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LE ELEZIONI E LA GUERRA. Dal pronosticato successo di Meloni, un colpo esiziale alla Ue, che si vuole fragile e divisa. Lo stesso obiettivo di Putin che usa l’arma del gas a questo scopo

Magdalena Abakanowicz. Crowd and Individual - Mostra - Venezia - Fondazione  Giorgio Cini - Arte.it Un'opera di Magdalena Abakanowicz

L’economia europea è unificata in un mercato sovranazionale. La sovranità politica invece, resta frazionata in una pluralità di Stati. Abbiamo la moneta unica, ma non un fisco comune. Con la pandemia qualcosa è cambiato. Il Next Generation Eu e lo Sure hanno creato un debito comune e condizioni favorevoli per nuove regole fiscali e per dare il via a «un bilancio federale».

Senonché due grossi ostacoli – il sovranismo nazionalista e la governance liberal-liberista dell’Ue – si frappongono al cambiamento, alla costruzione di un’agenda europea incardinata sui temi della pace, del contrasto al cambiamento climatico, della crisi energetica, del passaggio alle fonti rinnovabili, del Welfare.

Per i sovranisti l’Europa va bene solo quando porta vantaggi immediati al proprio paese. La pensano così Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che imputano alla Ue la responsabilità della bassa crescita dell’economia italiana e ne denunciano ritardi, burocratismo e altro. Non fanno mistero di volerne ridimensionare il ruolo, non solo mantenendo il diritto di veto nel Consiglio europeo, ma puntando esplicitamente a ribaltare il primato del diritto europeo su quello nazionale.

Confondono l’interesse nazionale con il nazionalismo e il protezionismo, in perfetta sintonia con il premier ungherese, Viktor Orbàn, e con quello polacco, Mateusz Morawiecki. Non importa se poi uno è filo russo e l’altro atlantista. Fatto sta che l’unità e l’autonomia politica della Ue sono minate da una destra sovranista che si mette di traverso e blocca qualsiasi decisione tendente ad affrontare l’emergenza gas e le ricadute economiche e sociali sui popoli del continente.

La debolezza politica europea è determinata anche da una gestione ispirata al culto della stabilità monetaria, al mito di una crescita senza limiti, ad una fiducia incondizionata nelle virtù taumaturgiche del «libero mercato» e delle innovazioni tecnologiche. La guerra russo-ucraina ha messo in discussione il groviglio di legami e di reciproche dipendenze intessuto tra gli Stati negli anni d’oro della globalizzazione economica e finanziaria.

La matassa è così intricata che la Russia, sottoposta a dure sanzioni dai paesi occidentali, riesce a guadagnare come non mai dalla vendita di metano e petrolio, nonostante abbia tagliato i rifornimenti. Succede poi che gli Usa e la Norvegia, alleati Nato, ricavino enormi utili dalla vendita di fonti fossili ai paesi europei, naturalmente a prezzi maggiorati. E succede che l’Olanda, paese dell’Unione, veda crescere il suo Pil grazie alle speculazioni della Borsa di Amsterdam sul mercato del gas.

Siamo in un’economia di guerra, ma «i mercati tendono a preoccuparsi più dei prezzi dei bond che non del benessere della gente» (J. Stiglitz). E’ noto che nei periodi di guerra alcuni territori prosperino a spese di altri, alcuni settori (armi, energia, credito) realizzino grandi profitti e altri siano costretti a chiudere. Durante le emergenze gli «animal spirits» del capitalismo, lasciati a sé stessi, accrescono gli squilibri e accentuano le disuguaglianze. Fasce ristrette di popolazione si arricchiscono sempre di più mentre l’area del disagio e dell’emarginazione sociale aumenta.

La crisi della globalizzazione, che ha trovato nel nostro continente un significativo punto di caduta, ha aperto crepe e falle difficili da tamponare con mere misure emergenziali o diffondendo l’illusione, come fa la leader di Fratelli d’Italia, che il nostro paese possa salvarsi in un’ottica nazional-sovranista. D’altra parte il tentativo di affrontare l’emergenza economica senza toccare i meccanismi economici e i rapporti sociali ci porta diritti a quella «decrescita infelice», spesso evocata dai liberisti di casa nostra con disprezzo e ironica ignoranza nei confronti della sinistra e dei movimenti ecologisti.

Il voto del 25 settembre condizionerà anche il futuro dell’Europa. La destra sovranista ha tutto l’interesse ad abbassare i toni sui temi europei perché sa bene che l’opinione pubblica, in grande maggioranza, è europeista. Conviene piuttosto alla sinistra che il confronto cresca d’intensità, che l’Europa diventi uno spartiacque fondamentale tra destra e sinistra.

Il successo del partito della Meloni, come pronosticano i sondaggi, darebbe un colpo esiziale al rafforzamento politico dell’Unione, condannata così ad essere il classico vaso di coccio nel gioco delle superpotenze. Una Ue fragile e divisa è l’obiettivo di Putin, che non esita a usare l’arma del gas a questo scopo. Non è un mistero, inoltre, che l’amministrazione americana preferisca una gestione europea improntata alla deregulation, che ha un punto di forza proprio nella frammentazione dei sistemi fiscali, invece che alla regulation, una prassi politica che presuppone obiettivi comuni e condivisi.

Giorgia Meloni persegue appunto una linea che sposa atlantismo ed antieuropeismo. Una linea che nega autonomia politica alla Ue sul piano interno, privandola di un ruolo attivo e propositivo nelle relazioni internazionali. L’interesse nazionale coincide come non mai con un’Europa autonoma, democratica e federale.

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Chi vincerà le elezioni inciderà sulle future politiche energetiche, ma non potrà non rispettare gli impegni europei e dovrà affrontare la pressione di una parte del mondo imprenditoriale, del lavoro, dei giovani e degli ambientalisti.

Certo, a seconda della coalizione vincente lo scenario energetico sarà differente.

Il Pd ha inserito nel programma l’obiettivo di installare 85 GW di rinnovabili entro il 2030. Centrodestra e Azione parlano di nucleare e di rilancio della produzione di idrocarburi. Il programma dei 5Stelle non contiene target, ma ci si può aspettare una grande attenzione su rinnovabili ed efficienza.

Quali sviluppi, dunque?

La possibilità di un rilancio del nucleare in questo decennio è pura fantasia ed è solo un argomento di campagna elettorale. L’estrazione di gas o petrolio nei giacimenti marginali dell’Adriatico sarà del tutto ininfluente e, soprattutto, poco conveniente.

La transizione ecologica sarà invece centrale, anche considerando il contesto globale. Siamo di fronte agli effetti dell’emergenza climatica che sta colpendo pesantemente vari paesi, dal Pakistan allagato all’Africa, dagli Usa con temperature record all’Europa assetata.

Secondo i dati di Copernicus, gestito dalla Commissione Europea, nel Continente la siccità nell’estate 2022 è stata la peggiore degli ultimi 500 anni.

A fronte di questi segnali, sempre più allarmanti, va ricordato che gli impegni presi dalla maggior parte dei governi sono molto lontani dall’ambizione necessaria per affrontare la sfida climatica.

Dovremmo ridurre, infatti, le emissioni del 40-50% al 2030 per riuscire a raggiungere gli obiettivi di Parigi, mentre le emissioni globali sembrano invece destinate ad aumentare alla fine di questo decennio del 16% rispetto ai livelli del 2010.

D’altra parte, ci sono diversi segnali positivi che fanno sperare.

Pensiamo all’incredibile crescita del solare nel mondo, con un incremento del 38% nel difficile 2022. E con un altro forte balzo previsto nel 2023. Passando all’eolico offshore, la stima di McKinsey è di 630 GW installati entro il 2050, rispetto ai 40 GW del 2020. E continuano i miglioramenti delle prestazioni dei sistemi di accumulo, con interessanti novità (anche italiane).

Sul fronte delle auto elettriche si sono viste in Europa vendite per 2,2 milioni, un primo passo verso l’obiettivo di 30 milioni al 2030.

Come ha recentemente dichiarato Jennifer M. Granholm, ministra dell’energia degli Usa, sono ormai ben 40 milioni le persone che lavorano nei settori delle energie pulite, superando per la prima volta gli occupati nel comparto della produzione, trasporto e utilizzo dei combustibili fossili.

Insomma, la transizione climatica si è messa in moto. E in qualche paese i governi riescono ad accelerarla.

Pensiamo agli incredibili obiettivi della Cina, dalle rinnovabili alla mobilità elettrica, per finire al recente potente Inflation Reduction Act negli Usa.

E non dimentichiamo dopo l’aggressione in Ucraina il lancio in Europa del REPowerEU per accelerare la transizione verde oppure il piano tedesco che ha deciso di puntare al 100% di rinnovabili elettriche al 2035.

Venendo all’Italia, forse è bene ricordare che, se non ci fossimo bloccati dal 2014 sull’installazione di elettricità verde, le rinnovabili avrebbero potuto evitare un quarto del consumo di gas che proveniva dalla Russia e attenuare così l’attuale crisi energetica.

Malgrado i forti ritardi, anche il nostro paese, a fronte degli ambiziosi obiettivi della UE, ha alzato i propri. Così, nel 2030 dovremmo arrivare al 72% di elettricità verde contro il 36,4% del 2021.

Il prossimo governo, qualunque sarà il suo colore, dovrà quindi affrontare sforzi giganteschi in diversi settori nei quali siamo in ritardo.

Al rilancio delle rinnovabili dovrà infatti corrispondere l’avvio di una fase di reindustrializzazione green del paese, in particolare nel Sud, dalla mobilità elettrica alle batterie, dalle fabbriche di moduli solari e aerogeneratori alla produzione di elettrolizzatori per l’idrogeno verde.

Ci sarà poi una grande attività da sviluppare nell’adattamento ai cambiamenti climatici, vista la fragilità del nostro territorio. E anche in questo ambito siamo in grande ritardo.

Ma tornando ai risultati delle elezioni politiche, è evidente che la formazione del prossimo governo sarà molto importante sia a livello interno che nei rapporti con l’Europa. Quindi, il risultato influirà sulle politiche che verranno avviate.

Penso però che, pur in presenza di notevoli contraddizioni, siamo immersi in una trasformazione su scala globale che si allarga a macchia d’olio.

Peraltro, a ricordarci l’importanza della sfida del riscaldamento del pianeta, venerdì 23 settembre nelle città di larga parte del mondo si svolgeranno manifestazioni per sollecitare i governi ad essere più incisivi riguardo all’emergenza climatica.

Il prossimo governo non potrà non rispettare gli impegni europei sulla transizione energetica. E su questo si dovrà confrontare con la pressione di una parte del mondo imprenditoriale, del lavoro, dei giovani e degli ambientalisti.

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VERSO IL VOTO. L'intervista all'ex sindaco di Riace

Lucano: «Con queste destre dei muri e dei ghetti vincono gli antivalori» 

«Sono triste ma non rassegnato», con queste lapidarie parole Mimmo Lucano ci accoglie. Mancano poche settimane alle udienze conclusive del processo di Appello in corso a Reggio Calabria: il 25 ottobre la requisitoria e poi le arringhe difensive. «Ogni tanto mi sveglio e queste giornate così malinconiche sembrano non passare mai».

Lucano, la coalizione di centrodestra, dicono i sondaggi, si appresta a vincere le elezioni del 25 settembre. In tema di immigrazione, si prevede il blocco navale, il pattugliamento delle coste e il ritorno dei famigerati decreti sicurezza firmati Salvini che tanto impatto hanno avuto qui a Riace. È preoccupato?
Potrei rispondere con una battuta. Ovvero che sarei ancora più preoccupato se la sinistra facesse la destra. Perché questo programma non fa che rispecchiare il progetto di società che le destre non solo italiane prefigurano. Queste sono le destre che in tutto il mondo governano edificando muri, fili spinati, ghetti e che incitano alla discriminazione razziale. La sinistra ovviamente è altro. Con la destra è naturale che l’egoismo prevalga sull’altruismo. Con la destra al potere assisteremo a una deriva sociale improntata sugli antivalori. D’altronde, un comunista calabrese come Peppino Lavorato mi ripete spesso che razzismo, egoismo e fascismo sono facce della stessa medaglia. La destra inganna le coscienze, scatena una guerra tra poveri e trascina il peso della crisi sui più fragili, sugli ultimi, sui diseredati. Comunque potranno anche vincere ma il sogno del riscatto del quarto stato non potranno mai distruggerlo.

Dall’altra parte della barricata c’è molta confusione. Si è rotto il «campo largo» tra Pd e M5S e a sinistra persiste la divisione che genera competizione tra Sinistra italiana/Verdi e Unione popolare di De Magistris. Che giudizio dà di questa frammentazione?
Penso che sia divenuta ormai una deludente e masochista consuetudine. Purtroppo con “la fine delle ideologie” gli ideali hanno ceduto il passo al calcolo politico e la strategia di lungo periodo è stata abbandonata a favore di una tattica di piccolo cabotaggio per ottenere più poltrone possibili. Ma per fronteggiare la tirannia del neoliberismo occorrerebbe ben altro. Qui a Riace abbiamo cercato di opporci predicando e praticando il riscatto e l’emancipazione degli ultimi. Il mio modello di riferimento storico è il Fronte di unità popolare di Salvador Allende nel Cile degli anni 70: unità, autonomia e radicalità.

L’anno scorso alle regionali lei fu candidato nella coalizione di De Magistris che comprendeva anche Si. Oggi questi soggetti si presentano divisi e contrapposti. Qual’è il suo orientamento di voto?
Due anni fa mi proposero anche di candidarmi a presidente. Tuttavia la mia delicata posizione processuale mi portò a declinare l’invito. Ricordo bene poi l’assemblea di Lamezia quando dissi di no. E ricordo pure che De Magistris prese la parola per dire che io ero un valore aggiunto e insostituibile per la coalizione progressista che lui intendeva guidare. Ecco perché mi candidai nelle sue liste, ottenendo anche un buon risultato personale, con 10mila preferenze. Quanto alle elezioni del 25 settembre io appartengo alla sinistra della sinistra e mi comporterò di conseguenza. Mi auguro che le forze di sinistra prendano molti voti e abbiano rappresentanza parlamentare.

In estate il borgo di Riace si è rianimato come ai vecchi tempi. Che effetto le ha fatto invece assistere alle celebrazioni per l’anniversario del ritrovamento dei Bronzi officiate dal sindaco Trifoli, dichiarato ineleggibile da una sentenza?
Questa estate ho visto una partecipazione popolare inaspettata. Bambini afgani che raccontavano il loro viaggio della speranza, profughi palestinesi che dal deserto del Negher sono giunti fin qui a Riace, donne nigeriane che espulse dalla Germania hanno trovato in Calabria rifugio e salvezza. Ecco, questa estate Riace si è riconnessa con il mondo. E le attività sociali proseguono tuttora con l’asilo per i rifugiati, la mensa sociale, i laboratori, la scuola e il doposcuola per stranieri. E a tal proposito devo ringraziare Luigi Manconi e l’associazione «A buon diritto» per la sottoscrizione in mio favore, i cui proventi sono stati investiti nei progetti di accoglienza in corso. Quanto alle passerelle per i Bronzi, le lascio volentieri a Trifoli e ai suoi cantanti tipo Povia. Peraltro ho saputo che il sindaco ha anche abbandonato Salvini per approdare in Forza Italia.

In autunno è prevista la sentenza del processo di Appello che la riguarda. La corte ha riaperto l’istruttoria ammettendo prove a suo discarico. Questo le dà fiducia?
Non ho perso la speranza. So solo una cosa. Ovvero che rifarei tutto quello che ho fatto. Sono stato giudicato per motivazioni superiori di natura politica che esulano dalla mia persona. Ma io non cerco alibi, ho speso la mia vita per un ideale e continuerò su questo solco. E a tal proposito mi piace ricordare il vescovo Bregantini quando nel processo di primo grado ha detto che per lui «Riace è stato un luogo profetico».

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ECONOMIA DI GUERRA. Senza abbassare le armi di tutti, quelle militari e quelle economiche, e senza praticare una vera autonomia strategica europea, continueremo ad avere la guerra nel cuore del Continente. E a ottobre ci troveremo a fronteggiare, in Italia più che altrove, problemi drammatici in termini di inflazione

Abbassare le armi, quelle militari e quelle economiche

 

Di fronte a questioni fondamentali per il nostro futuro occorrono lucidità e onestà intellettuale. Gazprom ha annunciato la sospensione a «tempo indefinito» delle forniture di gas all’Unione europea tramite il gasdotto Nord Stream 1.

Al contempo l’Ue, dopo mesi di imbarazzato silenzio e di fronte a nuive divisioni interne, ha posto le basi affinché la prossima riunione dei ministri dell’Energia discuta della possibilità di introdurre un tetto al prezzo di acquisto del gas. Peccato che lo farà a rubinetti chiusi. Il fattore tempo, in politica, è tutto. Ammesso che le importazioni via Ucraina compensino almeno una parte di quelle bloccate a nord, molto dipenderà dal tipo di price cap che verrà varato.

Non è un dettaglio che si tratti di un intervento sul complesso dei mercati europei (interrompendo gli acquisti e attingendo agli stoccaggi interni nella misura in cui il tetto è superato) oppure di un tetto solo al prezzo del gas russo (iniziale proposta Draghi) oppure ancora – come sostiene la Germania – di un intervento degli Stati a copertura della differenza tra prezzi all’ingrosso e prezzi al dettaglio.

Il ministro Cingolani parla di un grande e inaccettabile «ricatto» russo. Ma cosa sono state gran parte delle nostre sanzioni (dal

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VERSO IL VOTO. Guerra, sanzioni, gas e petrolio, tutto questo ha un peso sulla peggiore campagna elettorale di sempre. Ma non tutti vogliono metterlo in evidenza

Un'opera di Antony Gormley Un'opera di Antony Gormley

La contro-risposta russa alle intenzioni della Ue di apporre un tetto al prezzo del gas russo, non si è fatta attendere: la sospensione delle forniture continuerà fino alla revoca delle sanzioni. Come era del tutto prevedibile.

Eppure le prime dichiarazioni della von Leyen e di Borrel rilanciano una convinzione. Tanto granitica quanto priva di fondamenti esibiti: l’Europa prevarrà! Come non si sa, dal momento che l’impazzimento del costo del gas non è solo opera della perfidia di Putin, ma del modo con cui viene fissato il suo prezzo.

LO SCHIERAMENTO padronale è più lucido della politica. Il presidente di Federchimica Lamberti riconosce che «è stato chiaramente un errore avere attribuito alla piattaforma Ttf di Amsterdam il ruolo di indicatore per il funzionamento di tutto il mercato del gas europeo», perché in questo modo si è costruita una comoda rampa di lancio per la speculazione. Ma la soluzione non sta nel ritorno a rapporti bilaterali tra produttori e consumatori di gas, ma nella costruzione di un ente unico europeo per l’acquisto di energia, che per la sua dimensione potrebbe fare valere il suo peso nella determinazione dei prezzi.

E NON SOLO DEL GAS RUSSO, poiché si tratterebbe di frenare anche le pretese dello shale gas statunitense. Certo, sarebbe un altro sfregio agli appassionati del libero mercato. Ma – come ha osservato l’ex ministro Giovanni Tria – «siamo in guerra e le regole di mercato sono state ben violate (come) accade nelle guerre». Che poi la scelta delle sanzioni si sarebbe rivolta contro i popoli degli stessi paesi che la ponevano in atto, era già scritto nei libri di storia. Si sa, sempre con le dovute differenze.

Intanto la Russia vende la sua energia a Cina e a India – che non disdegnano, soprattutto nel primo caso, di rivenderla a prezzo maggiorato all’Occidente -, mentre, almeno nel medio periodo, la sua economia è in grado di resistere. Casomai dovrebbe cogliere l’occasione per trasformarsi come aveva consigliato, inascoltata, la Presidente della banca centrale Nabiullina.

Ora la più colpita dalla minaccia russa è senz’altro l’Europa, ma le immediate conseguenze sono ormai planetarie.

L’ECONOMIA MONDIALE, per diversi fattori, sembra avvitarsi sempre più in un vortice incontrollabile, come il Maelstrom del celebre racconto di Edgar Allan Poe. Il Fmi disegna un quadro per il 2023 di recessione, o di «velocità di stallo» visto l’impasse contemporaneo di Usa, Europa e Cina.

Nessuna delle tre, il 49% del Pil mondiale, è ora in grado da fare da locomotiva. La Germania rischia di tornare ad essere il «grande malato» d’Europa.

Gli Usa hanno deciso di privilegiare la lotta all’inflazione. La Cina che tra il 2012 e il 2016, crescendo in media del 7,4%, aveva salvato il mondo da una recessione globale, non appare ora in grado di farlo.

Intanto l’Italia pensa da un lato ai piccoli risparmi di energia individual-famigliari e dall’altro di riattivare appieno sei centrali a carbone che emettono circa il doppio di Co2 di quelle a gas naturale. Non «una bellissima cosa» ha riconosciuto il ministro dell’Economia Daniele Franco, ma tant’è.

NEL FRATTEMPO L’EURO è posizionato sotto la parità con il dollaro. Il teorico vantaggio per le esportazioni è, in questa situazione, peggio che compensato dal costo dell’import, visto che il prezzo delle materie prime energetiche, quali gas e petrolio, è in grande prevalenza fissato in dollari.

L’attesa di un inusitato rialzo dei tassi di interesse di 75 punti base, che probabilmente verrà deciso nella riunione della Bce di giovedì 8 settembre, sommato a quello dello 0,50% del luglio scorso, farà felici i falchi e le colombe in mutazione genetica, non certo l’economia reale e l’occupazione. C’è una sola via per bloccare questo globale processo recessivo. Non basta, ma è imprescindibile: costruire un processo per la fine della guerra, per un cessate il fuoco, per la convocazione di una conferenza di pace internazionale. Ma è quello che non si fa.

Tutto questo ha un qualche peso sulla peggiore campagna elettorale di sempre? Se c’è è assai sbiadito e ben nascosto dietro il tradizionale paravento delle accuse e delle controaccuse, dove ognuno finisce per prendersela maggiormente con chi gli sarebbe più vicino. E ciò aumenta il numero degli indecisi, probabilmente dei non votanti, certamente della disaffezione alla politica.

I sondaggi ci indicano come ormai si guarda solo ai personaggi, non alle idee o ai programmi. Ma in questo caso vi è un altro motivo.

DRAGHI LO HA DETTO chiaramente nel suo discorso al meeting di Comunione e Liberazione. Chiunque verrà dopo di me troverà già una strada tracciata. Il Pnrr ci condurrà almeno fino al 2026 e le procedure per cambiarlo sono strettissime, come si è affrettato a dire Gentiloni.

Non è un caso che la Meloni si consigli con Draghi per avere i nomi dei posti decisivi del prossimo Consiglio dei ministri.

IL PERIMETRO DRAGHI in realtà la ricomprende, anche se le sue amicizie nella e fuori dell’Ue e oltre-atlantico creano qualche imbarazzo. Per questo era peggio che debole fin dall’inizio la strada scelta da Letta – o io o lei, per dirla in breve -, anziché quella di una contrapposizione puntuale sul terreno programmatico, ridotta a scontro di slogan, ma privata di una proposta complessiva di società, perché assente da tempo e perché la fedeltà all’agenda Draghi ha fatto agio su tutto. L’alternativa invece parte dalla sua contestazione.

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Il governo dichiara una crescita migliore del previsto, ma il "fact-checking" mostra debolezze e pericoli di recessione. L'economia non va e non andrà bene: serve una nuova strategia di sviluppo verde, digitale e sociale, fondato sul lavoro

 

In queste settimane di campagna elettorale sembra essere tornato di moda il fact-checking, ossia la verifica e l’accuratezza dei programmi presentati dai partiti o delle dichiarazioni dei leader politici. Non dimentichiamoci, però, di fare il fact-checking al governo.

Due giorni fa il ministro dell’Economia Franco ha dichiarato che nel 2022 con sei decreti sono stati stanziati 52 miliardi di euro, “restituendo al sistema economico le entrate che venivano da ripresa produttiva e inflazione”. Ha poi aggiunto di aver “superato le stime dei vari previsori grazie alla robustezza del nostro sistema produttivo”.

Il dato che consente al ministro di poter vantare una crescita migliore del previsto l’ha fornito l’Istat con il comunicato sui conti nazionali del 1° settembre scorso, dove si riporta una variazione congiunturale del Pil pari all’1,1% nel secondo trimestre dell’anno in corso, che comporta una crescita “acquisita” – che si ottiene in presenza di variazioni nulle nei restanti trimestri del 2022 – pari al 3,5%. 

 

 

In effetti, le previsioni di tutti i maggiori istituti nazionali e internazionali, nonché dello stesso ministero dell’Economia ad aprile, stimavano una crescita al di sotto di tale dato per quest’anno. Ciò induce a pensare, scontando l’inevitabile incertezza del contesto internazionale, che nei prossimi mesi potrebbe materializzarsi lo spettro della recessione. Anche i dati di giugno sulla produzione industriale (-2,1) e sulle vendite al dettaglio (-1,8) non lasciano presagire niente di buono.

A conferma di questa ipotesi, le previsioni per il 2023 riportate nel Documento di economia e finanza appaiono tutte al di sotto dei calcoli degli altri previsori. Stesso discorso sui calcoli sull’inflazione, con l’aggravante che la previsione del ministero del 5,8% a fine anno è già abbondantemente superata dall’inflazione acquisita senza speranza di una robusta frenata dei prezzi.

L’ottimismo del ministro dell’Economia, allora, potrebbe essere ricondotto alle misure messe in campo per affrontare l’emergenza, energetica e non, a partire proprio dai citati 52 miliardi. Eppure, a fronte di misure fiscali per quasi tre punti di Pil, l’effetto sull’economia appare davvero modesto. Lo stesso Istat conferma che il contributo positivo alla variazione del Pil può essere attribuito a consumi (1,5) e investimenti privati (0,4), pur registrando un segno meno sulle scorte per basse aspettative, mentre la spesa pubblica – nonostante il Pnrr – ha fornito un apporto negativo (-0,2), così come la domanda estera (-0,2).

A governo dimissionario, però, non si può contare su una strategia di rilancio degli investimenti, dell’occupazione e dei redditi. L’economia non va e non andrà bene nei prossimi mesi. E non tanto per l’incremento dell’occupazione – la cui variazione è prevista in quantità maggiore o uguale al Pil, al netto delle crisi aziendali che si scateneranno nell’autunno “freddo” – ma per la qualità del lavoro e, soprattutto, per la dinamica salariale, prevista dal governo come dall’Ufficio parlamentare di bilancio, al di sotto dell’inflazione, oltre che della produttività.

Al di là delle politiche economiche che verranno intraprese – speriamo rapidamente – nel contesto europeo per far fronte alla crisi energetica, occorre colmare i vuoti della nostra economia nel più breve tempo possibile, attraverso una nuova strategia di sviluppo verde, digitale, sociale, fondato sul lavoro. Chi si candida?

 

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