Nella città scaligera harakiri del centrodestra (leggi). Le liti tra Lega, Fdi e Fi premiano il centrosinistra anche a Parma (leggi). La coalizione guidata del Pd prende anche Monza, Alessandria, Piacenza, Catanzaro e si conferma a Cuneo. Letta: "Risultato che ci rafforza per le politiche". Al centrodestra pure Barletta e Frosinone. Affluenza al 42%
Sette sindaci al centrosinistra, 4 al centrodestra, 2 alle liste civiche. E’ questo il nuovo quadro venuto fuori dal turno di ballottaggio. Con cinque comuni che cambiano amministrazione da centrodestra a centrosinistra (Verona, Monza, Alessandria, Piacenza e Catanzaro) e uno da centrosinistra a centrodestra (Lucca).
Gorizia rimane al centrodestra
Como passa dal centrodestra a un’amministrazione sostenuta da liste civiche
Monza dal centrodestra passa al centrosinistra
Verona dal centrodestra passa al centrosinistra
Alessandria dal centrodestra passa al centrosinistra
Cuneo rimane al centrosinistra
Parma dalla giunta Pizzarotti (ex M5S) al centrosinistra (sostenuto dallo stesso movimento del sindaco uscente)
Piacenza dal centrodestra al centrosinistra
Lucca dal centrosinistra al centrodestra
Viterbo da centrodestra a civica
Frosinone rimane al centrodestra
Barletta dopo il commissariamento viene riconfermato il sindaco che si era dimesso nell’ottobre del 2021
Catanzaro dal centrodestra al centrosinistra
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Commenta (0 Commenti)CONFINE. In centinaia assaltano i reticolati al confine controllati dalle polizie di Rabat e Madrid. «37 morti e decine di feriti». Giallo sulle cause
Migranti tentano di scavalcare le reti del confine Spagnolo a Melilla - Ap
Non è la prima volta che dei disperati muoiono tentando di raggiungere il suolo di Madrid e di mettere piede in Europa, ma stavolta il numero delle vittime è molto alto. Le autorità marocchine parlano di 18 morti, ma secondo alcune Ong – tra le quali l’Associazione Marocchina per i Diritti Umani e la spagnola Caminando Fronteras – le vittime sarebbero addirittura 37 e decine i feriti, alcuni dei quali gravi. «Le cifre non sono definitive, possono aumentare ancora».
Venerdì mattina, alle 6,40, duemila profughi subsahariani hanno tentato di superare il sistema di reticolati (portato a dieci metri di altezza su decisione del governo Sánchez nel 2020) che racchiude la città autonoma di Melilla. Solo 500 di loro sono riusciti ad arrivare al valico di frontiera in prossimità del «Barrio Chino», dove hanno assaltato il cancello di ingresso. In 133 sarebbero riusciti ad entrare all’interno dell’enclave spagnola in Marocco.
Secondo le testimonianze, la maggior parte delle vittime sarebbe morta asfissiata nella calca dopo esser caduta in un avvallamento nel tentativo di superare una recinzione, sul lato marocchino della frontiera. Chi cadeva dalla rete veniva calpestato da altri migranti che tentavano la scalata e schiacciato da quelli che a loro volta cadevano o venivano spinti o tirati giù.
Per respingere i profughi, infatti, sono intervenuti un gran numero di agenti della Guardia Civil e di gendarmi di Rabat.
Questi ultimi avrebbero arrestato circa mille migranti. Secondo varie fonti e testimonianze, il tentativo di superamento della frontiera è stato respinto, soprattutto dagli agenti di Rabat ma non solo, con una massiccia dose di violenza. Anche nei giorni precedenti sulle colline che sorgono nei pressi della frontiera si sono verificati numerosi scontri. Secondo fonti di sicurezza marocchine nell’operazione di «contenimento» sarebbero rimasti contusi 140 agenti mentre Madrid parla di 49 feriti tra i suoi poliziotti. Tre profughi sono stati invece ricoverati nell’ospedale di Melilla.
Esteban Beltrán, direttore della sezione spagnola di Amnesty International, ha chiesto sull’accaduto una «inchiesta indipendente ed esaustiva». Fonti della Ong, dopo aver visionato video e foto, hanno denunciato che la polizia spagnola ha rimpatriato a forza e sul momento una parte dei rifugiati che erano riusciti ad entrare nell’enclave, violando così il loro diritto a richiedere eventualmente l’asilo politico o altre misure di protezione e accoglienza così come previsto dal diritto internazionale. Amnesti ha anche denunciato la violenza gratuita esercitata dalle guardie di frontiera marocchine nei confronti di rifugiati inermi che non opponevano resistenza.
Al contrario, il presidente del governo di Madrid, Pedro Sánchez, ha elogiato l’operato della gendarmeria marocchina e della Guardia Civil. Anche il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares, venerdì, aveva sottolineato positivamente la «straordinaria cooperazione» tra i corpi militari dei due paesi. Nel corso di una conferenza stampa organizzata ieri, il premier socialista ha parlato addirittura di un «attacco violento all’integrità territoriale della Spagna» e ha puntato il dito contro «le mafie responsabili del traffico di esseri umani».
Gli elogi di Sánchez e Albares nei confronti delle autorità marocchine riflettono i nuovi rapporti di Madrid con Rabat. Nel maggio del 2021, infatti, dopo l’ingresso a Ceuta – agevolato dalla «distrazione» della gendarmeria marocchina – di circa 8000 profughi, i toni usati dal leader del Psoe contro Rabat erano stati durissimi.
Ma nel marzo scorso Sánchez ha cambiato registro, riconoscendo la sovranità marocchina sui territori saharawi illegalmente occupati dal regno di Mohammed VI e avviando nuove relazioni di amicizia con Rabat. Il premier spagnolo non ha desistito neanche dopo che l’intelligence di Madrid lo aveva informato del fatto che il suo cellulare era stato spiato dalle autorità marocchine tramite il malware israeliano Pegasus.
La svolta ha però provocato la reazione stizzita dell’Algeria che, dopo aver bloccato il trasferimento del suo gas al Marocco, ha recentemente sospeso il Trattato di amicizia e di buon vicinato firmato con Madrid nel 2002, riducendo le esportazioni di gas in Spagna.
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TERRITORI OCCUPATI. L’inchiesta dell'Alto Commissario per i Diritti Umani ha ricostruito gli eventi dell’uccisione della giornalista palestinese di Al Jazeera e ha dichiarato colpevoli le Forze militari israeliane
Dopo le conclusioni raggiunte dalle indagini svolte nelle scorse settimane dalla Cnn, dal New York Times e dall’Autorità nazionale palestinese sull’uccisione di Shireen Abu Akleh, anche l’Ufficio dell’Alto Commissario Onu per i diritti umani attribuisce a Israele la responsabilità dell’uccisione della giornalista palestinese di Al Jazeera, colpita alla testa da un proiettile mentre lo scorso 11 maggio seguiva una incursione dell’esercito israeliano a Jenin, in Cisgiordania.
In un documento diffuso ieri a Ginevra, le Nazioni unite affermano che le informazioni disponibili suggeriscono che ad uccidere Shireen Abu Akleh sono state le forze israeliane e non il «fuoco indiscriminato» di combattenti palestinesi. E sottolineano che «È profondamente inquietante che le autorità israeliane non abbiano condotto sull’accaduto un’indagine penale».
«Tutte le informazioni che abbiamo raccolto – anche dall’esercito israeliano e dal procuratore generale palestinese – supportano il fatto che i proiettili che hanno ucciso Abu Akleh e ferito il suo collega Ali Sammoudi provenivano dalle forze di sicurezza israeliane e non da palestinesi armati che sparavano indiscriminatamente, come sostenuto dalle autorità di Israele», ha dichiarato la portavoce, Ravina Shamdasani. «Intorno alle 06:30 (dell’11 maggio, ndr) – ha proseguito Shamdasani – quando quattro dei giornalisti hanno svoltato nella strada che porta al campo, indossando elmetti e giubbotti con la scritta ‘PRESS’, diversi singoli colpi d’arma da fuoco apparentemente ben mirati sono stati sparati verso di loro da parte delle Forze di sicurezza israeliane. Un proiettile ha ferito Ali Sammoudi alla spalla, un altro proiettile ha colpito Abu Akleh alla testa e l’ha uccisa sul colpo».
Anche in questo caso l’esercito israeliano ha negato ogni responsabilità. «Dov’è la pallottola?», ha domandato il portavoce militare sottolineando che Shireen Abu Akleh «non è stata colpita in maniera intenzionale da nessun soldato». «Il rifiuto palestinese di consegnare il proiettile e di condurre indagini congiunte con gli Usa – ha concluso – la dice lunga sui motivi». Secondo il ministro della difesa Benny Gantz si potrà scoprire la verità «solo conducendo un’indagine balistica e forense e non attraverso indagini infondate come quella pubblicata dall’Alto Commissario Onu per i diritti umani».
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Nuvole nere a est. Come un puzzle del quadro “la tempesta” di Turner, ma a tinte scure e pesanti, appariva l’orizzonte di Kramatorsk nel pomeriggio di ieri, a quattro mesi esatti dall’invasione russa in Ucraina. Piccoli scampoli di grigio e nero che si allungavano fino a terra in lontananza, dalla stessa direzione dalla quale ora i russi stanno avanzando. In mare si sarebbe fatto di tutto per evitare quel passaggio ma qui, nell’oblast di Donetsk, non c’è modo di ripararsi. Tutto intorno, una calma piatta: strade deserte e fuoristrada pitturati di verde alla buona con i fari coperti dal nastro blu o giallo per evitare di essere troppo visibili di notte. Tra un rombo e l’altro, silenzio innaturale e poi, immancabili, i tonfi dell’artiglieria in lontananza.
Sulla strada provinciale verso Slovjansk due poliziotti prossimi alla pensione con la faccia stanca e gli avambracci appoggiati sulla canna del mitra controllano svogliatamente i documenti e alla domanda «ma a Slovjansk ancora si passa?» rispondono «moshna», si può. Nella corsia più a destra gli autotreni militari, di quelli che in genere si usano per trasportare i carri armati o i semoventi, corrono vuoti verso nord, in direzione di Lyman. Cosa vadano a caricare non lo possiamo sapere ma deve essere un’operazione organizzata perché ne transitano diversi, almeno una decina, e non sono mezzi che passano inosservati. A Slovjansk troviamo la stessa situazione, con la differenza che qui l’orizzonte non si vede e i fuoristrada non passano. Nella piazza dell’amministrazione comunale filtra anche qualcuno degli ultimi raggi di sole di questa giornata che potrebbe segnare la svolta nella battaglia del Donbass.
IERI MATTINA il risveglio era stato brusco per gli ucraini. Il governatore dell’oblast di Lugansk, Sergiy Haidai, aveva annunciato ufficialmente in diretta tv e poi sul suo canale Telegram che «sfortunatamente, dovremo ritirare le nostre truppe da Severodonetsk. Non c’è bisogno di alimentare la paura di ‘tradimenti’, nessuno lascia i nostri ragazzi. Ora siamo in una situazione in cui essere nelle posizioni ormai distrutte in questi mesi non ha più senso. Perché ogni giorno che passa il numero di decessi in queste posizioni poco sicure può crescere in proporzione. Pertanto, ai difensori è stato ordinato di trasferirsi in nuove postazioni di difesa».
In altri termini, Severodonetsk è caduta. Eppure, il quadro è tutt’altro che chiaro. Basta ascoltare la risposta che intorno alle 16 il portavoce del ministero della difesa ucraino, Oleksandr Motuzyanyk, ha dato durante un briefing presso il media center “Ucraina-Ukrinform”. «Lo stato maggiore non commenta le informazioni sul possibile ritiro dell’esercito dalla città (di Severodonetsk,ndr) che attualmente è la parte più calda del fronte». Inoltre, e qui sta il passaggio più interessante del discorso, «le informazioni sul fatto che le unità delle forze armate ucraine si trovino in una determinata area, incluso Severodonetsk, sono classificate. Non ne stiamo parlando. Chiederei vivamente a tutti di concentrarsi sulle informazioni fornite dallo stato maggiore e il ministero della difesa dell’Ucraina Non è necessario danneggiare lo svolgimento di un’operazione di difesa… credete nelle forze armate dell’Ucraina».
LE DICHIARAZIONI di Motuzyanyk non possono non essere lette alla luce di quelle di Haidai della mattina. Che sia in corso uno scontro istituzionale tra i vertici della difesa ucraina e l’amministrazione regionale? È difficile trovare una risposta soddisfacente a questa ipotesi, potrebbe anche darsi che sia in atto la famosa «ritirata strategica» paventata a più riprese nelle ultime tre settimane. A confermare questa seconda ipotesi segnaliamo la testimonianza del giornalista ucraino Yuriy Butusov, del portale “censor.net”, considerato da molti un dissidente del governo Zelensky e quindi, in teoria, non tacciabile di interessi propagandistici. Butusov ha raccontato oggi sulla sua pagina Facebook che la notte tra giovedì e venerdì ha lasciato Severodonetsk insieme alle unità ucraine che «hanno abbandonato parte della zona industriale della città in modo organizzato (il che farebbe scartare la tesi della fuga improvvisa, ndr). Nella porzione di fronte in cui mi trovavo, la ritirata è stata presa di mira, ma senza perdite. È amaro partire, ma questa decisione è attesa da tempo». Secondo Butusov, la distruzione dei ponti e l’impossibilità di approntare pontoni ha minato in modo decisivo la possibilità dei difensori di rispondere all’assalto nemico. In seguito, il giornale conservatore Ukrainska Pravda ha confermato la versione di Butusov riportando testimonianze di reparti della Guardia Nazionale ucraina che nella stessa notte avevano lasciato la città.
A QUESTO PUNTO viene spontaneo da chiedersi se il governatore dell’oblast di Lugansk non abbia forse agito troppo impulsivamente, rendendo noto qualcosa che lo stato maggiore stava cercando di tenere il più possibile nascosto. Quale che sia la ragione di questo scontro mediatico interno, ciò che sappiamo per certo è che le truppe russe oggi hanno conquistato anche il villaggio di Zolotoye, a sud di Severodonetsk, dopo Bila Gora e Myrna Dolina, occupate tra mercoledì e giovedì. Qui alcuni soldati di Kiev sono stati fatti prigionieri e i video che li mostrano con la faccia al muro, insieme a quelli dei reparti ceceni di Kadyrov che rastrellano la vicina Gorskoe, sono la prova del fatto che la tattica del “calderone” in quest’area sta iniziando a dare i suoi frutti e che, oltre Severodonetsk, la battaglia per il Donbass continua in tutta la regione.
L'OTTIMISMO DEL PRESIDENTE. «Le cose non vengono mai da sole e spesso non vengono così rapidamente»
Draghi al Consiglio Europeo - Ap
«Non sono deluso. Non immaginavo una data precisa per la discussione ma il solito rinvio con linguaggio un po’ vago». Insomma, meglio del previsto. Draghi non si smentisce: il bicchiere è sempre mezzo pieno, di fronte ai colpi di freno si fa buon viso e si continua a martellare. Se trapela qualcosa di quella delusione che il premier nega, è nella formula che ripete più volte nella conferenza stampa al termine del Consiglio europeo: «Le cose non vengono mai da sole e spesso non vengono così rapidamente come uno pensava dovessero avvenire».
Il tentativo di accelerare sul tetto al prezzo del gas, il price cap, è riuscito solo in piccola parte. L’ipotesi di un Consiglio eccezionale in luglio, proposto proprio da Draghi, è sfumata. «Giustamente mi è stato fatto osservare che
Commenta (0 Commenti)AMERICA SPROFONDA. Cancellata la storica sentenza Roe v. Wade del ’73 che lo tutelava a livello costituzionale. La decisione della Corte suprema firmata dai sei giudici della supermaggioranza conservatrice
La reazione delle attiviste alla sentenza della Corte suprema - Ap
La Corte suprema ha revocato il diritto costituzionale all’aborto in vigore da mezzo secolo, ribaltando la storica sentenza del 1973, Roe vs Wade con un voto 5-4, e spianando così la strada al divieto di aborto agli Stati gestiti dal Gop.
I giudici conservatori Clarence Thomas, Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett si sono uniti all’opinione di Samuel Alito, che ha scritto l’opinione vincente, con il giudice capo John Roberts che ha presentato un’opinione concordante nel giudizio per sostenere la delibera, ma in disaccordo con il ragionamento alla base della decisione della maggioranza. Sfumature, quelle di Roberts, che non hanno cambiato la traiettoria di una sentenza che getta il Paese in un territorio inesplorato a livello politico, legale, sociale e sanitario.
Tutto è stato un terremoto al rallentatore.
LA SENTENZA della Corte Suprema riguarda la richiesta dello Stato del Mississippi di riconoscere la loro legge che vieta l’aborto dopo le 15 settimane. La sentenza del 1972 Planned Parenthood vs. Casey aveva stabilito, invece, che l’aborto è praticabile fino alla viabilità del feto, vale a dire quando è in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero. Il parere di Alito, poi condiviso dagli altri giudici, è stato diretto: «La sentenza Roe v.Wade è nata sbagliata».
La decisione della Corte Suprema di ieri è stata il frutto di una battaglia legale che il Mississippi, con i gruppi politici e religiosi che si oppongono al diritto all’aborto, hanno cominciato partendo dalla causa costituzionale intentata dalla Jackson Women’s Health Organization contro la legge delle 15 settimane varata nel 2018, con l’intento specifico di arrivare alla Corte suprema.
Il principio era abbastanza semplice: con una Corte super conservatrice e praticamente nominata da Trump, cancellare Roe vs Wade sarebbe stata una passeggiata, ma per arrivare là era necessario superare una serie di passaggi intermedi rappresentati dai verdetti delle corti minori, molto più liberal. L’esame della Corte era poi iniziato lo scorso autunno.
La decisione di ieri era stata anticipata a inizio maggio, quando il portale di notizie online Politico aveva fatto trapelare la bozza della decisione scritta da Alito.
IL LEAK aveva scatenato una tempesta di reazioni e un’ondata di manifestazioni dei sostenitori del diritto all’aborto che si sono svolte in tutto il Paese, inclusa una protesta di più giorni davanti alla Corte suprema a Washington DC che aveva riportato le transenne attorno al palazzo, come non se ne vedevano dai tempi delle manifestazioni di Black Lives Matter di due anni fa.
Appena diffusa la notizia della decisione della Corte Suprema, il Congressional Black Caucus, guidato dal democratico Joyce Beatty, ha chiesto al presidente Biden di dichiarare un’emergenza nazionale, sostenendo che la decisione di limitare l’accesso alle cure per l’aborto «metterà in pericolo in modo sproporzionato» la vita dei neri americani. «Abbiamo visto com’era la vita prima di Roe vs. Wade, e l’America non può permettersi di tornare indietro», ha scritto Beatty.
LA CASA BIANCA si stava preparando silenziosamente per questo momento da mesi, ma il presidente ha affermato che nessuna azione esecutiva può colmare il vuoto sul diritto all’aborto lasciato dalla decisione della Corte. «La Corte ha fatto ciò che non aveva mai fatto prima: togliere espressamente un diritto costituzionale fondamentale per tanti americani che era già stato riconosciuto», ha affermato Biden durante un discorso alla Nazione che è arrivato poche ore dopo la pubblicazione della sentenza. Il problema ora si allarga, e sono in pericolo anche i diritti all’accesso alla contraccezione: il presidente ha affermato di stare dirigendo il dipartimento della Salute e dei servizi umani per garantire che la contraccezione resti disponibile per tutti, anche se gli stati cercano di limitarla. «La maggioranza conservatrice della Corte suprema mostra quanto sia estremista – ha detto Biden – La mia amministrazione utilizzerà tutti i suoi poteri legali appropriati, ma il Congresso deve agire, e con il vostro voto anche voi potete agire». Questa decisione infatti è destinata a condizionare le elezioni, poiché governatori, procuratori generali e altri leader locali avranno il potere di decidere quando e se l’aborto sarà consentito.
Una serie di dichiarazioni sono arrivate dai democratici, da Obama a Kamala Harris, da Nancy Pelosi a Elizabeth Warren, e i politici degli Stati a guida Dem hanno rassicurato sulla forza delle loro posizioni in difesa del diritto all’aborto. Ma questo non può bastare.
«CERCHIAMO di essere chiari al 100% – ha sintetizzato in un tweet il senatore dem del Connecticut Chris Murphy – Se tra 2 anni i repubblicani prenderanno il controllo della Camera, del Senato e della Casa bianca, passeranno il divieto nazionale dell’aborto». E a prescindere dallo stato «donne e medici saranno incarcerati per il fatto di esercitare l’assistenza sanitaria»
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