Dopo i successi elettorali regionali delle liste guidate da Elly Schlein, quella di Faenza Coraggiosa è stata l’unica esperienza che ha cercato di superare i confini della lista civica e di tradursi in una forma organizzata – l’associazione, appunto – per contribuire in modo più incisivo alla vita politica della propria comunità.
Nelle nostre intenzioni e forte dell’ottimo consenso elettorale raccolto alle elezioni amministrative, la nostra associazione voleva essere uno stimolo per strutturare la sinistra fuori del PD nel territorio, con l’ambizione di offrire un punto d’incontro, confronto, proposta e azione politica.
A distanza di tre anni, il nostro percorso si ferma qui, per ragioni molteplici che abbiamo a lungo discusso prima di arrivare a prendere questa decisione.
Non le ricapitoliamo perché sono parte di un dibattito pubblico che si dipana da oltre un anno, dalla decisione di Elly Schlein di candidarsi nelle liste del PD alle ultime elezioni politiche e poi alla sua guida, partecipando alla corsa alla Segreteria con un successo per molti inaspettato e per alcuni aspetti clamoroso.
La vittoria di Schlein ha convinto Art.1 – uno dei partiti animatori di Coraggiosa – ad aderire formalmente al PD, nel suo ultimo congresso nazionale, per portare il suo sostegno diretto all’interno del Partito Democratico, insieme ad una parte degli indipendenti che avevano sostenuto Coraggiosa fin dai suoi primi passi nella campagna per le elezioni amministrative a Faenza e prima ancora alle regionali. Al contrario, le altre forze politiche nazionali interne a Coraggiosa (a Faenza i Socialisti e Sinistra Italiana) hanno deciso di proseguire la loro autonomia organizzativa.
L’esperienza di Coraggiosa, soprattutto a Faenza, è stata per noi ben altra cosa che un tradizionale accordo tra partiti: a Faenza ha saputo mettere insieme i sostenitori di Articolo 1, de L’Altra Faenza, di tanti rappresentanti del volontariato laico, cattolico e dell’ambientalismo, ma anche tanti indipendenti, giovani e meno giovani, che si avvicinavano alla politica per la prima volta o che alla politica tornavano dopo periodi più o meno lunghi di sfiducia, convinti dalla freschezza e dall’energia del programma di Schlein. La nostra lista, alle ultime elezioni, piena di giovani, di donne, di candidati riconosciuti e stimati per il loro impegno sociale, era lo specchio di un entusiasmo rinnovato su un radicamento storico e su pratiche quotidiane di solidarietà e attivismo.
Non nascondiamo che le contingenze, locali e nazionali (la pandemia, un lockdown spinto e poi i disastri climatici che hanno ferito il nostro territorio quest’anno) ci hanno tarpato un po’ le ali.
Oggi non possiamo non prendere atto di scelte differenti tra noi: c’è chi ha deciso di iscriversi al PD per continuare lì la sua battaglia per la democrazia e i diritti, in un partito già dotato di una sua struttura e oggi guidato da una segretaria che già aveva scelto tre anni fa, e chi invece, iscritto ad altri partiti o indipendente, sceglie di continuare ad animare il campo a sinistra del PD.
Siamo convinti che il patrimonio politico, di idee e di confronto, accumulato in questi tre anni di attività di Faenza Coraggiosa non debba andare perduto, ma che anzi tutti noi, ognuno all’interno delle proprie riflessioni e decisioni, debba fare tesoro di questa esperienza, Coraggiosa davvero in tutti i sensi, e portarla lungo le strade che abbiamo deciso di percorrere.
Tutti noi siamo d’accordo che per il Paese e per Faenza c’è bisogno di più sinistra.
La differenza di visione sulle scelte organizzative e future non dovrà e non produrrà “rotture”, ma al contrario ci troverà uniti nella volontà comune di dare voce e rappresentanza alle istanze e ai valori di una sinistra plurale, che trovi la sua espressione nell’amministrazione ma anche nella città e tra i cittadini.
Per gli adempimenti formali sarà convocata a breve un’assemblea straordinaria dell’associazione.
Faenza, piazza del popolo, 25 novembre
Dal Tavolo Asilo e immigrazione l’appello ai parlamentari perché non firmino l’accordo italo-albanese sui migranti, imponendo al governo il suo ritiro
Il governo cambia idea e il ministero degli Esteri, Antonio Tajani, annuncia nel suo intervento alla Camera dei deputati che il protocollo Italia-Albania sui migranti dovrà essere sottoposto alla ratifica del Parlamento, contrariamente a quanto sostenuto fino a ora. Un protocollo che, ricordiamo, ha l’obiettivo di esternalizzare le frontiere e il diritto d’asilo costruendo in Albania centri di detenzione dove collocare i migranti messi in salvo da navi italiane, con il rischio di gravi violazioni dei diritti umani.
Proprio la volontà dell’esecutivo di non sottoporre il protocollo a ratifica è la prima delle criticità rilevate dal documento che chiede il ritiro dell’accordo e che è stato presentato ieri dal Tavolo Asilo e Immigrazione, al quale aderiscono oltre trenta associazioni. Tra queste c’è anche la Cgil, il cui responsabile dell'ufficio immigrazione, Kurosh Danesh, spiega che quanto sottoscritto da Roma e Tirana non rispetta i trattati internazionali e nemmeno la nostra Costituzione.
È proprio questo uno dei temi più volte battuti nella conferenza stampa di ieri, alla quale hanno partecipato, tra gli altri, il responsabile immigrazione dell’Arci, Filippo Miraglia, il portavoce di Amnesty international, Riccardo Nouri, e la portavoce della Ong Sea Watch, Giorgia Linares. Durante l’incontro, visto quanto dichiarato da Tajani, è stato rivolto un appello ai parlamentari affinché non votino la ratifica, quindi sono stati illustrati i temi del documento presentato, alla presenza di alcuni deputati e senatori dell’opposizione, compresa la segretaria del Pd Elly Schlein.
Vi è un capitolo che riguarda le competenze giurisdizionali, come anche la previsione dell’applicazione extraterritoriale di norme Ue, che non è consentita dal diritto europeo. Quindi il Tavolo passa a evidenziare che, nel caso “dovessero essere portate in Albania persone salvate in operazioni Sar nel Mediterraneo si configurerebbe senz’altro il mancato rispetto delle linee guida sul soccorso in mare dell’Imo che fanno riferimento alla minima deviazione possibile dal luogo in cui è stato effettuato il soccorso”. E ancora: “Nel testo del Protocollo non c’è menzione né dell’esclusione delle persone minori e vulnerabili dal trasferimento in Albania, né delle procedure per il corretto accertamento dell’età e la tempestiva individuazione e presa in carico delle vulnerabilità”.
Ci sono poi problemi di compromissione della possibilità di controllo giurisdizionale e di mancata garanzia di diritto di difesa e a un ricorso effettivo, vista “l’impossibilità per le persone trattenute di beneficiare dell’assistenza di un legale. Non si comprende come si potrà determinare la competenza del giudice che dovrà convalidare il trattenimento, né come sarà possibile per i trattenuti, in caso di diniego di una domanda di protezione internazionale, presentare tempestivamente ricorso”.
A preoccupare anche il fatto che “le persone trattenute dovranno essere immediatamente trasferite fuori dall’Albania una volta che ‘venga meno, per qualsiasi causa, il titolo di permanenza nelle strutture’. Non è inoltre chiaro cosa succederà ai richiedenti asilo che non ottengano risposta entro i 28 giorni previsti dalla procedura accelerata”.
Infine i costi: quelli che l’Italia dovrà sostenere non sono chiari, ma si preannunciano ingenti. Si parla di una prima tranche di 16,5 milioni di euro, seguita da una lunga serie di spese che il governo italiano dovrà rimborsare a quello albanese per almeno cinque anni. Ci saranno poi le spese per i trasferimenti, l’alloggio, il mantenimento, il controllo delle persone trattenute nei centri, tutti a carico dell’Italia, e di tutte le forze dell’ordine italiane che saranno impegnate in suolo albanese.
Più volte, durante la conferenza stampa, si è menzionata la violazione del diritto internazionale e costituzionale, come anche l’intento propagandistico del governo nel firmare un protocollo che si rivelerà presto inapplicabile, avendo però nel frattempo favorito l’Albania. Tutto questo sulla pelle dei migranti.
IL FLASHMOB. Davanti al Colosseo srotolato uno striscione per chiedere la protezione di tutti i civili. «Israele metta fine all'occupazione e all'apartheid»
Il flashmob del Laboratorio ebraico antirazzista - Giansandro Merli
«Cessate il fuoco. Liberate gli/le ostaggi. Stop occupazione». Tre messaggi netti, scritti su uno striscione rosso aperto domenica davanti al Colosseo: è la prima azione di protesta del Laboratorio ebraico anti-razzista. Il collettivo, che riunisce giovani ebree ed ebrei italiani, ha voluto aggiungere la sua voce al coro che a livello globale invoca la fine del massacro di Gaza e la tutela di tutti i civili coinvolti nello scontro.
In Italia le recenti manifestazioni sono state animate soprattutto da palestinesi e gruppi politici solidali. Perciò quella di ieri rappresenta una novità. Piccola, perché a partecipare c’erano una trentina di persone, ma significativa, perché si collega alle mobilitazioni di tanti ebrei che in giro per il mondo – dagli Usa alla Francia, passando per la Gran Bretagna – stanno esprimendo un forte dissenso verso il governo Netanyahu, ma anche la richiesta di mettere fine all’occupazione e all’apartheid praticati da Tel Aviv. «Serve una soluzione politica che garantisca libertà, uguaglianza e sicurezza per tutti gli abitanti e i popoli della regione», hanno detto gli attivisti dal microfono.
Parole importanti anche sulla questione dell’antisemitismo. «È un problema serio che non deve essere strumentalizzato. Non si può combattere insieme all’estrema destra che usa il sostegno al governo di Israele per cancellare il suo passato e presente di odio, razzismo, islamofobia e antisemitismo», ha detto Bruno Montesano, uno degli attivisti del Laboratorio. Il ragazzo ha anche sottolineato come questo pericoloso fenomeno non possa essere strumentalizzato per silenziare le voci dei palestinesi e di chi è indignato per la carneficina in corso a Gaza. Al termine del flashmob, durato alcuni minuti, la polizia ha identificato tutti i presenti. Giornalisti compresi
La morte di Giulia è il solito drammatico copione di un Paese che si indigna ma non cambia. E il governo sceglie l’inutile strada della repressione
Abbiamo sperato sino all'ultimo in un lieto fine, ma il "copione" dell'incubo era già drammaticamente noto. Un uomo, un ex, che non accetta la fine di una storia. Una giovane donna che stava per raggiungere una meta importante, che arrivava all'obiettivo che si era data con le proprie forze, da persona indipendente, libera e compiuta: la propria laurea.
E poi da lì chissà cosa le avrebbe riservato il futuro, quando quel cordone un pò lacerato, che la teneva legata al passato, si sarebbe definitivamente reciso. Questo deve aver scatenato la rabbia dell'uomo che le ha tolto la vita. E tutto questo conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che ad armare la mano del femminicida non è una patologia e nemmeno un raptus.
È la cultura del possesso che ti impedisce di accettare. Lei che decide che è finita e tu che subisci una sua decisione: la cosa ti offende, ti denigra, ti umilia. Lei è una cosa. Ed è tua. Quindi puoi anche decidere che lo deve rimanere per sempre. Costi quel che costi. Quante ne abbiamo lette e ascoltate di storie simili? La risposta è troppe, perché queste assonanze siano casuali.
Qualcuno scrive sui social che le donne non dovrebbero mai accettare l'ultimo appuntamento. Ma che sarà l'ultimo purtroppo lo sai quando è troppo tardi. E magari se non accetti lui ti aspetta sotto casa con un martello o con una bottiglia di acido. Magari fa del male ai tuoi o ai vostri figli. Abbiamo anche quelle storie nell'archivio del terrore. Possiamo andare avanti dicendo alle donne "mi raccomando non accettare l'ultimo appuntamento e poi chiuditi in casa, non andare al lavoro, non uscire mai più con gli amici, non innamorarti di nuovo"? Smetti di vivere e di essere una donna, se no sei a rischio. In una società sana le "istruzioni per non farsi ammazzare dall'uomo che ti amava" non dovrebbero nemmeno essere contemplare. Ma davvero a qualcuno non suona stonato?
Sì perché il punto non può essere quello che fa o non fa la vittima, ma quello che ha fatto il carnefice e perché lo ha fatto. E, soprattutto, cosa dobbiamo fare noi Cgil. Il governo ha approvato un nuovo "Dl sul contrasto alla violenza sulle donne e contro la violenza domestica" che inasprisce le pene e ha una visione repressiva. Un piccolo insufficiente passo avanti che non avrebbe cambiato l'esito nefasto di questa terribile storia.
E allora cosa facciamo? Quello che le donne della Cgil chiedono da sempre. Educhiamo gli uomini. Dalla scuola dell'infanzia all'università chiariamo loro che le donne sono persone autonome che possono cambiare idea, smettere di amarli, innamorarsi di un altro, essere più in gamba di loro. E che questo è normale. Che non c'è nulla di umiliante a essere lasciati e nemmeno traditi. Perché tutte le persone sono libere. D'altronde il nostro è il Paese dello ius corrigendi e del delitto d'onore e per sradicare questa cultura centenaria che marginalizza e colpevolizza le donne serve un grande investimento perché tutte e tutti l'abbiamo introiettata.
Non bastano le poche ore di lezione di esperti promosse dal ministro Valditara serve inserire l'educazione al rispetto e all'affettività nelle scuole. E un modulo per il contrasto a tutte le forme di violenze e molestie sulle donne nella formazione obbligatoria sulla salute e sicurezza nei posti di lavoro. Perché le lavoratrici e i lavoratori spesso sono anche genitori di figli maschi e magari, tornando a casa dal lavoro, potrebbero in questo modo trovare le parole per spiegare loro che la violenze è davvero l'ultimo rifugio degli incapaci. Abbiamo perso sin troppo tempo.
Lara Ghiglione è segretaria confederale della Cgil