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Oltre 600 organizzazioni della società civile si sono date appuntamento a Roma, per gridare tutte insieme la voglia di pace contro la sordità della guerra. Landini, Cgil: non ci fermeremo

 

La richiesta che ha colorato di arcobaleno le vie della capitale è semplice è contemporaneamente complicatissima: tacciano le armi, prenda parola la diplomazia. “l’Italia, l’Unione europea, le Nazioni unite devono assumersi la responsabilità di un negoziato per fermare l’escalation e raggiungere l’immediato cessate il fuoco”.

La pace è di tutti

“La pace è di tutti e ha bisogno di tutti”: è l’esortazione forte inviata dal cardinale Matteo Zuppi ai fratelli in marcia: “Chiediamo al segretario generale delle Nazioni unite di convocare urgentemente una Conferenza internazionale per la pace, per ristabilire il rispetto del diritto internazionale, per garantire la sicurezza reciproca e impegnare tutti gli Stati a eliminare le armi nucleari, ridurre la spesa militare in favore di investimenti che combattano le povertà. E chiediamo all’Italia di ratificare il Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari non solo per impedire la logica del riarmo, ma perché siamo consapevoli che l’umanità può essere distrutta”.

Dall’Arci all’Anpi, dall’Agesci alla Rete dei numeri pari, da Pax Cristi, ai beati costruttori fino a Cgil, Cisl e Uil e moltissimi altri hanno gridato l’ineluttabilità della pace altrimenti il rischio sarà la scomparsa dell’umanità. Mai il rischio nucleare è stato tanto reale e presente, e quel rischio

Cgil e Associazione Nazionale dei Magistrati hanno siglato un accordo per stringere ulteriormente la collaborazione tra le due organizzazioni. Per Massafra, Cgil, è un rapporto che guarda all'obbiettivo comune di costruire una società di diritto.

Accordo Anm Cgil

 

La cornice era certa autorevole, il Palazzo di Giustizia di Roma, lì lo scorso 24 ottobre il segretario generale della Cgil Maurizio Landini e il neoeletto presidente della Associazione Nazionale dei Magistrati Giuseppe Santalucia, hanno sottoscritto una convenzione dal doppio risvolto. Il primo certamente pratico, gli iscritti alla Anm potranno usufruire di tutti i dei servizi dedicati alla tutela individuale della Cgil: ““la Cgil metterà a disposizione degli iscritti all'Associazione nazionale magistrati – si legge nell’accordo - i servizi di assistenza e consulenza nelle materie di sicurezza sociale, tutela dei danni alla salute, previdenza, assistenza fiscale, tutela al consumatore, assistenza agli inquilini e ai proprietari, attraverso il patronato Inca, i Caaf, Federconsumatori, Sunia e Apu”. Di contro: “L’Anm - prosegue l’accordo - metterà a disposizione delle iniziative e delle attività formative della Cgil le competenze dei propri iscritti concordando di volta in volta la partecipazione della persona più adeguata”.

Foto: Marco Merlini

Il secondo risvolto che la sigla del testo porta con sé lo indica Giuseppe Massafra, segretario confederale della Cgil: “sottintende la grande volontà di avvicinare due mondi associativi rilevanti come i nostri”. “A esempio – aggiunge il dirigente sindacale – a margine dell’incontro per la sigla del documento, abbiamo avuto uno scambio con il presidente Giuseppe Santalucia sugli aspetti da approfondire sui temi della riforma della giustizia guardandoli soprattutto dal punto d vista della necessità del potenziamento delle strutture che sono a garanzia di una maggiore efficacia della giustizia, a partire dagli organici e dalle strutture territoriali. Insomma, in quella breve chiacchierata che abbiamo voglia di approfondire grazie proprio a questo sodalizio è emersa l’interesse e la necessità di un confronto diretto e costante su queste questioni”.

È bene ricordare che stiamo parlando di una organizzazione che rappresenta il 92% dei magistrati e delle magistrate del nostro Paese, cioè del terzo potere dello Stato, ed è altrettanto bene ricordare che sono anni che la Cgil ha fatto della costruzione della legalità una delle componenti consistenti del suo impegno. “La legalità -aggiunge Massafra – è uno dei pilastri su sui si fonda la nostra azione sindacale per la costruzione di una società democratica. Proprio per questa ragione all’inizio del testo dell’accordo citiamo gli articoli dello Statuto della Confederazione che definiscono il nostro impegno in questo senso. Legalità è fondamento della democrazia e per questa ragione che questo sodalizio è quasi un atto dovuto rispetto alla mission di organizzazione di rappresentanza degli interessi generali del Paese e di un altro ambito, quello dei magistrati, che è il presidio, la garanzia che quella società democratica possa fondarsi su elementi di giustizia”. “Per noi – conclude il segretario – è senz’altro un passaggio fondamentale che suggella, che rafforza ciò che per noi da sempre la legalità”.

Non esiste, questo il punto, lavoro dignitoso se non è anche e forse prima di tutto, legale. Così come i presupposti dell’illegalità e anche della criminalità organizzata si fondano esattamente sulla negazione dei diritti, sia quelli sociali che quelli civili, all’interno della società. Dove lo Stato viene sostituito ad esempio nel creare lavoro, ecco che proliferano le mafie. “E allora – riprende il ragionamento Massafra – noi che facciamo dei diritti una bandiera, come elemento fondanti la società democratica non possiamo prescindere da questo elemento e anche da questo rapporto con chi opera nella giustizia, e con chi determina giustizia attraverso la corretta laica ed efficace interpretazione delle norme”.

Rete studenti e Udu davanti al dicastero dell'Istruzione: il nostro Paese è teatro di profonde disuguaglianze socio-economiche. I ministri Meloni, Valditara, Bernini, Salvini impersonati con delle maschere

Meloni, Valditara, Bernini, Salvini. Questi alcuni dei ministri impersonati con delle maschere dagli studenti e dalle studentesse questa mattina in flash-mob davanti al ministero dell’Istruzione. Ogni ministro ha tenuto in mano, poi, un cartello con su scritto quello che per la Rete degli Studenti Medi e l’Unione degli Universitari è un merito nella propria carriera. Così Valditara ha “tagliato 10 miliardi all’istruzione”, Salvini ha “ha scritto i Decreti Sicurezza”, Roccella “è una ministra antiabortista” e così via. Una polemica, quella dei sindacati studenteschi, che ha al centro l’aggiunta del termine “merito” al ministero dell’Istruzione, sintomo palese di una retorica profondamente sbagliata.

Nessun

Si è conclusa l'udienza preliminare per l'omicidio colposo della giovane operaia tessile. Cgil: “In una vicenda così grave sarebbe stato più opportuno il rinvio a giudizio”

Roma, ex Snia: il murales di Jorit dedicato a Luana D'Orazio Foto: Simona Caleo

In una vicenda così grave sarebbe stato più opportuno il rinvio a giudizio”. Con queste parole Francesca Re David, segretaria confederale della Cgil, commenta la conclusione dell’udienza preliminare davanti al tribunale di Prato per l’omicidio colposo di Luana D’Orazio, l’operaia di 22 anni morta stritolata dagli ingranaggi di un orditoio all'interno di una fabbrica di Oste di Montemurlo, nel distretto tessile di Prato, nel maggio 2021.

Gli imputati: solo uno a processo

Due dei tre imputati hanno patteggiato due anni e un anno e mezzo di reclusione. Il giudice per l'udienza preliminare Francesca Scarlatti ha infatti accolto la richiesta di patteggiamento avanzata dai difensori, richiesta su cui aveva concordato anche il pubblico ministero. Il patteggiamento è stato accordato a Luana Coppini, titolare della ditta dove il 3 maggio 2021 è avvenuto l'incidente mortale, e a Daniele Faggi, marito della Coppini e co-titolare dell'orditura. In entrambi i casi è prevista la sospensione condizionale della pena. Durante l'udienza è stata discussa anche la posizione del terzo indagato, tecnico della sicurezza, Mario Cusimano, che è stato rinviato a giudizio. Al processo verrà discussa anche la posizione della società dell'orditura tessile in qualità di persona giuridica.

La madre di Luana: “Molto delusa”

“Sono molto delusa. Speravo in una pena più giusta”. Sono le parole colme di amarezza di Emma Marrazzo, la madre di Luana D'Orazio. La signora Marrazzo si è detta “amareggiata per questa decisione”.

 

 

Per contrastare la crescente povertà bisogna migliorare la misura di sostegno per famiglie e lavoratori. Parola della sociologa Chiara Saraceno

 Foto: Stefano De Luigi/Sintesi

l reddito di cittadinanza non deve essere abolito ma migliorato. Lo sostiene la Commissione europea, ribadendo che va rafforzato perché “è necessario un sostegno più efficace per combattere la povertà e per promuovere l’occupazione“, con un’inflazione già alle stelle e le bollette in crescita vertiginosa. Lo dicono Caritas, Cei, Forum Disuguaglianze Diversità e Alleanza contro la povertà, secondo cui bisogna fortificare le politiche sociali e cambiare i requisiti di accesso, perché troppi poveri rimangono esclusi. Lo afferma il comitato scientifico per la valutazione dell’RdC messo in piedi dall’ex Ministero del Lavoro, e poi ancora esponenti del mondo cattolico, della sinistra, della società civile.   

Il 45,8 per cento sono lavoratori

La misura introdotta nel 2019 dal primo governo Conte, guidato dal Movimento 5 Stelle e da Lega per dare un sostegno al reddito delle famiglie e dei lavoratori, nei primi nove mesi del 2022 è stata percepita da 1.638.628 nuclei (almeno una mensilità di reddito o pensione di cittadinanza), con più di 3 milioni e mezzo di persone coinvolte e un importo medio di 551,51 euro (dati Osservatorio Inps).

Secondo uno studio dell’Inapp, Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, il 45,8 per cento dei percettori sono lavoratori poveri. Occupati ma costretti a chiedere un’integrazione salariale allo Stato per le retribuzioni “da fame”, anche a causa della cronicizzazione dei contratti a tempo determinato e dell’utilizzo massivo del part-time involontario.

Difficile quindi pensare che sia davvero un “metadone” o una “paghetta di Stato”, come l’ha definita in campagna elettorale la candidata premier Giorgia Meloni, che con i suoi Fratelli d’Italia e gli altri partiti della coalizione delle destre ha promesso prima la cancellazione e poi il sostanziale smantellamento di uno strumento già da tempo nel mirino anche di parte del centrosinistra, confermando la sua posizione di contrarietà nel discorso per la fiducia alla Camera da presidente del Consiglio.

Sotto la lente

Certo è che il reddito di cittadinanza sarà sotto la lente di ingrandimento del nuovo Parlamento. “Le posizioni si sono un po’ ammorbidite, per via dei disastri che si stanno verificando, dall’aumento delle bollette all’inflazione – afferma Chiara Saraceno, sociologa e docente universitaria -. Da aboliamo il metadone di Stato siamo passati alla versione: lo diamo solo a chi non è in grado di lavorare, ai fragili, a chi ha figli minori a carico. In realtà non si sa bene a cosa stia pensando la maggioranza di governo, forse a una borsa lavoro, ma da attribuire a chi? Mamma, papà, figli minorenni e maggiorenni?”.

Raccontato come la causa di ogni male della nostra economia, perché nella narrazione politica e giornalistica che lo ha accompagnato ha prodotto solo “fannulloni” e “disoccupati da divano”, il reddito di cittadinanza ha salvato dal baratro della povertà più di un milione di persone. Poche, rispetto alla realtà del nostro Paese.

Povertà in crescita

Secondo l’ultimo rapporto Caritas in questi tre anni e mezzo ha raggiunto poco meno della metà dei poveri assoluti, 5.571.000 persone (1 milione 960 mila famiglie) che rappresentano il 9,4 per cento della popolazione residente. Un dato che è cresciuto nell’ultimo anno, con un’incidenza che si conferma più alta al Sud, con il 10 per cento, ma che scende significativamente nel Nord-Ovest (al 6,7 dal 7,9 per cento). Tra il 2020 e il 2021 la povertà è aumentata più della media nelle famiglie con almeno quattro componenti, con la persona di riferimento di età tra i 35 e i 55 anni, in quelle degli stranieri e con almeno un reddito da lavoro.

 Foto: Michele Lisi/Sintesi

Allargare la platea

“Quello che sappiamo è che non va cancellato, anzi, va esteso, modificato allargando la platea. Se venisse abolito avremmo molti più poveri di quelli che abbiamo adesso e oltretutto l’intensità della povertà sarebbe maggiore – riprende Saraceno -. L’Istat ci dice infatti che il reddito di cittadinanza non ha fatto superare la soglia di povertà ma ne ha ridotto l’intensità. Questo vale per percettori che pur essendo occupati possono finalmente portare i figli dal dentista, che si possono permettere beni e servizi che dovrebbero essere basic e accessibili a tutti. Mentre il dentista da noi è un lusso perché non fa parte del servizio sanitario nazionale”.

Discriminazione e proposte

La professoressa Saraceno è stata alla guida del comitato scientifico per la valutazione del RdC nominato dal ministro del Lavoro Orlando del governo Draghi, che alla fine del lavoro ha presentato una serie di proposte di modifica per migliorarlo e renderlo più efficace.

“Su quello che andrebbe fatto, il Comitato, la Caritas, l’Alleanza contro la povertà, siamo tutti più o meno d’accordo – dice -. Contrariamente a quello che pensa l’attuale governo, bisogna allargarlo e non restringerlo. Innanzitutto occorre togliere la discriminazione nei confronti degli stranieri per i quali oggi sono necessari 10 anni di residenza, di cui gli ultimi 2 continuativi. Un simile criterio fa di noi il Paese in Europa con i requisiti più stringenti e non è rispettoso delle direttive in materia di accesso alle prestazioni assistenziali, poste a tutela anche degli italiani all’estero. Per questo, bisognerebbe portarlo a cinque anni”.

Tra le altre proposte, equiparare i minori agli adulti nelle scale di equivalenza, differenziare il contributo per l’affitto, non penalizzare chi lavora, ridefinire i criteri di lavoro congruo per stimolare l’accesso all’occupazione, promuovere l’assunzione dei percettori da parte delle aziende e rafforzare i patti per l’inclusione e i progetti di utilità collettiva.

Politiche attive cercasi

“D’altra parte da noi c’è un problema di politiche attive del lavoro che non ci sono e sul cui fronte chissà cosa succederà – aggiunge Saraceno -. Non basta affidarsi al meccanismo della domanda-offerta, le politiche attive sono una cosa seria, hanno bisogno di attenzione, formazione, consulenza, motivazione e risorse, e anche sul piano dei servizi di inclusione bisogna darsi da fare molto di più. Penso a quanti sono molto lontani dal mercato del lavoro, che hanno bisogno di essere affiancati e qualificati, ai neet (giovani che non studiano e non lavorano, ndr). Non è vero che i percettori rifiutano le offerte, nessuno lo ha mai dimostrato, a parte quegli imprenditori che lo dichiarano in interviste prive di qualsiasi evidenza empirica”.

Da qui la necessità condivisa da più parti di rafforzare la collaborazione e il coordinamento tra i centri per l’impiego e i servizi sociali territoriali tramite la definizione di protocolli di lavoro congiunto e di promuovere l’utilizzo integrato delle banche dati degli enti coinvolti.

La raccomandazione europea

“Aggiungo che a fine settembre la Commissione europea ha inviato agli Stati membri una proposta di raccomandazione – conclude Saraceno - che incoraggia i Paesi ad adottare un reddito minimo adeguato a garantire una vita dignitosa, misure di inclusione sociale efficaci ed efficienti, laddove le persone siano in grado di lavorare, politiche attive per assicurare un lavoro buono. Tra i punti della proposta, migliorare l’adeguatezza, usare una metodologia trasparente e solida, migliorare la copertura e il ricorso pur salvaguardando gli incentivi al lavoro. Insomma, tutto l’opposto rispetto a quello che vorrebbero fare i partiti al governo”. 

 

Per la Caritas quasi un decimo della popolazione è in povertà assoluta e un quarto a forte rischio. Pallone, Cgil: “Servono uno stato sociale universale e strumenti di sostegno al reddito adeguati”

Reddito minimo garantito per over 55? Un obiettivo di equità Foto: Indonesia, la mano di un lavoratore in un cantiere navale. Foto di AdamCohn da flickr

In prevalenza vivono al Sud, ma si trovano anche nelle regioni settentrionali. Vivono in case in affitto, hanno bassi titoli di studio, in tanti e tante hanno salari bassi. Molti, troppi sono bambini e bambine. Sono i poveri assoluti del nostro Paese. E sono aumentati nonostante il Reddito di cittadinanza abbia evitato che un altro milione di cittadini e cittadine sprofondasse nella miseria.

È il racconto di un’Italia ammalata di diseguaglianze, che si ereditano e approfondiscono. E il merito o la mancanza di esso non c’entra proprio nulla. C’entrano le condizioni economiche e sociali di una società che tardi si è assunta la responsabilità di “entrare in Europa” introducendo strumenti di contrasto a un fenomeno che ormai coinvolge un decimo della popolazione, e che oggi si vorrebbero cancellare. Invece da almeno un ventennio è stata adottata una strategia di tagli allo stato sociale, che dovrebbe essere lo strumento di redistribuzione della ricchezza prodotta dal Paese. La fotografia l’ha scattata la Caritas che in occasione della giornata internazionale di lotta alla povertà, lo scorso 17 ottobre, ha diffuso il suo ventunesimo Rapporto su povertà ed esclusione sociale.

I numeri sono sconcertanti, dice il Rapporto: “Le famiglie in povertà assoluta risultano un milione 960mila, pari a 5.571.000 persone (il 9,4% della popolazione residente). L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno (10% dal 9,4% del 2020) mentre scende in misura significativa al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%). In riferimento all’età, i livelli di povertà continuano a essere inversamente proporzionali all’età: la percentuale di poveri assoluti si attesta infatti al 14,2% fra i minori (quasi 1,4 milioni bambini e i ragazzi poveri), all’11,4% fra i giovani di 18-34 anni, all’11,1% per la classe 35-64 anni e al 5,3% per gli over 65”.

Tra le diseguaglianze che si approfondiscono, poi, ci sono anche quelle territoriali: “L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno (10% dal 9,4% del 2020) mentre scende in misura significativa al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%). Non bastasse, ai poveri assoluti vanno aggiunti 15 milioni di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale. Insomma, un quarto dell’intera popolazione in condizione di grande fragilità. Lo dicevamo: sono soprattutto minori, anziani e migranti, servono misure forti e strutturali.

Tante sono le facce della povertà. Ne esistono due, tra quelle individuate dalla Caritas, che in questi giorni fanno riflettere. “Il rischio di rimanere intrappolati in situazioni di vulnerabilità economica, per chi proviene da un contesto familiare di fragilità è di fatto molto alto. Il nesso tra condizione di vita degli assistiti e condizioni di partenza si palesa su vari fronti oltre a quello economico. Prima di tutto nell’istruzione. Le persone che vivono oggi in uno stato di povertà, nate tra il 1966 e il 1986, provengono per lo più da nuclei familiari con bassi titoli di studio, in alcuni casi senza qualifiche o addirittura analfabeti (oltre il 60% dei genitori possiede al massimo una licenza elementare). E sono proprio i figli delle persone meno istruite a interrompere gli studi prematuramente, fermandosi alla terza media e in taluni casi alla sola licenza elementare; al contrario tra i figli di persone con un titolo di laurea, oltre la metà arriva a un diploma di scuola media superiore o alla stessa laurea”.

Insomma, per chi è meno istruito è più facile cadere in povertà. Contemporaneamente bimbi e ragazzi che nascono da genitori con bassa scolarizzazione sono “destinati” a un percorso d'istruzione accidentato e spesso anticipatamente interrotto. Altro che merito, la Costituzione dice tutt’altro, basta rileggere l’articolo 3. Per Giordana Pallone coordinatrice Area Stato sociale e diritti della Cgil nazionale, per spezzare il circolo vizioso dell'ereditarietà della condizione "è necessario uno stato sociale forte pubblico e universale, capace di prendere in carico chi ha una situazione di fragilità e capace di rimuovere all’origine le cause che producono esclusione sociale. L’unico modo per farlo è rafforzare le infrastrutture sociali in ogni territorio, realizzare una fitta rete di servizi pubblici capaci di garantire interventi e prestazioni a tutta la popolazione”.

Ma ciò che più preoccupa gli estensori del rapporto è l’ereditarietà della povertà. I figli di genitori a bassa scolarizzazione “ereditano” l’insuccesso scolastico che determina povertà. I figli di lavoratori a bassa qualifica e basso salario, a loro volta, ereditano quella collocazione nel mondo del lavoro: “Più del 70% dei padri dei nostri assistiti risulta occupato in professioni a bassa specializzazione. Per le madri è invece elevatissima l’incidenza delle casalinghe (il 63,8%), mentre tra le occupate prevalgono le basse qualifiche. Il raffronto tra le due generazioni mostra che circa un figlio su cinque ha mantenuto la stessa posizione occupazionale dei padri e che il 42,8% ha invece sperimentato una mobilità discendente (soprattutto tra coloro che hanno un basso titolo di studio)".

Cosa fare lo si legge nei numeri e nei determinanti della povertà. Istruzione, lavoro dignitoso e stabile, strategie di inclusione sociale a cominciare dai servizi per l’infanzia. Ma occorre partire dal sostegno al reddito migliorando lo strumento che esiste, a cominciare dal renderlo esigibile alle famiglie più numerose e agli stranieri. Aggiunge Pallone “Sono preoccupanti le dichiarazioni programmatiche della presidente del Consiglio Giorgia Meloni in merito alle intenzioni di mettere mano al Reddito di cittadinanza. Oltre a essere preoccupanti denotano anche una scarsa conoscenza sia della misura che della povertà in Italia. Dire che il Paese continuerà a sostenere chi è in difficoltà e non è in condizione di lavorare, mentre chi è in condizione di lavorare deve andarci e non stare sul divano, significa non conoscere i dati dei percettori della misura e non conoscere né le condizioni di chi vive in povertà, che ha bisogni complessi e deve ricevere servizi e politiche adeguate, né del sistema produttivo".

"L’ultimo rapporto di Anpal - prosegue - dice che a giugno delle oltre due milioni e mezzo di persone che percepiscono il RdC solo 900mila sono avviabili ai centri per l’impiego in condizione di essere occupate. Ed è bene ricordare che quasi il 20% di questi è già occupato, quindi lavora ma è povero. La questione non è introdurre misure vessatorie per chi percepisce il sostegno al reddito e non lavora. Occorrono possibilità di lavoro dignitoso, che siano attivati percorsi di formazione e di inclusione lavorativa anche per questa popolazione, che per i due terzi è disoccupata da più di tre anni e per altri due terzi ha un livello di istruzione fermo alla scuola media inferiore. Insomma, la retorica della Meloni non si fonda su nessun dato disponibile”.