutto. Stiamo camminando sul filo del rasoio e si può cadere da un minuto all’altro». Per questo, rompendo il riserbo con il quale il Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà ha trattato questa vicenda fin dall’inizio, pur visitando Cospito in carcere in questi mesi, Mauro Palma è intervenuto ieri pubblicamente per chiedere che l’uomo venga «trasferito con urgenza in una struttura in grado di garantire un immediato intervento di carattere sanitario in caso di situazioni di acuzie, rischio peraltro elevato dato il forte stress a cui è sottoposto da mesi il suo organismo».
IL CARCERE DI SASSARI infatti, spiega Palma, «non è dotato di un centro clinico interno e nel territorio limitrofo non vi sono strutture sanitarie in grado di assicurare eventuali interventi urgenti con la dovuta sicurezza». Il Garante, inoltre, «ricorda che la tutela della salute di chi è nella disponibilità dello Stato, in quanto privato della libertà personale, è responsabilità dell’Amministrazione che lo ha in carico e ritiene che un trasferimento di Alfredo Cospito non sia più procrastinabile». Infine Palma auspica «che – nel pieno rispetto delle Istituzioni che si stanno occupando della vicenda – si giunga in tempi rapidi a una soluzione che permetta che sia posto fine allo sciopero della fame che prosegue ormai ininterrotto da cento giorni».
TRA I TANTI APPELLI che in questi giorni si levano in favore dell’anarchico da ogni parte politica – perfino dall’ex leader di Forza Nuova Giuliano Castellino, fondatore di Italia Libera – c’è chi come Luigi Manconi dalle colonne de La Stampa si rivolge direttamente a Papa Francesco per chiedergli di dedicare con umana compassione «una sua parola», «utile affinché la vicenda di quest’uomo, oggi ridotto alla “nuda vita”, non cada nell’oblio». Mentre i capogruppo di Senato e Camera dell’Alleanza Verdi e Sinistra, Peppe De Cristofaro e Luana Zanella, avvertono: «È in gioco non solo la vita di una persona, di per sé importantissima, ma l’umanità e la forza delle istituzioni e del Paese». E Carlo Calenda, leader di Azione: «Il 41 bis è un carcere particolarmente duro e questo signore, anche se ha commesso atti gravi, non ha nulla a che vedere con quel regime carcerario ed è malato, va trasferito».
PIÙ ATTENTI AL MESSAGGIO politico e meno all’aspetto umanitario, alcuni attivisti hanno manifestato ieri pomeriggio davanti al ministero di Giustizia per supportare la lotta nonviolenta di Cospito e dire che «41 bis e ergastolo sono torture di Stato»
Commenta (0 Commenti)PALESTINA. Nella città cisgiordana nove palestinesi uccisi, tra cui una donna di 61 anni. Un decimo morto ad al Ram. Chiamato lo sciopero generale. Demolita una casa, scene da seconda Intifada. Anche gli Stati uniti chiedono spiegazioni
Tra le macerie di una casa fatta saltare in aria ieri dall’esercito israeliano a Jenin - Ap/Ayman Nobani
Erano passate da poco le 7 ieri mattina quando un autocarro per il trasporto del latte è entrato lentamente nel campo profughi di Jenin che cominciava a svegliarsi. Dal veicolo sono scesi dei soldati di unità scelte israeliane e hanno messo sotto assedio una casa.
In pochi attimi, tra lo sbigottimento dei passanti, sono sopraggiunti altri militari, a decine, a bordo di jeep corazzate. Uno spiegamento di forze enorme per catturare o eliminare i fratelli Mohammad e Nureddin Ghneim e un terzo membro del Jihad Islami. Colti di sorpresa, i tre all’intimazione di arrendersi hanno risposto scegliendo di combattere fino alla morte.
LA LORO FINE è arrivata poco dopo. I militari hanno piazzato esplosivi nell’edificio contro il quale hanno anche sparato un razzo anticarro. In un comunicato diffuso dall’esercito su Twitter si afferma che l’operazione ha preso di mira una cellula del Jihad responsabile di attacchi armati e di aver progettato un attentato.
Ma quella che Israele descrive come «operazione» preventiva contro «una cellula di terroristi» è stata una strage, un bagno di sangue per i palestinesi di Jenin che hanno vissuto una giornata tra le più drammatiche degli ultimi anni.
Ore di morte e violenza che ha riportato alla memoria collettiva palestinese l’offensiva «Muraglia di Difesa» del 2002 quando l’esercito israeliano distrusse più della metà del campo profughi al termine di settimane di assedio costate le vita a decine di palestinesi (e a 15 soldati) nella città che, assieme a Nablus, è la roccaforte della militanza armata contro l’occupazione israeliana cominciata oltre 55 anni.
La reazione degli abitanti del campo è stata immediata. I primi ad affrontare in armi i soldati israeliani sono stati gli uomini del Battaglione Jenin, poi nelle strade decine di giovani con sassi e bottiglie. Sotto i colpi dei cecchini sono caduti altri cinque palestinesi: Abdullah al Ghul, Moatasem al Hassan, Wassim al Jass, Mohammed Sobh e Yassin Salahat.
Una donna di 61 anni, Magda Obaid, è stata colpita e uccisa da un proiettile nella sua abitazione. Altri 20 palestinesi sono stati feriti: quattro sono in condizioni critiche all’ospedale Ibn Sina di Jenin.
Lo stesso nosocomio sotto tiro con il fumo acre dei candelotti lacrimogeni che invadevano alcuni dei reparti. La ministra della sanità palestinese Mai al Kaileh ha denunciato: gli operatori della Mezzaluna rossa non sono stati in grado di evacuare i feriti perché i soldati israeliani hanno chiuso l’accesso al campo profughi e «sparato lacrimogeni contro il reparto pediatrico dell’ospedale».
UN ABITANTE del campo, Maher Natur, ha raccontato al manifesto: «Si sono vissute ore di terrore. Il sibilo dei proiettili era incessante. I nostri ragazzi dietro copertoni in fiamme hanno affrontato con le pietre i soldati». Prima del raid nel campo, ha aggiunto Maher, «(le forze israeliane) hanno interrotto l’elettricità, internet e la rete dei cellulari».
In quei momenti, sempre nel campo profughi, la famiglia al Sabbagh ha vissuto le stesse scene del 2002 quando la sua casa fu circondata e distrutta dall’esercito, che in quella occasione uccise Alaa al Sabbagh delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Le ruspe militari ieri hanno distrutto la nuova abitazione. In serata le tv israeliane hanno mandato in onda i video girati dai soldati entrati a Jenin. Nei social sono diventati virali quelli postati dai palestinesi con i corpi insanguinati sull’asfalto.
A JENIN IN SERATA è stato annunciato il divieto di ingresso ai veicoli commerciali nel campo profughi. La strage di Jenin ha acceso un incendio che nei prossimi giorni potrebbe avvolgere i Territori palestinesi occupati. Ieri manifestazioni e raduni di protesta contro Israele hanno occupato i centri di città e villaggi palestinesi.
Scontri sono divampati a Ramallah, Nablus e a Ram, a nord di Gerusalemme, dove un giovane di 22 anni, Yusef Mohaisen, è stato ucciso da militari israeliani facendo salire a dieci il bilancio di morti in una sola giornata e a 29 quello dall’inizio dell’anno.
OGGI, SECONDO GIORNO di lutto nazionale proclamato dall’Autorità nazionale palestinese (Anp), si annunciano manifestazioni ovunque che potrebbero coinvolgere Gerusalemme e la Spianata delle moschee nel giorno delle preghiere del venerdì. Barbara Leaf, funzionaria del Dipartimento di Stato Usa per il Medio Oriente, ha definito le uccisioni di civili a Jenin «deplorevoli». Ha poi aggiunto che Washington sta «raccogliendo ulteriori informazioni sul raid».
Una condanna netta della strage è giunta dall’Egitto ma il Cairo, secondo media locali, allo stesso tempo preme su Jihad e soprattutto su Hamas affinché non si vada all’escalation minacciata da uno dei leader, Saleh Arouri.
«Sono estremamente allarmata dalla notizia della rinnovata violenza letale a Jenin – ha scritto su Twitter Francesca Albanese, relatrice Onu per i diritti umani nei Territori occupati – Mentre i fatti e le circostanze devono essere accertati, ricordo l’obbligo della potenza occupante di garantire che le persone civili siano sempre protette da ogni forma di violenza».
«Il coordinamento di sicurezza con Israele non esiste più da questo momento», ha annunciato ieri pomeriggio l’Autorità nazionale palestinese per bocca di Nabil Abu Rudeinah, portavoce del presidente Abu Mazen, raccogliendo il consenso della popolazione.
ANNUNCI SIMILI però sono stati fatti tante volte in passato senza trovare mai riscontro sul terreno. Il premier israeliano Netanyahu ha replicato sostenendo di «non puntare a una escalation. Ma le forze di sicurezza sono pronte ad affrontare ogni sviluppo sui vari fronti»
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